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martedì 9 gennaio 2018

Character

La paura. Ho in mente una sceneggiatura che parli di paura. Quella cosa che ti arresta ogni intento, che ti affanna in pianura, che trasforma la nebbia d'un gennaio umido in un muro senza dimensioni. Ogni punto d'aria sembra uno spigolo pronto a ferirti con urti e lividi senza colpa.

La paura che protegge, coccola, rassicura come una gabbia nella quale sentirsi sovrani.
La paura che ci assilla col suo smisurato vuoto che si fonde nelle ombre di ogni impegno massacrante con cui falcidiamo i nostri giorni senza un forse.

La paura che rafforza l'illusione di un equilibrio ritrovato che è solo un pensiero allontanato nello spazio e nel tempo di un sacco di angosce e promesse infrante a cui non abbiamo imparato a volgere uno sguardo pulito.

La paura di una scelta che irrompe a sciogliere i nodi dai nostri certi ormeggi, al riparo nella risacca della noia, svelando il volto banale e candido dell'inesorabile.

Inizia il nuovo anno con questa straripante voglia. Unico respiro di pace; una pace che sembrava possibile al realizzarsi di piccoli traguardi, e che si infrange non appena ogni méta si nasconde alle spalle della successiva.
E s'allontana.
Come te, che ogni giorno ti mascheri da questa angoscia, e in quella paura ti rifugi, al riparo da ogni possibile gioia.

domenica 17 dicembre 2017

Nascosti

- Credi che possano riconoscermi se indosso questo berretto?
- Forse..
- Non ho più dei capelli che restano impressi nella mente della gente. Sono corti ed anonimi.
- Son belli comunque. E non sono corti. Comunque no. Non rischiamo.
- Non rischiamo.
- Non rischiamo, potrebbero vederci. Lo sai che non sarebbe giusto.
- Le gente non bada noi.
- Non ne sono certa.
- Da chi ci stiamo nascondendo?
- Ci nascondiamo dalle chiacchiere che ci farebbero del male.
- Anche sottrarci alla luce ci fa del male.
- No, Alcor, no.
- Da chi ci stiamo nascondendo?
- Lo sai.
- Ci stiamo nascondendo da noi stessi. Ci stiamo mischiando alla polvere del tappeto che avvolge le mattonelle rotte delle nostre paure.
- Resta qui, in questa gabbia.
- Non parlo.
- Non parlare Alcor.
- Non voglio raccontarci.
- Non esistiamo se non nelle elucubrazioni della tua noia domenicale.
- Perché fuori fa freddo.
- Perché non sei ancora pronto per uscire, torna qui, nella gabbia.
- Non riesco a camminare sù per il bosco.
- Dormi qui, Alcor.

martedì 30 giugno 2015

28 - XX - 20XX

Hai sete? Ancora vino?

No, grazie.

Dimmi dove ti fa male.

Qui.

E adesso?

Ahi!

Adesso?

Va meglio.

Vado di là, ti lascio sola.

No, puoi restare.

Va bene, resto.

Che fai?

Perchè?

Sei lì fermo, quasi in attesa di qualcosa.

Inizio la mia veglia.

Veglia? Non dormi? Io sono molto stanca.

No, non saprei perché addormentarmi.

Non hai sonno?

Dormo molto poco da qualche tempo. Preferisco restare qui e vederti dormire come se stessi ammirando un'opera d'arte. Meraviglia e silenzio.

E non hai paura di addormentarti?

