martedì 29 aprile 2008

Io speriamo che me la cavo




Dopo l'esito dei ballottaggi, dopo che Rutelli riesce in un miracolo di quell'epica portata a perdere nei municipi "rossi" e a prendere più voti al primo turno anziché al secondo; dopo che uno come Schifani ti diventa presidente del Senato, a testimonanza che in Italia davvero tutti (tutti i cazzoni, specifichiamo) ce la possono fare, e che il sogno non è più americano ma tutto nostrano; dopo tutto questo le unghie non bastano.
La prossima volta per gli scongiuri, uso direttamente la grattugia. Vediamo se funziona. Intanto io son pronto: li facciamo 'sti girotondi adesso, sì o no? Dov'è la meglio gioventù? ...LRD, help me...

"...insieme a te non ci sto più, guardo le nuvole lassù... cercavo in teeeeehehehehe, la tenerezza che non ho, la comprensione che non so trovare in questo mondo stupido... Quella persona non sei più,
quella persona non sei tu... io trascino negli occhi, le correnti di acqua chiara dove io verrò (anzi, vevvò)... e quando andròòòòòòò...  devi sorridermi se puoi,  non sarà facile ma sai  si muore un po' per poter vivere...  Arrivederci amore ciao,  le nubi sono già più in là...  finisce quaaahahahaha...  Chi se ne va che male fa?... (fa, fa male, eccome se fa!!!)..."

... help me....

domenica 27 aprile 2008

Those moments...








La ricerca non va.

Il lavoro sta là.

Dei soldi lasciamo sta'.

Di femmine non ne parla'.

Ed io che ci sto ancor'a fa' ?

Sempre e solo a'mbriaca'...

Ringrazio con devozione e affetto (per quel che può valere la parola "affetto" pronunciata da un turpe malcreato senza cuore) Sua Grazia Madame Revanche che ha perduto qualche ora del suo ultimo sabato pomeriggio ad assecondare i miei inverecondi deliri di
didascalica onnipotenza con PhotoShop. Nonché per i suoi inutili tentativi di destare una parvenza di autostima nel sottoscritto, nonché dell'incenso lessicale che talvolta spreca in maniera subliminale, sempre nei riguardi del sottoscritto, nel suo blog; incenso che io sinceramente adopererei con maggior giudizio. Ma ognuno è libero di sprecare i propri talenti come crede. Io ne sono una prova esemplare.
Però con le scarpette ancora non ci siamo, fattelo dire con tutto il cuore.

E vaffanculo al Super-Io.
 Perché non mi fa parlare come dovrei e vorrei, e fottermene delle conseguenze.
(Stamane ho scritto un inutile post ben sintetizzabile con quest'ultima dichiarazione)

Mi hanno fatto bere un intruglio verde spacciato per thé Himalayano, assicurandomi che assumendone un cospicuo quantitativo giornaliero mi farebbe pure dimagrire. Semplicemente perché ti brucia i reni e ti costringerà a trascorrere il resto dei giorni su un letto bianco con lo schienale reclinabile a fare la settimana enigmistica per chissà quanti fottutissimi giorni prima che la campana suoni per te...
E son dovuto rientrare di corsa a casa per correre al cesso... per cavar fuori persino l'anima da ogni fuoriuscita possibile, che schifo.

Ed invento così oggi la tag: "serate di merda", ma lo scrivo in inglese non perché fa più figo con gli standard intellettivi attualmente vigenti, ma perché I'm angly inside.
Sono presuntuoso? Cavoli vostri...

Per di più l'aggravante di dovere stare a parlare seduto su un cuscino del perché cazzo gli agricoltori, gli allevatori, i giovani frocietti che vagano indisturbati per l'Italia, e la classe operaia tutta, votano per il Popolo della Libertà (che nome stronzo di partito...).
Poi guardo in faccia i miei interlocutori e capisco il perché, che massa di disgraziati... Leggere Gramsci è una perdita di tempo, oramai i vincenti vanno cercati altrove.

E tu che stai a ronzare seduta alla mia destra, ma stavi parlando con me? Che hai detto, non ho capito? No, non ti preoccupare, non mi interessa. Taci.
Non c'è che dire, autonoma, veramente autonoma.

Alcor, ma allora è sicuro che te ne vai?

Devo passare l'esame del TOEFL prima.

Quando?

A Giugno, probabilmente.

E se non lo passi? Resti...

No.

Perché?

Sarà la volta buona che mi ammazzo sul serio.


Un abbraccio sincero alla bambolina russa.
Ma smettila con lo yogurt e la pasta col pesto. Meglio il mont-blanc zabaione e cioccolato.



Some sunny days




Il gioco della vita gira intorno ogni volta. Ma approda sempre lì. In quelle parole così chiare e nitide che ballano talmente apertamente davanti alle mie labbra, e alle spalle della paura che al prossimo giro la sella di quella giostra possa essere vuota.
Ci sono parole che trasudano lentamente e ostinatamente fuori le fessure del muro, assumono acronimi e si mascherano dietro volti e sorrisi che lungi dal riempire un quiete silenzio di attesa e di ascolto, narrano molti più segreti che invano si impone di ingoiare nella sempre riafforante memoria catartica di una vertigine senza tremori, finalmente.
Come punti diametralmente opposti nel cielo, che si rincorrono nel cerchio rapido della notte senza prendersi mai per mano e guardandosi senza capire perché, e per cosa.
Una sfera di vetro che sembra voler racchiudere e condensare questo equilibrio danzante di gesti e sviste, che accerchiano come polveri quell'unico faro appeso alla parete del muro. Sotto una tegola che da sola sbarra gli occhi.
Non ce la faccio. A non perdere. A restare in piedi. A respirare di un'aria più grande ed espansa di tutto questo che riaffiora ad ogni giocoso sussulto. Per quanto possa apparire assurdo... Io vorrei...

E non è la ragione a infilazare i talloni sguscianti alla morsa di una prudenza che non mi è mai appartenuta, che è solo un morso di fango che appesantisce un terreno sul quale non è umano strisciare ma etereo correre senza fuggire, ma per inseguire. Vigila ancora la paura di essere veri. Di essere sempre e ancora una volta sbagliati a piegarsi per raccogliere questa timida parvenza di miele che non si traduce in null'altro che nell'ardore immenso, filtrato timidamente in piccoli gesti che trattengono a stento una furia incontenibile di vita. Solo infinitesimi sussurri, spesso troppo deboli e leggeri per disegnare su una pagina nivea quanto spazio da colmare sia ancora aperto nel cielo.
E questa dolce fregatura dell'anima non accende un diritto a scrivere e costruire una storia senza capitoli, senza epiloghi, smarrendone financo l'indice, rifugendo numeri di pagine e dimenticando l'origine, diperdendo il concepimento ed il prologo della propria esistenza in quell'istante di durata incerta e meravigliosa che giustifica ogni cosa che muove o si lascia afferrare. Involontari soggiorni e le vuote stanze quotidiane.
Non è una triste rinuncia a quello che non sono. Ma un infimo sospetto che tutto quel che quivi giace non è reale; che non v'è una meritevole ragione per meritare tutta questa luce, un simil bagliore generato dalla umile coscienza di poter soltanto immaginare e rendere omaggio a questa beatitudine rara... Io non vorrei...
Quando tutto quel che circonda questo piccolo scrigno è un deragliamento continuo nel marcio. Perché dovrebbe risparmiare anche me? Non prestate ascolto ai deflussi razionali di un folle, il suo è un dizionario troppo zeppo di scorie passate smaltite senza finalmente sparire.
Non si comprende, non mi comprendi, io non mi comprendo e non mi lascio comprendere. In questo girare intorno senza fine. Dove è più che feroce il rodente rimpianto di abdicare forzatamente al furente ed impetuoso ridondare di pensieri sempre immobili, che non potrei spendere senza lasciarmi travolgere.
C'è un bianco tra i vocaboli tersi, c'è uno spazio che non è inventariato tra le conquiste dell'indecisione e della timidezza, o del non aver nulla da dire. Uno spazio che è fin troppo trasparente e loquace, di quel che  si eclissa con una nuvola che protende un'ombra lieve su quel magnifico viso del sole. 
E' forse la mia unica vera tristezza, non avere le parole giuste, oppure averle e non riuscire a offrirle, derubando la mia vita che è fuori con un timore ed uno stupore che è dentro, che scava e scava, e scava.
Ed è qualcosa che è mio pur veleggiando altrove, è mio pur con altri volti, è mio pur non albergando forse nel mio orizzonte.
E' un canto che non parla di me. Ma non sa smettere, e non sa tacere, non è capace di non cercare.
Non ci riesco a fermare queste mani. Questa voce può addormentarsi ancora... ma se vuoi...



sabato 26 aprile 2008

Giovedì






Ad aprile l’arenile disabitato è molle, la marea ad ogni morso sulla terra mastica le stesse leccornie di ciarpami di alghe e conchiglie svuotate che aveva già ivi irrorato durante i rigurgiti lenti specchianti le sonnacchiose occhiate di luna.


