giovedì 31 luglio 2008

Un'altra storia


 Cominciò con la luna sul posto
e finì con un fiume d'inchiostro...


Willy Loman stava invecchiando, non riusciva a tenere bene aperti gli occhi quando guidava la sua decapottabile lungo le pianure del Texas. Sovente lo si sentiva parlare da solo; suo figlio Hap lo ascoltava di nascosto, per non sentirsi troppo apertamente in imbarazzo, per un padre così suonato.

Willy pronunciava sempre il nome di Biff, ci parlava in continuazione nei suoi vaneggiamenti; quel suo figlio trentacinquenne che ancora non riusciva a darsi una dimensione, immerso tra la sua insoddisfazione e le pressanti esigenze paterne.
Povero Biff, inetto e vivace.

Well, I spent six or seven years after high school trying to work myself up. Shipping clerk, salesman, business of one kind or another. And it's a measly manner of existence. To get on that subway on the hot mornings in summer. To devote your whole life to keeping stock, or making phone calls, or selling or buying. To suffer fifty weeks of the years for the sake of a two-week vacation, when all you really desire is to be out-doors, with your shirt off. And still - that's how you build your future... I've always made a point of not wasting my life, and everytime I come back here I know that all I've done is to waste my life...

Succede sempre così. Mi sono laureato a razzo, ho vinto un paio di concorsi. Sono stato ammesso a proseguire le mie attività in una località dove qualche centinaio di anni fa passeggiava Adam Smith, e nella torre dove David Hume scriveva il Trattato sulla natura umana.
Devo solo superare un piccolo ostacolo, per affrontare il quale domattina prenderò un treno.

Ogni tanto penso che le botte di culo non possono essere eternamente disponibili ai propri lerci comodi. Ed è per questa ragione che domattina parto con la certezza di non meritare granché. Una certezza oggettiva e non ipocrita, come chi si ama dipingere con falsa umiltà per ingenerare una strana forma di altrui pietà. Oppure per la pericolante ed incidentata difficoltà a riconoscere la propria dignità. Oppure per insicurezza, per sbadataggine. Per non saper ricordare in che posto della soffitta è andato a riporre un po' d'amor proprio ed un po' di coraggio.

La verità è che, lasciando da parte Smith e Hume, non me ne frega un cazzo. Ho bisogno di cambiare aria. E se Seneca aveva ragione appena un pochino, probabilmente è da se stessi che si deve partire, non dal voler cambiare il cielo sopra la propria testa. Le ciel ne change pas, isnt'it?

Quindi, sinceramente, continuo ad affrontare le cose con la solita strafottenza. Perché in fondo, ho smesso di curarmi da tempo sulla giustezza di quello che si merita o meno. Non è che abbiamo molti margini per giudicare quello che vige intorno, né di comprendere la bontà della rotta su sui ramificare le nostre strade. Io so dov'è che mi portano le mie strade. Sono troppo orgoglioso per poterlo dire a voce limpida, anche al telefono. Eppure mi viene semplice come respirare, come ascoltare le cicale di sera. Devo fare enormi sforzi di immaginazione per non sentirmi con un rattrappito mentale che parla da solo, nonostante le parole che ascolto.

Lo so dove portano, quando succede che ti senti circondato da continui richiami, come quando transiti attraverso le strade di una località marina di sabato sera. Accanto hai la tua migliore amica che ha colto ogni possibile segno di squilibrio patologico disegnato con precisione rinascimentale sulla tua faccia. Lei che ti conosce meglio di tua madre, e che parla al telefono per ore con un tizio ubicato chissà quanto lontano, ridendo e infondendo una soddisfazione commuovente in ogni dove. Mentre tu passeggi amorficamente col toscano acceso, gaiamente e scazzeggiantemente e cronograficamente senza pensare a niente (ma soprattutto a nessuno) per almeno cinque minuti, e poi? Basta svoltare l'angolo che ascolti a tutto volume questa canzone provenire da una villa nei paraggi.

Ma come si fa... Riferimenti, forse generati dalle suggestioni e dal desiderio di attaccarsi alle pareti dell'esistenza con tutta la
fallace volontà. Come colui che in "di sera un geranio" si spalmava in tutti gli oggetti della vita che stava per lasciare, per confondere una traccia tra quelle testimonianze, a cui aderiva come polvere di asfalto gommoso e indelebile. Invece la sua essenza vera lentamente si smarriva in un flusso che lo spegneva. Relegandolo al nulla.

La notte non dormo. Ma non è una novità. Riesco a chiudere gli occhi quando albeggia. Quando filtra uno strano grigiore che indora le fresche bastonate sulla schiena sempre maltrattata. Che cosa faccio? Niente di diverso da quello che mi riempie i momenti di apparente desta presenza. C'è un pensiero che mi ronza, una risposta da rendere a qualcosa che mi son lasciato per strada durante un dialogo.
Quale particolare privilegio ha questa piccola agitazione del cervello che chiamiamo "pensiero", perché debba essere presa a modello dell'intero universo? La nostra parzialità verso noi stessi ce lo pone di fronte in ogni occasione.