No. Ho paura di svegliarmi. E capire che tutto questo non è accaduto mai.

sabato 2 maggio 2015

Un apatico

Mercier uscì di casa perché non riusciva a dormire. Entrò nel nuovo bistrot nella piazzetta della cattedrale, e dalla popolazione che si palesò ai suoi occhi riuscì a comprendere quale sarebbe stato il destino di quel posto. 
La proprietaria gli venne incontro con rumorosissimi passi, e Mercier fece una smorfia di disappunto con il rintoccare di quei tacchi se sembravano volerlo assalire. Ordinò dello scotch e fissò per un attimo un tavolo poco più in fondo, dove un uomo molto alto e ben vestito stava urlando qualcosa ad una ragazzetta che a stento tratteneva le lacrime. In giro calò uno strano silenzio, e tutti parvero coinvolti nella lite tra i due, ma Mercier concentrò i suoi occhi sul suo bicchiere, e con la punta delle dite della mano destra spostava avanti e dietro un quadrato di cioccolato bianco.

La proprietaria rimbrottò qualcosa di riprovevole sull'uomo più in fondo, e in generale sembrava avercela con tutti i presenti di quella serata, per lo più ubriachi. Mercier distoglieva lo sguardo dal suo bicchiere ogni volta che la donna appuntava nei suoi discorsi un nuovo individuo; Mercier lo guardava un attimo, e poi rientrava sulla sua rigida posa.
La donna si fermò all'improvviso, e prese a fissarlo silente. Mercier s'accorse di quello sguardo dopo qualche minuto. S'accorse del suo sguardo languido, e del viso ammiccante. La donna tornò sul retro, e andando via sfiorò il braccio di Mercier che ancora reggeva il bicchiere vuoto. Lasciò la porta socchiusa, rivolgendogli un ultimo sguardo.
Mercier girò dietro il bancone e la raggiunse. La donna era piegata a sistemare dei barili di olio. Mercier le si avvicinò e la prese dai fianchi. La donna gemette, e tentò di baciarlo, ma Mercier allontanò la sua bocca, spingendola con forza contro un bancone. Le sollevò la gonna e la prese da dietro.
Fece presto.
Prese uno straccio e si ripulì le mani. Si sistemò i pantaloni e fece per allontanarsi.
- Ehi! Tu! - Gli urlò la donna.
Mercier si fermò davanti la porta, ma non si voltò a guardarla, ne sentiva lentamente allontanarsi le urla e le maledizioni. Poi uscì verso la notte.

La Luna illuminava il cielo ad est, a pochi centimetri dalla costellazione della Vergine. Mercier accusò un leggero brivido, poi proseguì il suo cammino alternando i propri passi sulla colorazione a scacchi delle chianche sul viottolo.
Pensò a sua madre, e al dolore che avrebbe provato nel ricevere la notizia. Pensò a quella vita che sfioriva come in preda ad un interminabile inverno. Pensò a quelle combinazioni cosmiche che tornavano a mescolarsi nel caos, alla chiamata di una nuova vita a cui non si sentiva pronto di garantire una rigenerata presenza.
Pensò a come sarebbe stata la sua morte, alla gente che avrebbe condizionato, agli eventi che avrebbe messo in moto. Pensò ai pochi giorni dall'imprecisato numero che lo avrebbero ancora visto sulla scena del mondo a recitare ruoli comprimari. Si ricordò di una donna amata anni addietro. Della debolezza con cui aveva avvilito col tempo quei giorni dal sapore dolce e ricco di speranza. Dell'abbandono lento cui s'era condannato non riuscendo a nutrire un senso alcuno ai suoi giorni, e a quella serenità così scomoda.
Da lì a poco quel ricordo si sarebbe affastellato ai tanti racconti incompiuti che hanno ricopiato nei secoli le bozze del mondo, avrebbe avuto volti di vite mai nate.
Ricordò la profondità di quei giorni che pure gli furono sottratti con violenza. Pensò che, in fondo, in quello stretto recinto in cui s'era confinata la sua possibilità di scegliere non provava alcuna paura.
Quando lei se ne andò Mercier pensava che avrebbe dovuto fermarla, che avrebbe dovuto riprendersela. Che avrebbe dovuto forzare lo scorrere inevitabile delle cose piegando la vita alla sua volontà.
Come l'uomo nel bistrot che urlava contro la ragazza, avrebbe dovuto imporre al suo stesso mondo delle regole rigide e dei contorni precisi.
Pensò che racchiudere quei sogni condivisi in un solitario epitaffio coi tempi al passato l'avrebbe assolto per l'eternità. Quell'eternità che stava per giungere a compimento di lì a breve.
Mercier osservò che in quel momento tutti i suoi dubbi stavano per disperdersi. Anche la Luna, apparentemente costante ed infinita, avrebbe fatto a meno di lui. Così nulla al mondo ne avrebbe mai reclamato la presenza o aborrito le intemperanze. 
Si sedette su un improvvisato giaciglio ai piedi di un pino avvolto nella notte. Respirò l'odore della pece che veniva rafforzato dal suono tenue del vento tra quei rami. Si sentì chiamare un'ultima volta.
Sapeva che il  momento stava per arrivare, ma non lo avrebbe mai afferrato fino in fondo. Si sentiva impotente, come tutte le volte che la vita gli era sfuggita di mano.
Ma in quel sibilo tra i rami ascoltò il canto della sua resa al tempo, e nella sua mente rivolse delle ultime parole a sua madre.
Le disse che non valeva la pena aspettarlo a pranzo. Le disse che aveva perso l'illusione di poter governare il vascello della sua propria esistenza, e che nell'inevitabilità del naufragio ogni condanna risultava inefficace.
Attese che quell'attimo anarchico lo cogliesse. Non aveva idea di quando avrebbe potuto coglierlo. Un'ora o un mese, che differenza avrebbe fatto?
Mercier lo attendeva, e si addormentò.
    