L’odore dell’acqua ha uno spessore più legnoso e sinceramente più denso se sniffato in un giorno lontano dalla calda indifferenza di luglio, ed è combinato ad un tanfo di gomma bruciata; si persuade e si concilia in quell'irreale storno dalla scena, ogni singolo guizzo di mondo, avulso in quella minuziosa decomposizione dell'ordine; come quel puntuale amorfo ticchettìo che cercavo in qualche vago rintocco metallico che fosse prossimo o discosto, per ritrovarlo poi negli alberi di due imbarcazioni che si toccavano nel vento fendente la bonaccia che li premeva entrambi, l’uno contro l’altro.



La pensilina sul mio capo è troppo corta per riparami dai raggi che picchiano e gonfiano le odorose esalazioni marine ed industriali colluse a pochi sguardi da me. Nel lacrimoso sebo lubrificante lo sguardo, tacitamente cigolante tra le palpebre arricciate, e mendicante un debito di sonnolenza da imminente bancarotta dell'equilibrio-salute, si ovattano le esclamazioni screanzate dei conducenti frustrati dei tram al metano, all’indirizzo delle prostitute nigeriane imbellettate che transitano a zonzo qua e là indossando delle calzature ridicole che non arrivano a riempire completamente il piede e lasciano metà pianta strisciare oppure appesa. Urlano sempre. Le potrei ancora raccontare, nella mia pendolare memoria di studente viandante, come un antidoto alla tranquillità; soprattutto durante le tratte più lunghe, quelle tese a combattere tra il mal di stomaco e l'aria gravida dello squamoso velluto rosicchiato dei sedili, che aveva come naturale epilogo la quotidiana emicrania, cui seguitava l'assunzione della quotidiana dose di nimesulide. Unica sostanza chimica che può vantare di aver turbato la mia vita, a dispetto di qualsivoglia lisergica aspirazione.



Mi piacerebbe correre tra questi piloni del ponte e del raccordo, sull'imbarcadero più sporco d'Italia, ma che trasuda di una mesta speranza, che è speranza solo per l'inerte e opaca abitudine a rincorrere, che fa tuttavia dimenticare cos'è che poi si anela, in fondo al percorso.


Biancheggiano giorni strani in cui potrei paventare l'esistenza di qualcosa indistinta nel diluirsi del tempo che stia tenendo in serbo per me una qualche forma di felicità. Ha il profilo di una parola inerte scivolata via con più miti intenti di quelli che potrebbe attingere abbracciando i reconditi assunti che cavalcano la notte al calar delle mie impudiche resistenze di circostanza. Parole che senza caricarsi di alcun futuro mi chiedono di non andar via quando sono già voltato di spalle, con il passo della ritirata che è già concepito nel flusso che scorre dal pensiero all’azione.



Non urge affatto considerare e scavare quale sia la natura e l'aspetto di quel volermi agganciare ad un qualunque destino, oppure se dovesse rivelarsi solo l'ennesima funambolica ombra di un'illusione.
C'è una malinconia latente che  assurge ad alcova alle più mordide ed imprevedibili mattine in cui pare perfino di essere assuefatti ad un'incomprensibile forma di pace. Non è nel compimento di un bisogno che pur cresce dentro e che alimenta questa luce, l'appagarsi. Ma nella sensazione, consciamente falsa, che questo possa non finire mai.


Lento scivolare di momenti in cui i piedi si posano senza pretendere alcuna rivincita al suolo, una tensione senza promesse che si riempie di un’onda che non affoga. Non è un fruscio della vita che annuncia doni e cornucopie di messi abbondanti, ma una carezza che cade senza relegare al nudo tatto lo sconforto di una solitudine colma di un'immensa attesa.


Ed una malinconia che mi è cara nella misura in cui non spetterebbe a nessuno l'ardire di voler portarmela via, è così...





venerdì 25 aprile 2008

Southampton Dock





they disembarked in '45
and no one spoke and no one smiled
there were too many spaces in the line
gathered at the cenotaph
all agreed with hand on heart
to sheath the sacrificial knifes


but now


she stands upon southampton dock
with her handkerchief

and her summer frock clings

to her wet body in the rain

in quiet desperation knuckles

white upon the slippery reins

she bravely waves the boys goodbye again

and still the dark stain spreads between

his shoulder blades

a mute reminder of the poppy fields and graves

and when the fight was over

we spent what they had made

but in the bottom of our hearts

we felt the final cut

Waters


mercoledì 23 aprile 2008

Dialoghi interiori ed ossessioni ex cathedra



- ...

- ...

- ...

- ...

- ...

- ...

- Embè?

- Embè cosa?

-  Non dici niente, stai là, guardi fisso, in controluce... embè? (stai attento a quello che dici, Alcor)

- Non saprei, davvero. Cioè, lo so, solo che mi sembra così stupido...

- Ma parla, almeno.  Lo sai che ti perderanno se non parli...

- Tu mi perderesti se restassi qui in silenzio, solo a guardarti?

- Ma... parlar tanto e sempre non è solo una maniera per ribadire che ci sei sempre? Non lo so se ti perderei, forse... ma tu cosa vuoi da me?

- Non lo so. Non lo so adesso. Dico davvero, probabilmente.

- Quindi?

- Quindi mi secca riconoscere che il mio umore dipende dagli altri.

- Ma sai, la gente cerca certezze... vuole aggrapparsi a qualcosa, a qualcuno. Tu offri solo queste paranoie, questi concetti intellettualistico-masturbatori... che cosa cerchi da me? Io vivo...

- ...

- Lo vedi? Parli a valanga, poi ti freni, poi ricominci. Eppure, uno come te: così inserito, così cercato, così, così... diverso, così...

- E tu sei un richiamo irrinunciabile che dalla stella più lontanta mi fa spiccare il salto più alto. Ma poi potresti spegnerti, ed io cado più forte a terra, lo sai. Io attendo. Tu mi attendi?

- Ma io vivo. Tu che stai facendo?

- Ed io cosa faccio, cosa faccio, cosa faccio? ... Guardo.

- Tu fingi di guardare, fingi di stare alla finestra...

- C'è una finestra? Dove? A che altezza?

- Un po' mi fai paura.

- Lo so. Infatti, tremo.

- Però...

- ... no. Però, niente.

- Che vuoi fare, ora?

- Io... dovrei studiare, darmi un metodo...essere qualcosa di coerente.

- Ma tu l'hai fatta la tua scelta.

- Non so chi l'abbia fatta. Ma sì, ed è per sempre.

- A volte mi capita di cercarti, ma non so perché...

- ... o non vuoi dirmelo?

- No, forse è così, non c'è un motivo...mi piace quello che scrivi e come lo scrivi.

- Già... una buona ragione, no?

- Per cosa?

- Per non scrivere più.

- Lo fai per dispetto? Appena qualcuno ti riconosce qualcosa la vuoi cancellare...

- No, è che mi devo difendere. E poi se questa cosa me la riconoscessi da solo, di certo non scriverei.

- Perché no?

- ...

- Va bene, sto dicendo qualcosa di sbagliato?

- No. Affatto.

- Bene.

- ... però, ci sono dei momenti in cui mi sento veramente felice...