Capita sempre, quando sei perfettamente conscio che il mare delle parole profuse è un immensità che si racchiude in una teca di cristallo. Ne osservi la superficie, consenti solo ad un strato di anima di venire a galla. Si è sempre incompleti quando per ogni parola pronunciata ce ne sono mille altre che sai che vorresti affidare alla mente della persona che ti ascolta. Non lo fai, non perché esiste un codice di condotta che lo imponga.
Né sei in grado di opporti all'Ego che vorrebbe aprire le valvole dei sentimenti senza ritegno alcuno, e lasciare che chi ascolta possa specchiarsi in tutta l'importanza che riveste, senza saperlo, o senza nemmeno volerlo. Ed io ne sarei capace, è solo una tracotante forma di rispetto e di alienazione dall'odiata tecnologia a frenare il mio impeto.
Credo che l'Accademia dei Sillografi (non vi dico cos'è, leggete Leopardi) dovrebbe prevedere una copiosa ricompensa per chi riesce ad inventare un macchinario per misurare la sincerità.

Mi fermo a riflettere sulla possibilità che un'altra persona, estranea, con altri neuroni ed altri tempi sedimentati in diverse abitudini, possa diventare all'improvviso "importante". Com'è possibile consentire questa intrusione così pervasiva nelle proprie gelosissime priorità? Me lo chiedo da tempo.
Mi chiedo se esiste una rinuncia o un cedimento nel lasciare che qualcuno ci accolga nella propria importanza. I sentimenti sono dei cappi di responsabilità, sono delle catene di sguardi e giudizi, sono un abito troppo stretto che imprigiona la nostra libertà di espandersi.
La tristezza è comprendere che la propria espansione non è che un voler sollevare la braccia al cielo in attesa che giunga qualcosa da afferrare e raggiungere, cioè il nulla più nulla e basta.
Ma non voglio pensare che gli altri siano un'amara consolazione al vuoto della propria miseria, alla solitudine eterna che cova nonostante le sovrastrutture mielose con cui amalgamiamo le salse delle nostre relazioni, più o meno durature o effimere.

Né riesco a vedere negli altri un mero appagamento animalesco di arcaiche necessità al cui solo pensiero mi sudano le mani.
Io ho il dono delle parole per dare e ricevere qualcosa. Ma non basta la mutualità, non a chi sente di bastare a se stesso senza dover ricorrere alla compagnia altrui.
Siamo fatti male, non diamo niente alle persone. Però il dilemma permane. Qualcuno è importante. Qualcuno ha preso una parte di noi, a nostra insaputa. Ha creato uno spiraglio nel muro da cui nulla fuoriusciva.

Che cosa faccio per rispondermi? Nulla. Siamo empirici come David Hume. Ascolto la voglia immotivata di cercare, attendo che la sera mi assalga l'ombra di un silenzio che è un tono singolo e preciso che non canta all'interno di quel chiasso che baratterei volentieri con una parola pronunciata solo e soltanto da quella bocca.
La mano è fredda, nonostante la chiedano in tanti, con floridi sorrisi talvolta falsi e abominevoli.

Qualcuno è importante, qualcuno vive dentro un'altra persona secondo una nuova coscienza che è diversa dal ritratto che si ha della propria.
Esiste un grande male negli uomini: noi non ci apparteniamo mai del tutto. Basta parlare e non si è già più padroni di se stessi. Gli sforzi per mantenere saldo il controllo su una realtà che ci spia in continuazione sono chimere di libertà contro cui ci si difende opponendo un egoismo destinato giocoforza a franare sulle coordinate che il grande prestigiatore della esistenza ha mescolato per chiunque.

Molto nichilista e avvilente come prospettiva, senza effondere in citazioni ridondanti e fuoriluogo, disse Enzo Ferrari che la vita è una smisurata galera. Che facciamo? Andiamo ad Ostia ad attendere un'alba che ci spunterà alle spalle, mentre diamo sfogo agli incubi ricorrenti e alle ossessioni maniacali a cui conduce il guardarsi vivere solo e soltanto attraverso i propri occhi?

Attendiamo i cosiddetti momenti perfetti? Come Antoine Rocquentin da Bouville... oppure diventiamo islandesi, che pur martoriati dalla natura ostile, decidono che è possibile emergere?
Guarda, cara, siamo sul dorso di un vulcano. C'è ancora puzza di lapilli e cenere. Non scorgo alcuna presenza vitale in questo deserto di polvere. Però c'è una ginestra che resiste a tutto questo.

Un fiore resistente e testardo, la ginestra. Si illude di resistere alle fiamme se mette radici persino sul dorso di un vulcano.
Farà una brutta fine anche lei, probabilmente, ma lei ha vissuto. Si è arrampicata fin qui. Ha scelto la vita, e se finirà, sarà senza rimpianti.
I rimpianti uccidono molto di più della naturale conclusione delle cose.
Finché si è avuta la capacità di sorridere sempre e comunque, sarà sempre la libertà.

Le parole ci ingannano, sono false promesse di un'eternità che non è nelle cose umane. Ma solo nella profondità di momenti che possono superarci o lasciarci indietro, nella corsa del tempo.
Allora non parliamoci più. Guardami. E scopri le ragioni di abbandonarti nel sentirti importante senza temere di perdere nulla di te. Com'è vero che non è mai stato necessario parlarsi per comprendersi.

La storia è sempre una storia sbagliata. Ma guarda quella ginestra, possiamo coglierla ed essere forti. Ti tengo la mano, e non guardare al di là del prossimo passo. Solo alla bellezza di quello che sei. E non pensarci troppo, l
a ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse.
E al diavolo le storie sbagliate, ed il sentirsi fatti male.


Storia diversa per gente normale
storia comune per gente speciale
cos'altro TI serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.







E comunque, nessuna astinenza. Solitamente mi faccio dominare da istinti di altra natura. Almeno verso chi gode di ben altra considerazione da parte mia. La qual cosa porta a non guardare gli altri esseri viventi di sesso opposto come fossero solo meri buchi con le persone intorno.
Persino in un mondo di merda come questo.

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