- Scusami Alcor, devo andarmene, ho un appuntamento... a presto, un bacio.

- ... e questo preciso momento non lo è certamente felice. Va be', ciao.......

DRIIIIN
!!!!

Sì? Pronto chi parla? Ah, lei è un tesista, chi le ha dato il mio numero? Il prof... capisco. Senta... può mandarmi una mail domani? No. Non ho detto ora, ho detto domani. Domani, capisce? Il giorno dopo ad oggi: lei tra qualche ora va a letto, poi si sveglia, beve un bicchier d'acqua non troppo fredda che sennò fa male, va davanti al calendario del Frate Indovino che sua madre tiene appeso nel cucinino che odora di fave bollite, e dopo aver appreso del cambiamento di data, mi manda la mail con quello che le serve. Ha capito? No adesso, no, non posso. Buonasera.

(Non so riprodurre onomatopeicamente il suono dei tasti nella composizione di un numero telefonico)

Pronto? Mi senti? Come stai? Che fate stasera? Chi c'è? Dove? Ah.. no, senti, non rispondermi. Facciamo un'altra sera. Ciao.







martedì 22 aprile 2008

Là, dove sbatte sempre il muso





Il dott. Alcor riceve gli studenti ogni martedì dalle 10.30 alle 12.30.

... Sì, diamo la colpa al lavoro.
Ieri, per la seconda volta dacché esiste questo blog, avevo deciso di chiuderlo. Una decisione che è durata pochi minuti. Quanto è bastato a sentirmi un estraneo, meglio pullulare nel vuoto senza una casa, che sentirsi prudere i glutei accomodato alla poltrona diletta nel salotto di un distinto sconosciuto.
Sono uscito a fare un servizio pochi minuti fa'. Prima di chiudere il pc avevo in mente delle cose. Una macchia rossastra e stinta sparata nel centro del cielo a sudest come lo starnuto di un vecchio.
Quando mio nonno starnutiva, io ridevo sempre. La sua faccia si contorceva in una smorfia somigliante alle maschere del teatro di  Livio Andronico. Soprattutto quando non portava la dentiera. Perse tutti i denti in un incidente stradale, sbattendo violentemente la testa contro il manubrio della sua vecchia Opel Ascona bianca, addosso alla quale, in un mite pomeriggio del 1986, un imbarazzato cazzone pensò bene di andarsi a schiantare. Io ero sul sedile posteriore, inginocchiato di spalle, rivolto contro il vetro posteriore; avevo un arco ed una freccia che facevo finta di puntare avverso l'autista che seguiva la Ascona di mio nonno.
Quell'istante manca al novero dei miei ricordi, devo aver perso conoscenza per qualche attimo, il nastro mnemonico passa immediatamente dal mio sbattere la nuca, alle braccia che mi tirarono fuori dall'auto distrutta. Ricordo il volto di mio nonno rigato dal sangue che colava in larghi rigagnoli dalla fronte sino al mento. Ove pendevano goccioline sporche di polvere, e probabilmente altro. Mi parlava mio nonno, mi intimava come sempre faceva, con amorevole ed austera severità, di star calmo. Ma io lo ero già, senza aver bisogno di suggermenti. Lo ero anche nella buia stanza di una casa dove mi condussero; c'era della gente che piangeva, io ero stato riposto non so da chi su una seggiola dalla quale i miei piedi non toccavano terra, e dondolavano alternatamente avanti e indietro. Avanti e indietro, piano, mentre mi diedero del gelato al limone. Probabilmente non erano a conoscenza che amo il gelato tanto quanto odio i gusti alla frutta, ma non avevo bisogno nemmeno che mi si suggerisse di accettare ugualmente e riveritamente. Sarebbe stato scortese rifiutare, soprattutto nei riguardi di donne piangenti senza motivo, le guardavo lacrimare un dolore che avrebbe dovuto essere mio. Ricordo che mi disgustava un po' quell'appropriazione indebita.

Sono rientrato poco fa' dalla mia commissione. E di tutto quello che avevo pensato non è rimasto che un titolo vuoto, di un brano scomparso. Tutto procede in questo modo. C'è un disordine spaventoso sulla mia scrivania, rende impossibile organizzare un serio metodo di lavoro. Comprendo mia madre, e giustifico la compassione che ho per lei. Solo quella.
Ho trovato oggi un plettro che pensavo di aver perso. Ha una presa rigida ed una punta leggermente morbida. Devo sostituire le corde alla chitarra, e ripulirla un po' dagli acari maledetti. Mentre apprendo or ora da un file .pdf da poco scaricato che i miei programmi futuri potrebbero essere compromessi da un comma imprevisto apparso su un bando tanto atteso per mandare finalmente al diavolo casa mia, il mio paese, i miei hobby sociali, e la grettezza di quelli che infestano il mio spazio vitale. Parlo come Hitler? Del resto ho già avuto modo di confermare come l'alienazione mentale conduca a forme di degenarazione di stampo porco fascista. Ma io mantengo saldo il controllo, anche perché non è che non credo nelle persone, io credo nelle persone, è che non credo nella maggioranza delle... ok, ciao.
Non potrò più fare quello che avevo in mente? Qualcosa mi si accanisce ancora contro? Cos'altro devo rendere per saldare un debito contratto forse in un'altra vita?
E va bene, signori, io me ne fotto. C'è sempre una maniera per mantenere il morale alto. Non posso investire in capitale umano? Investirò in capitale fisico, e senza ammortamenti. Me ne vado a puttane, e poi mi compro una vespa.

Il dott. Alcor riceve gli studenti ogni martedì dalle 10.30 alle 12.30. Astenersi imbecilli di ambosessi. Anzi, astenersi i maschi, imbecilli e non.
Anzi, astenersi.

domenica 20 aprile 2008

One flew over the cuckoo's nest



- Cosa sa dirmi del motivo per cui l'hanno mandata qui?

- Non lo so. Cosa dice là?

- Dicono diverse cose qui. Che parlava quando non era consentito. Che è indolente.

- Che succhiavo caramelle in classe...

- Be' il vero motivo per cui lei è stato mandato qui è perché vogliono che lei sia vagliato.


In questo preciso istante mi trovo disteso con le ginocchia piegate nel letto, al buio, con l'orecchio teso a carpire i foschi brusii che provengono, tra gli infrasuoni malcelati, dalle stanze dei miei consanguinei. A loro dà fastidio la luce che emana il mio LCD, quello che funge da pagina immateriale riciclante i miei dilemmi, nonché da lanterna utile alla fruizione della mia droga, anche in condizioni impervie. Mi porto il pc a letto, per ora solo quello. Ma non è un dramma, si sopravvive, anche col fagotto sovrassaturo. Del resto lo asseriva Frued che l'arte non è che una forma di sfogo altenativa per la libidine repressa. Ma qui, miei cari lettori che perdete il vostro inestimabilmente prezioso tempo a badare ai miei farfugliamenti, non si fa arte, perciò non vi è alcuna insinuante reprimenda libido da assecondare ed intingere nel calice di questo acre liquore.

Ora, son due giorni che un languore trapela come uno spago agganciato ad un ago chirurgico che mi trapassa carne e pensieri sfilacciando intenti preziosi tanto quanto una iuta indiana di quart'ordine, ed intrecciando invero rimorsi, delusioni, piaghe di barlumi adombrati da dubbi e fantasie mozzate. So cosa mi prende, come talvolta sento vibrare per un nonnulla il nervo parietale a destra del mio occhio più malandato. Quello che tutt'ora sto torturando per la stanchezza, ed i raggi patogeni che sta assorbendo per colpa mia. Per consentire al mio inconcludente intelletto di svuotarsi dell'aria turgida accumulata nei bronchioli avari, che filtrano in entrata ogni minuziosa vivisezionata osservazione del mondo, e non consentono il tossico riflusso di rigetto con altrettanta beneaugurata efficienza.
Lo sai bene, a quest'ora ad ogni domanda risponde un fiume. Stavo parlando di me, come al solito, come una reticenza che non è che soltanto un vetro sottile che non consente il tatto, ma che si lascia avvincere dalla voce, e dallo sguardo. Uno sguardo dell'anima che non teme siderali distanze. Fingere di non parlare di sé è la peggiore delle ipocrisie. Ed io, ho messo su un berretto che suona, e che mi permette ogni vita probabile, come una giacca rattoppata che si staglia benissimo sulle mie larghe spalle. Quanto sarebbe assurdo  scavare e svuotere fino al limite della corteccia, lobotomizzarmi, infine, per recidere il laccio infimo della paura e della diplomatica ritensione cerimoniale in cui è più facile  perdere di vista il quid del proprio volere, che armeggiarsi al meglio per conseguirlo.
Nell'assurdo che protegge quello che penso, io vivo e sono libero. E fa male questa puntura di incanto che spesso qualcosa induce senza avvedersi di quel che inietta, e della dipendenza che da ciò si allarga fino a complicare tutto. E qualcuno volò sul mio nido.
Io che non sono mai a casa, che non ho un giaciglio tiepido tra gli alberi,che mi preservi dal vento. Il gioco della vita non mi risparmia, quantunque invano io tenti di esimermi dal lasciarmi coinvolgere. Mi piace, in fondo, ho un vago bisogno, a volte, di perdere sul serio la testa per qualcosa che valga la mia follia. Ma quale logica muove tutto questo, io non la posso comprendere.
Non ho una camera d'albergo da demolire.
Ho un cantuccio mentale da poter soffocare, ho un destino da potermi inventare, ho un quaderno nero da far seccare. Ho questo volto da poter straziare e le mie parole da distruggere.
Perché non valgono. E finché questa illusione perdura non mi curo e non mi importa, la ignoro. Quando mi si paventa innanzi essa mi atterrisce, e mi schianta la verità in faccia. Fredda e irreprensibile, senza appello.
Penso di sentire dentro qualcosa che non rintracciavo da tempo, quando il ricordo è così smunto dal confondersi nel bugiardo androne dei mai e dei sempre. Quando coccola un bisogno d'eternità che non arriva agli orli di una giara capiente quanto un istante fulminante. Penso che tutto questo tremore è la vita che monta e poi riscende che mi conturba e mi riappacifica con un umano sentire anche un freddo di cui non rammentavo più l'odore  granitico. Vorrei saper la musica per esprimere, senz'essere inteso da nessuno, neppure da te, tutto questo tumulto di vita che mi gonfia l'anima e il cuore. Nessuno lo saprà mai, anche se il mio cuore ne dovesse scoppiare. Esiste un passo lieve di una corda tesa a guisa di violino, e nel suo vibrare qualcosa mi accende di un remoto silenzio che non cela ricordi frammisti al frastuono sordo di un tonfo prolungato e piatto.
A questo alludo e qui mi esilio, cadendo dai rami, senza abbisognare di planare, perché non v'è terra che raccoglierà frantumi di piume e canzoni.

Non lo so se queste mie pagine si apriranno ancora. Questa è la mappa del cielo animata per questa settimana.
Forse l'ultimo di un cielo sempre uguale perché ansioso di specchiarsi negli stessi, identici, amabili sguardi, da qualunque angolo di questo scoglio disadorno lo si voglia scorgere.

Ho mal di testa. Non sto bene. Ma non è quello. Va bene così. Solo un altro mattone nel muro. Dopo tutto, sono felice.


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Gesù, Gesù, ma che cos'è tutto questo provare
a far filare dritti quei piccoli ingrati?
Quando avevo la loro età ce la siamo vista brutta
non c'era tempo per lamenti e depressioni.

E ancora oggi una parte di me
sorvola Dresda su un Angels 15.
Anche se non lo capirebbero mai,
dietro al mio sarcasmo ci sono ricordi disperati.


Tesoro, tesoro, dormi profondamente, bene,
perché solo quando dormi riesco davvero a parlarti.
E c'è qualcosa che tengo accuratamente nascosto.
Un ricordo troppo doloroso
per la luce del giorno.


Quando tornammo dalla guerra,
gli stendardi e le bandiere sventolavano su ogni porta.
Danzavamo e cantavamo per le strade
e le campane della chiesa suonavano.
Ma come un fuoco nel mio cuore,
continua a bruciare il ricordo delle parole
che l'artigliere morente disse al comunicatore.



Il mio tempo non è ancora venuto; alcuni nascono postumi.


sabato 19 aprile 2008

Speak to me

 The lunatic is in my head
The lunatic is in my head
You raise the blade, you make the change
You re-arrange me'till i'm sane
You lock the door
And throw away the key
There's someone in my head but it's not me

Da qualche ora sto un po' male, cazzo.
Devo bere, anche stasera. E guarirò.

venerdì 18 aprile 2008

Se Nietzsche anzichè i baffi avesse la gonna


Sarebbe un'ossessione che spaventa e ammalia. Il richiamo che assale sull'orlo di un tuffo prospiciente le soglie sconosciute e non intellegibili di un rosso noumeno. Vorrei esser pronto e puro. Ma sono già infinitamente corrotto dal vuoto per lasciarmi inebriare senza scontare la vergogna di non saper persuadermi al pizzicare delle fiamme. Che cosa è verità? Inerzia; l'ipotesi che ci rende soddisfatti; il minimo dispendio di forza intellettuale.
L'intero apparato della coscienza è un apparato per astrarre e semplificare, non è orientato verso la conoscenza, ma verso il dominio delle cose.
E tu domini.
Non occorre avere una distorta ed illusoria consapevolezza di quel che sfioriamo, ma succhiare il nettare dell'essenza d'ogni aspetto reale e razionale appena quanto possa bastare per sentirci padroni fraudolenti di una vita che ci è consentita parzialmente, quali schiavi non completamente assuefatti.
Ed il lato oscuro che arde e spande questo tremore e questa consapevolezza ci respinge nel rinchiuderci nello strazio di non poter raccontare in prima persona questa lunga notte. Estraniati a vedersi vivere nello sguardo altrui, meschinamento rifratto dalle categorie di sentenze emanate ad ogni atto della nostra pubblica appariscenza.
Hai atteso che un dolore non puntuale ti venisse a conquistare, nell'abbraccio del mio incontenibile e caldo silenzio. Ed in quel lato oscuro c'è chi sa ascoltare anche il canto tiepido del nulla. Che ti erge a misura dell'unico universo che abbia una consistenza che non sia quella del tempo e delle mummifiche ombre. L'infinito possibile si raccoglie nella vastità circoncisa dal tuo sguardo, quel che vi è oltre, è puramente inutile.
Avvolgi di lode ogni mio sgraziato impulso mentale come fosse polvere di nebbia sputata dal cielo, e da te raccolta per seminare virgulti di aiuole al mio ingenerante tatto spinose, ma cristalline al tuo fruente occhio. Ché io non mi nutro se non del poter compiacere al mio Dio. L'intero apparato della coscienza è un apparato per astrarre e semplificare, non è orientato verso la conoscenza, ma verso il dominio delle cose.
E tu domini.
Come l'appunto di un'infinitesimale inquietudine sepolto sotto la polvere concava del vestibolo antistante la biblioteca d'Alessandria d'Egitto. Tale io, a quel cospetto, mi prono.

Spaventa, ed attrae. E chi si è creato e ripensato come soltanto una voce, ed una parola, non sa fuggire e non sa restare. Un vento sospeso. Tra le cuspidi e le pieghe artefatte di un pazzo diamante.
Ed i congiuntivi, finalmente, potrebbero avere un senso.

mercoledì 16 aprile 2008

Rischi e barlumi







Non pretendo più di aver ragione
se parlo di vestiti e di carezze

pregare no, che non vorrei pregare.

Non vergognarsi della propria malinconia
è un compito penoso anzi uno strazio.

mi sei apparsa in sogno e non mi hai detto niente
mi sei apparsa in sogno e non hai fatto un passo.

Sarà la vita che monta e poi riscende
tutto questo splendore trasparente
luce elettrica che dopo il buio sempre si accende
se abbiamo assolto tutti i sentimenti
dimenticato tutti i fuochi spenti.

Ma sono pazzo del mondo e sono pazzo di te
e sono pazzo del mondo questo è odio e amore
sono pazzo del mondo questo è odio e amore
anche per te.

Sarà il destino che splende e poi riscende
tutto questo rumore che si sente
acqua libera che sempre si spande.

sarà anche il gioco della vita ma che dolore
sarà anche il gioco della vita ma che dolore

merci, darling.

Day after tomorrow





La nostra economia continua a risentire di problemi strutturali che si riflettono da vari anni in un progresso insufficiente della produttività, indipendentemente dalle fluttuazioni cicliche. L’inflazione si stima abbia raggiunto in marzo il 3,6 %. Nel 2007 i consumi delle famiglie italiane sono aumentati dell’1,4%; lo scorso anno gli investimenti sono cresciuti di poco più dell’1%. La sostanziale stagnazione degli investimenti sta proseguendo quest’anno, come segnalano gli indicatori basati sulle valutazioni degli imprenditori riguardo alle prospettive di domanda e al livello di capacità utilizzata. Le esportazioni, alla luce dei nuovi dati rilasciati dall’Istat, sono cresciute del 5% lo scorso anno, confermando gli spunti di  ripresa della capacità esportativa della nostra industria emersi già nel 2006.
La crescita delle esportazioni è stata però inferiore di circa 2 punti a quella del commercio mondiale in ragione di una perdita di competitività di prezzo di analogo ammontare, dovuta alla bassa produttività e all’apprezzamento dell’euro. L’avanzo primario, quasi annullato nel 2005, è salito al 3,1% del PIL. Come nel 2006, il miglioramento dei conti riflette essenzialmente il forte aumento della pressione fiscale e contributiva (al 43,3% del PIL, dovuta maggiormente alla lotta all'evasione e alla'allargamento  della base contribuente). L’incidenza della spesa primaria corrente è diminuita al 39,6 % del PIL, ma rimane prossima al suo valore massimo. La spesa per investimenti è tornata ad aumentare; Il debito pubblico è sceso dal 106,5 al 104,0 % del PIL, riportandosi sul livello del 2004.



fonte: Banca d'Italia, 2008.


Questo è il quadro, non positivissimo, neanche drammatico. Ci portiamo le annose zavorre strutturali ed il mancato coraggio di fare riforme importanti come ridurre la spesa pubblica in maniera sostanziale, riformare la pubblica amministrazione per renderla funzionale ed efficente, liberalizzare seriamente il mercato. Non abbiamo un sistema della formazione all'altezza delle sfide competitive che richiedono professionalità sempre nuove ed aggiornate, la flessibilità non ha senso se non è accompagnata da un percorso reale di adattabilità permanente della forza lavoro.
Ma le emergenze immediate sono soprattutto l'inflazione elevata, la questione energetica, e la precarietà del lavoro. Cosa si può fare? Investire nel futuro e nelle energie alternative (solare in primis), investire nella produttività che consentirebbe alle imprese di non speculare sulla flessibilità del lavoro per acquisire margini risicatissimi di competitività, puntare su una scuola di qualità, e rendere efficace la giustizia. Nell'immediato si deve redistribuire il reddito attraverso una politica fiscale che alleggerisca il carico sui redditi da lavoro dipendente più bassi. La ricetta della detassazione degli straordinari è, a mio parere, una emerita cavolata. Staremo a vedere... intanto via l'ICI! Olè! Anche se sinceramente a me risulta che l'ICI sia stata già prevalentemente rimossa dall'ultima finanziaria Prodi.
344 seggi alla Camera, 174 al Senato. L'Italia ha parlato, e qualunque sia stata la sua voce, va ascoltata. Ed io ci provo. Provo a spiegarmi cosa voglia dire un'Italia che nel Nord premia la Lega portandola al 20%. Provo a chiedermi che cosa possa significare per il Sud. Un Sud che non va pensato come un'appendice depressa socialmente ed economicamente, ma come una grande opportunità. Un Sud dove le reti infrastrutturali assomigliano alle radici morte di un albero estirpato. Dove è ancora presenta una guerra tra poveri tra regioni che non riescono a fare sistema, dove ogni appalto è una prova d'ansia per le incombenze criminali, dove sono capaci di costruire cantine al centro di un tempio greco ad Agrigento, e dove le spiagge sono cosparse da metri cubi di cemento armato.
Questo sì, mi preoccupa. Mi preoccupano i casini di un'agricoltura sopravvivente solo grazie ai sussidi e grazie al protezionismo comunitario della PAC che sarà presto mitigato ed aperto all'area di libero scambio euro-mediterranea. E lì saran cazzi peggio dell'affare del "tessile cinese". Mi preoccupa che le risposte sulla questione sicurezza vengano recepite dalla Lega, e che un tipo come Cofferati, con tutti i suoi difetti, sia inviso persino a Bologna. E che questi valori di legalità abbiano assunto dei colori di parte davvero assurdi, soprattutto in relazione alle leggi vergogna di qualche anno fa'.
Mi fa ribrezzo Cuffaro a Palazzo Madama, quello sì.
E non ci sono più i compagni. Con loro me la sono spassata, soprattutto quando decantavano il vangelo secondo Marx del 1848. Senza dubbio il più bel libro di sociologia mai scritto. Ma qualcuno dovrebbe cominciare a pensare che le dinamiche economiche e sociali sono un tantino cambiate, e che il tempo della testimonianza deve fare spazio all'assunzione di responsabilità. Governare vuol dire confrontarsi con la complessità e la frammentazione di interessi contrapposti ed orientati su vettori troppo spesso divergenti. La sfida è unire tutti in un unico progetto-Paese, e Walter ci ha provato, nonostante tutto. Ed è grazie a costui se adesso qualcuno potrà essere messo in condizione, davvero, di dimostrare che diavolo sa fare per questa nazione. Forse il suo progetto era troppo ambizioso, troppo moderno per questa Italia bonsai che è ancora cogente. Ma si doveva invertire la rotta, e lui lo ha fatto. Per questo, secondo me, è stato grande e lo ringrazio. Perché nonostante ascoltare "mi fido di te" per 3 mesi mi abbia rotto i coglioni, nonostante queste elezioni abbiano straziato le mie serate per altrettanti mesi, una speranza nel mio arido cuore me l'ha infusa. Ed è per questo forse che adesso non mi spaventa attendere cosa farà Tvemonti.
Tanto la metà delle stronzate che dice contro la globalizzazione ed il protezionismo non le potrà mai mettere in atto.
Sperando che la Sinistra, arcobaleno, rossa, con le pezze a colori, o come diamine si vestiranno d'ora in poi faccia piazza pulita dei catrami vecchi che la infestano, noi pensiamo che in ogni angolo del paese dove alberga la speranza di cambiare davvero, "si può fare" debba continuare ad essere l'imperativo categorico, oltre questo non vi è altro che sogno o avventura.

1. postilla: a chi ritiene che il Presidente del Consiglio in pectore, in piena e documentata demenza senile a 72 anni, abbia minimamente a cuore le sorti dell'Italia e che il suo ultimo lascito prima della dipartita prossima ventura a noi poveri grulli, o giù di lì, sarà quello di far del bene al paese, francamente, e sinceramente, e fraternamente, anche se non vi conosco, vi dico che non avete capito un emerito cazzo.

2. postilla: un grazie a tutti i militanti instacabili. Ed un bacio in bocca con la lingua a tutte le militanti instancabili e bone.




lunedì 14 aprile 2008

giovedì 10 aprile 2008

Paranoid (eyes) Youth



Basta un'esigua folata di nebbia, basta che le nubi striscino prostrate anziché meritare il cielo aperto, che le lastre un tempo biancastre che lucidano tuttora il nervo della città, si rivestono di un sottilissimo strato di pantano sdrucciolevole.
- Lo vedi quel vaso a forma di prisma ottagonale bombato posto al centro dell'imbocco del corso? -
Una volta sotto quel vaso uno di noi nascose  una pistola ad acqua. Stava facendo buio ed il padre l'aveva mandato a chiamare. Non sapeva che il figlio possedesse una pistola ad acqua con cui infastidire i vecchi  frequentatori del borgo vecchio dopo pranzo. Se l'avesse saputo gli avrebbe tirato il collo come un cappone. - La trovo la pistola là. Domani la vengo a riprendere. - E se ne andò preoccupato solo di asciugarsi il sudore sul collo e sulle guance arrossate. Rimanemmo in due, ed io volli tornare a casa. - Aspetta... - mi disse l'altro. E, ridendo estasiato al pensiero della imminente impresa, ritornò di corsa al vaso a forma di prisma ottagonale e prese la pistola lì sotto nascosta. - Ma che fai? - chiesi io. - Tanto gliela fregherà qualcun altro. Tanto vale che gliela rubo io. - Mi rispose. Rimasi in silenzio, il ragionamento filava eccome. Ma ebbi come un lampo d'odio per quei due, per il primo idiota che si fidava così tanto, e due volte in più per quell'altro ladro disonesto.
- Ehi mamma! Guarda cosa ho trovato a terra! - ostentava il suo frodato trofeo alla madre affacciata al balcone, con la voce di  un angioletto castrato. - Ma tu guarda, certe volte... sali che dobbiamo cenare... - Rispose costei. Gli avrei messo le mani in gola, davvero.
I pomeriggi di maggio eravamo soliti trascorrerli scaraventati per strada, i nostri vecchi erano tranquilli e rassicurati che fossimo devoti fanciulli di parrocchia. Parevano alquanto smarriti e confusi quando qualcuno di noi rientrava  nella cuccia familiare tutto bagnato, insudiaciato dagli sgambetti sul viscido corso sempre umido. Quando si rischiava di restare appesi a qualche albero prospiciente il terrazzino di una catapecchia pericolante, quando si cominciavano a rubare le prime sigarette al padre smemorato e si andavano a fumare seduti sulle rocce sporgenti impaludate nei suoli sparsi sul versante scosceso del colle, suoli contesi come territori marcati dal piscio dei cani.
Ora c'è un palazzo di sei piani, hanno persino abbattuto quel casolare dal tetto sfondato dalle radici dell'edera. Tra i mattoni  precipitati e malfermi loro nascondevano i pacchetti di sigarette che poco a poco avevano cominciato a comprare; i pomeriggi di giugno li guardavo seduto su una trave franata. Io non fumavo, quella scoperta mi sapeva tanto di una sciocca replica delle vergogne paterne così fine a se stessa. Senza alcuna autonomia. Come mi faceva inorridire quel loro masturbarsi in gruppo,
sui preposti giornaletti, come fossero un branco di faine bavose. Li scovai per caso una sera, quando uno di questi puzzava di cenere nonostante le caramelle e, sospettando, lo pedinai. Da lontano lo vidi nascondersi nelle frasche secche e subito dopo scorsi una piccola lucetta rossa accendersi e gonfiarsi ad ogni tirata di fumo. Non mi coinvolsero inizialmente in quelle loro puerili stronzate, sapevano chi ero e non ebbero torto.
Una sera di giugno dopo qualche anno, quando la prima barbetta prepuberale iniziava a sgualcire le innocenti facce da fessi che i cromosomi genitoriali avevano elaborato per noi, si girava intorno al solito passeggio tardo-crepuscolare. Costeggiavamo ancora quel vaso a forma di prisma ottagonale, questa volta riempito di gerani fioriti.
Silente camminavo con l'amico che fu ladro di pistole ad acqua, ed era anche egli cresciuto di qualche centimetro e di qualche neurone. Costui compativa la mia presenza assorta, attento a non ledere la mia contemplazione. Un giro... due giri... tre giri... sempre in silezio. Il fido compare avrebbe voluto avvisare il turbato Alcor che un paio di ragazzine loro coetanee, incrociando i loro giri, alla vista dei due maschietti ammiccavano come gattine ardenti. Ma si astenne, temendo le feroci urla del giovane Alcor, all'ora già contaminato dall'invereconda e insostenibile leggerezza dell'essere.
All'ennesimo giro, una di tali donnine ripose da parte il suo timore reverenziale e si accostò ai due ragazzi, ed ebbe l'ardire di rivolgere la parola al timido e silente, e affranto, Alcor:

- Ti posso conoscere? - chiese lei.

- No. - rispose Alcor, allungando il passo.

- ...ti posso conoscere? -  insistette lei, andandogli dietro...

- Nooo! -  impercettibilmente irritato rispose, Alcor.

- Eddai... ti posso conoscere? Io mi chiamo... -

- NOOOOOOOOO!!! -  furibondo esplose Alcor.

A quel punto, stordita, la tizia tornò dalla sua amica rimasta qualche passo indietro. Ma andando via, si voltò verso i due, e apostrofando Alcor, nella pubblica piazza, gli urlò nell'idioma tipico del luogo:

- 'stù chigghiòn!!!* - Alcor, in tutta risposta, si voltò e contraccambiò il complimento:

- 'stà zoccl !!!** -






Lo so, c'è troppa musica. Ora che mi ritrovo forse torno. O forse no... Ma da quanto tempo è che parlo da solo?




Chiuditi la bocca, non lasciar scivolare lo scudo.
Stringi bene la tua maschera antiproiettile.
E se cercano di distruggere
il tuo travestimento con le loro domande,
ti puoi nascondere, nascondere, nascondere,
dietro occhi paranoici.




Assumi un'espressione coraggiosa e fuggi appena puoi
con un sorriso indifferente, come fossi casualmente appoggiato al bancone di un bar
ridendo forte alle spalle del resto del mondo
con i ragazzi fra la folla.
ti nascondi, nascondi, nascondi,
dietro occhi pietrificati.




Hai creduto alle loro storie di fama, fortuna e gloria.
Ora sei perso nella nebbia di una morbida mezza età alcolizzata.
Alla fine la torta in cielo era posta troppo in alto.
E tu ti nascondi, nascondi, nascondi,
dietro a miti occhi castani.





traduzione da: R. Waters, Paranoid Eyes, The Final Cut, 1983


nell'immagine: S. Dalì, Endless Enigma, 1938.




* traduzione dal dialetto autoctono: " 'sto coglione!!!"
** traduzione dal dialetto autoctono: " 'sta zoccola!!!"




martedì 8 aprile 2008

Democratic inside




"...Noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri, ma siamo diversi!!! Mamma! Mamma, vienimi a prendere!!!"


- Ué Alcor, tu che sei un paranoico per definizione, c'è una frase, un'espressione esemplare, qualcosa a cui tieni particolarmente?

- Uhm, fammici pensare... ma non mi viene in mente niente...

- Essù! Sforzati qualche volta!

- Vediamo... direi,
Noos ip dhcp for end-user cpe... sì.

- ...E che è?

- Uffa...
;-)

Erostrato




Gli uomini bisogna vederli dall'alto. Spegnevo la luce e mi mettevo alla finestra: essi neppure sospettavano che si potesse osservarli dal disopra. Gli uomini dimenticano di difendere spalle e crani con colori vivi e stoffe vistose. Sul balcone d'un sesto piano è qui che avrei dovuto passare tutta la vita.

Sono da poco tornato dopo una mattinata nebbiosa trascorsa a riempire di invettive invane il buco nell'acqua di una giornata persa.
Giungo alla fermata dell'autobus dopo una passeggiata lenta e mattiniera. Troppo lenta, avrei dovuto immaginarlo ed affrettare il passo, avrei dovuto essere ben certo che l'autobus sarebbe partito senza di me. Eppure quando alcuni giorni si muovono da soli, anche forzare un passo sembra difficile. Da questo sbuffo novembrino è scesa da un'auto una vecchia conoscenza emigrata. La ricordavo con i capelli castano chiaro e corti davanti agli occhi, un'aria ingenua e una S moscia da antologia dell'involontaria sputacchia. Aveva una grossa valigia blu notte e doveva prendere un treno. Non conosceva gli orari degli autobus, ed aveva le unghia coperte da uno smalto nero e lunghi capelli tinti di rosso prunaio. Questa mattina aveva provato a non dover farsi plagiare l'attesa da una corsa dettata dall'ansia dell'ultimo minuto. Niente da fare, anche stavolta pochi istanti frettolosi l'avrebbero separata da quell'autobus che bucava l'umida mattina, ed il suo treno.
- Tu ti fermi qua? -
- Sì, io mi fermo qua. Consegno un foglio e torno. Tu, salutami le montagne... -
Qualche sera fa' brulicava di individui una piazza di cui non sono cittadino, in un paese che miro dall'alto verso il basso. - Ma come fai? - mi chiese un amico smilzo col doppio dei miei anni - come fai a fare tutto questo e ad essere un misantropo? Ti contraddici. -
- Sono vasto. Contengo moltitudini. -

Bisognava talvolta ridiscendere in istrada. Soffocavo. Quando si è sullo stesso piano con gli uomini, è molto più difficile considerarli come formiche: ci toccano. Il cuore mi batteva così forte che mi facevano male perfino le braccia. Le mie dita, nella tasca, erano assolutamente molli intorno al grilletto. Le pesone si allontanarono, e le seguii macchinalmente. Ma non avevo più voglia di sparar loro addosso. Mi ripetevo: Perché bisogna uccidere tutta questa gente che è già morta?
Avevo voglia di ridere.

Ho la maschera di un vigliacco, e non so chi me l'ha cucita addosso. Ora non ho voglia di far niente, di interdire i minuscoli circuiti che ricuciono i canali per rintracciarmi.
Posso scegliere gli sguardi di cui volermi bagnare. Ed arida è la terra quando non piove. Potrei manovrarli con l'amo del desiderio e l'esca di una parola. Potrei posarmi con un trasparente volto di cristallo ed i bulbi vermigli, senza pupille. Non ho bisogno dei miei occhi. Una voce respinta dal vento come un'eco che si ascolta o si ignora.
Sì che sono bravo a farmi il deserto intorno, che la memoria umana ricorda colui che distrusse il tempio e non colui che lo eresse. Gli antieroi hanno decisamente una storia più interessante da narrare, una storia meno triste di chi è continuamente assediato dall'essere un'attesa per gli altri. Schiavi di una sorte che non è la loro.

Amo l’acqua perché non mi ha mai chiesto niente
Amo agosto perché non mi ha mai chiesto niente
Amo la paglia perché non mi ha mai chiesto niente
Amo la roccia perché non mi ha mai chiesto niente
Il giglio perché non mi ha mai chiesto niente
Amo il coniglio perché non mi ha mai chiesto niente
Il fuoco perché non mi ha mai chiesto niente
Il vento perché non mi ha mai chiesto niente
Amo il rubino perché non mi ha mai chiesto niente

Perché non te ne importa niente
perché non me ne importa niente
io cosa ho chiesto
quando ti ho vista,
a te…


la mimosa a marzo è gialla
l’universo si allarga, si spande
tutti gli uomini vanno a lavoro e
i ragazzi a scuola e i bambini all’asilo


brani tratti da Erostrato, di Jean-Paul Sartre.

domenica 6 aprile 2008

sabato 5 aprile 2008

Soundtrack of me


Soundtrack of me, according to her....





Non sono così netto nel distinguere i miei generi. Non mi garba enucleare con puntualità quel che mi si confà. Come se stessi scapigliatamente adagiato su una poltrona, in controluce, con la tv spenta o quantomeno ammutolita a trasmettere immagini insensate; con le gambe allungate su uno sgabello, e le dita della mano sinistra incaricate di mantenermi il capo sveglio e le palpebre flemmaticamente socchiuse puntate sul catalogo delle umane categorie della ragion pura, a scegliere cosa inserire nei miei personalissimi casellari del buon gusto. Crollerei istantaneamente nel sonno più turgido.
La prima maniera per calcare con flebile indifferenza la vita è  rinunciare ad esprimere giudizi sul mondo e sulle cose.
Fuori ancora non piove ma le nuvole ansimano, in attesa di un latitante vento mucolitico, annaspando  sgraziatamente come  un  nevrotico in preda agli spasmi influenzali tipicamente equinoziali, che improvvisamente si scatenano tra la laringe e la trachea, innescando una mielosa lagrimazione, ed un'irritazione repellente ad ogni forzosa inspirazione parasimpatica, ossia, il preludio di un cazzo di starnuto che non verrà mai fuori, ma che ti stravolge la pace interiore e l'equilibrio respiratorio e maxillo-facciale.
Tollero con divelta fatica ciascun moto proprio, involontario ed indipendente, dell'organismo. Ché non riuscirò mai ad essere completamente anarchico nel mondo, finché non sarò dittatore autarchico e tiranno su me stesso.
Deliri e rigurgiti di un'endorfina che oggi non trova sfogo a causa del clima bubbonicamente appestato il cui grigiume tombale e totale mi occulta il brancolante intendere. Preferisco di gran lunga un cielo maculato e intarsiato di altorilievi vaporei dal ventre grasso, opaco e ombroso, e dai contorni fumosi e biancastri aureati da fiocchi di sole, celato ma costante. Sono stanco di spendere la mia vita sotto un cielo monocromatico.
Una voce e basta. Lo straniero legge le parole, non cerca la persona. Allo straniero non importa nulla di chi si sta rifugiando in una pagina, lo straniero non va oltre uno specchio che altro non è che un vetro buio che rifrange segnali semplici e mai scontati. Al viandante sconosciuto che potrebbe planare oltre questi argini scalzi non importa nulla. Una breve ed invalicabile distanza che affonda le radici della libertà in un'angoscia accettabile solo coi compromessi o con una forza tutt'altro che costantemente infusa nelle nude e frementi mani.
I nembi gestanti hanno partorito. Parlo ancora e sempre da solo, senza comprendermi. Ma sono felice.
Un volto in più non fa mai male.

Ho sempre pensato
Quando avrò questo sarò saziato
Ma poi avevo questo…ed era lo stesso.


Ho sempre pensato
Troverò il mare e sarò bagnato
Il mare ho trovato… ma nulla è cambiato… nulla.

Che cos'è… che io aspetto…


Ho sempre pensato

Quando avrò il cielo sarò stellato,
Divenni una stella… ma ero lo stesso.
Sempre lo stesso

Qualcosa è cambiato.
L'ultima illusione non è svanita
Io libero per sempre

Io… voglio una vita tranquilla
Perché è da quando son nato che sono spericolato.
Io… voglio una vita serena
Perché è da quando son nato… che è
Disperata… spericolata…
Però libera… verde e sconfinata
Io dovrei… no, non dovrei,
( ...ma se vuoi
...).



 

venerdì 4 aprile 2008

Un'immensa attesa


Per la seconda volta Lucien Fleurier si sentì pieno di rispetto per se stesso. Ma stavolta non aveva più bisogno degli occhi di Guigard: era ai suoi occhi propri che appariva rispettabile, ai suoi occhi che finalmente riuscivano a passare attraverso il suo involucro di carne, di gusti e disgusti, d'abitudini e d'umori. "Là dove mi cercavo non potevo trovarmi". Aveva fatto, in buona fede, il minuzioso censimento di quello che era.
"Prima massima - si disse - non cercare di vedere dentro di sé, non c'è errore più pericoloso". - Il vero Lucien, adesso lo sapeva, bisognava cercarlo negli occhi degli altri, nella timorosa obbedienza di Pierrette e di Guigard, nell'attesa piena di speranza di tutti quegli esseri che crescevano e maturavano per lui, di quei giovani apprendisti che sarebbero divenuti i suoi operai, di quelli di Férolles, grandi e piccoli di cui un giorno sarebbe stato il capo. Ma Lucien aveva paura: si sentiva quasi troppo grande per se stesso.
Tanta gente lo aspettava al varco: ed egli era, lo sarebbe sempre stato, questa immensa attesa per gli altri.
"È questo, un capo", pensava.
E vide nuovamente apparire una laga schiena muscolosa e poi, subito dopo, una cattedrale. Egli era entrato e vi passeggiava in punta di piedi sotto la luce filtrata che cadeva dalle vetrate. "Però, questa volta, sono io la cattedrale!"
Fissò intensamente lo sguardo sul suo vicino, un cubano lungo, bruno e dolce come un sigaro. Bisognava assolutamente trovare delle parole per esprimere la sua straordinaria scoperta. Pian piano, con precauzione si portò la mano sino alla fronte come fosse una candela accesa, poi si raccolse in un istant, pensoso e solenne, e le parole gli vennero da sole: - Ho dei diritti! - I diritti vanno oltre l'esistenza, come i corpi matematici e i dogmi religiosi.
Ed ecco che Lucien, per l'appunto, era questo: un fascio enorme di responsabilità e diritti. Per molto tempo aveva pensato di esistere per puro caso, alla deriva: era per aver riflettuto troppo.
Molto tempo prima della sua nascita, il suo posto era segnato al sole, a Férolles.
Già, e molto tempo prima ancora del matrimonio di suo padre, egli era aspettato; era venuto al mondo per occupare questa posizione: Esisto, - pensò, - perché ho il diritto di esistere. E per la prima volta ebbe una sfolgorante visione del suo destino.
Allora lasciò perdere la tenera Maud (voleva continuamente andare a letto con lui, era seccante, le loro carni confuse sprigionavano nel calore torrido di quel principio di primavera un odore di arrosto un po' attaccato). "E poi Maud è di tutti, oggi è mia, domani d'un altro, tutto ciò non ha senso". Poi pensò all'opera del padre, era impaziente di continuarla e si chiese se il signor Fleurier non sarebbe morto presto.
Un orologio suonò mezzogiorno: Lucien si alzò. La metamorfosi era compiuta: in quel caffè un'ora prima era entrato un ragazzo grazioso e incerto; ne usciva un uomo, un capo. Lucien mosse alcuni passe nella luce gloriosa d'un mattino francese. All'angolo della strada delle scuole si avvicinò a una cartoleria e si guardò nello specchio: avrebbe voluto ritrovare sul suo viso un'aria impermeabile. Ma lo specchio non gli rimandò che un grazioso visetto ostinato che ancora non era abbastanza terribile.
"Mi lascerò crescere i baffi", decise.

È una folle gabbia, lo so. È una maniera come un'altra per procrastinare la noia. Un mezzo gratuito per generare frettolosamente il sonno e far stancare le ginocchia alla sera. Una spalata di brecciame. L'impronta di un mignolo che tergiversa sul vetro dove filtra il richiamo dell'occhio non desto.
Dietro l'ombra che transita nell'eclittica della luna nuova. Voltata di schiena.
Non si riesce a colmare del cielo. Non del tutto.

mercoledì 2 aprile 2008

Shit happens


Capita, nel luogo ove io e la bieca sorte abbiamo fatto in modo che la mia vita venisse così irremediabilmente compromessa, che ogni tanto qualche grande capo del sinedrio accademico venga a proporti un lavoretto. Solitamente l'azione seduttiva nei confronti dei nostri palati affamati comincia con la irrinunciabile proposta di un mesetto a fare due calcoletti e qualche schemino che frutterà nel proprio essiccato conto in banca un lauto compenso, e con la più onesta speranza di vedere il proprio nome epigrafato sulla prima pagina di una bella pubblicazione di cui il mondo, in tutta sincerità, proprio non sentiva la mancanza.
Capita magari quando stai a farti calcoli più seri nella tua vita, ad esempio, "come caspita raggranello la pecunia necessaria per andare a far una visitina di cortesia ad un'amichetta lontata?". Queste son le preoccupazioni che tolgono il sonno, altro che Uolter...
Mentre queste profonde inquietudini schiudono serissime perplessità sul senso della mia vita e dell'esitante mio persistere, nonché sul senso profondo che ha avuto negli ultimi mesi il Ministro Mussi (che pure è persona che stimo parecchio), compare nella sua aurea il tizio recante un'offerta che non si può rifiutare, i suoi connotati improvvisamente mutano, assumendo le sembianze di un cherubino celeste parasubordinato, assunto con contratto a progetto. Il progetto beato di venirti incontro e asciugare la bava da quasi nullatenente studioso appesa al labbro arso, con le sue convincenti parole piene di questo simbolo "€", e tanti, tanti splendidi zeri.
Ci si catapulta senza nemmeno pensare.
Si inizia istantaneamente, senza perdere tempo, prefigurando le proprie mani grondanti monete dorate e gli introiti da spendere con ardore in viaggi, corsi, conferenze e tutto ciò che rientra nella categoria "investire sul tuo futuro".
E così, trallallero trallallà, il primo mese di lavoro se ne va. Senza aver firmato uno straccio di carta, una prova dannata che attesti alla pubblica opinione che cosa hai fatto e prodotto. Nemmeno una dannata forma pirandelliana che ti inquadri in un incarico ufficiale e dica al mondo pubblico chi cazzo sei quando ti svegli la mattina. Nemmeno una sottospecie di patente alla Rosario Chiarchiaro che faccia di me un pezzo di carta bollata.
Il mese lievita assorbendo giorni e ingrossandosi a dismisura. Un altro mese, due mesi, tre mesi. Un intero semestre a produrre rapporti, grafici, a trasformare i giorni in istogrammi, diagrammi a torta, possibilmente sacher, e disegni di ogni genere.
E quando il cherubino mostra segni di insofferenza dinanzi alla ennesima sacrosanta richiesta di un giusto e costituzional garantito ristoro per l'opera prestata, ecco che nelle mani avresti desiderato tanto una zappa da spaccargli in testa. Sì, una zappa, perché fa più male ed è abbastanza brutale per farti giacere sulla medesima curva di indifferenza, diremmo noi.
E si finisce così, seduti ad una panchina, all'ombra di un pino i cui rami sfiorano la capigliatura disordinata e solleticano la testa, come una carezza che manca.
Ascoltando la malinconica e soffusa melodia drammatica dei trapani incessanti degli operai che ogni tre mesi stanno ad aggiustare sempre le stesse porte dei cessi. E l'odore di frittura che emana dal chiosco sino ai corridoi, agli uffici, allo stomaco tradito dall'ennesima presa per i fondelli.
- Cercati un lavoro serio! - mi capita di consigliare ai miei illustri colleghi, questo a dimostrazione della tesi che il sottoscritto abbia molta speranza per gli altri, incosciente di quel che ad egli personalmente attiene.
Dopo mesi che pascolo in seno a quella panchina ritorna il messo celeste. Assomiglia a qualcos'altro adesso, ma per me son tutti uguali e pertanto inutili. Non fa firmare il contratto per un lavoro già consegnato, propone un concorso, che prolunghi l'agonia. Lo si fa. E lo si supera, ovviamente. E si ricomincia la giostra, come una pedina di paglia che sogna di diventare un alfiere d'acciaio. E forse non resterà che una torre di legno.
E quando il marinaio fu sicuro che soltanto agli annegati fosse dato di vederlo, disse: "siate marinai, finché il mare non vi libererà".
La giostra comincia, e bisogna chiudere gli occhi e trattenere il fiato per non far girare la testa.
Scendo
dal tram a diverse fermate prima del solito, un tizio tutto borchiato mi chiede se ho da fargli accendere.
- Non fumo, mi spiace. - Gli rispondo sorridendo. In genere coloro che hanno delle travi di ferro nella lingua non sono destinati a riscuotere la mia simpatia. Però costui nel tram, oltre che a scambiare reciproche leccate col suo cagnolino, parlava con una signora anziana. Era cordiale, garbato, e molto sorridente.
Alle due di pomeriggio c'è poca gente in giro, e passeggiare da solo con la mia valigetta mi piace un sacco. Le vetrine sono chiuse, per fortuna. I rumori sono ai minimi normali durante le ore di luce. Gli scolari corrono attraversando frettolosamente le strade. Il vento di tramontana non è solito sollevare e condurre alle narici il profumo del mare. Amo questa negletta terra, a tal punto da volerla vedere scomparire ai miei piedi con modestissimi rimpianti. E magari si portasse via anche la mia lingua, così imparo a star zitto. E si portasse via anche la penna.
E mi portasse via il pensiero. Che è da un po' di tempo che quando vi ci metto piede trovo sempre la stessa ignara immagine.
Ricomincia la giostra.