lunedì 10 ottobre 2011

To finally be caught


Non dirmi nulla. Lascia che il vetro di questa bottiglia possa filtrare  le tue espressioni, che possa irradiare la malinconia di un ennesimo abbandono.

Nelle lettere pubblicate sui giornali si afferrano i cappi che fanno  risalire alle travi su cui sono annodate le resistenze che si oppongono alla forza centrifuga delle nostre paure.

Cosa non darei per non saper più leggere e per lasciarmi guidare solamente dalle pause che piovono nelle nostre conversazioni, dalle smorfie refrattarie e dai ghigni che scorrono sul tuo viso.

Vorrei sorvolare sui tui dubbi più profondi e lasciarmi precipitare nel vuoto di essi, dimenticando quanto siano rovinose le voragini, quando si parla di otri dell'anima.

Rimbalzare sulla gomma masticata delle infrazioni permanenti all'esperito ciondolare della quotidianità, che arde su questa terra arida.

Ho scoperto un saccheggio tra le pile di documenti catalogati nei casellari dei promemoria futuri. E ho dimenticato la password per ripristinare il gusto della rivolta.
Si marcia ai bordi di accozzaglie di propositi infranti.

Il tetto della memoria è fatto di lamiere d'amianto. I polmoni ne hanno introitato le polveri ad ogni tentativo di scavo che ha fatto nevicare ruggine sui balconi rivolti ad occidente.

Bevi il tuo drink e, almeno stavolta, pensa che io non sia capace di comprendere nulla di quello che vorresti raccontarmi.

Mi hanno insegnato a giustificare verso me stesso le ragioni di un innocuo guizzo di questo pupo preso in leasing coatto.

Questo tribunale motiverà la sua sentenza prima o poi. Io vado a fumare un sigaro nel cortile delle ginestre.

Le pareti di questo istituto sono tinte di schifo, eppure sei qui. Non ti aspettavo, né ho mai sperato di poterti incontrare.
La speranza è spesso il tassello mancante nei piani di rivolta di un uomo.

Ti colgo, come se arrivassi in un momento che è unico e irripetibile, e del quale non esistono né memorie né repliche fatue. Ogni volta mi ripeterai il tuo nome, ed io sorriderò nel ricordarne uno nuovo per battezzare la mia rinascita in un attimo di vita che s'accende e si spegne per incastonare la felicità.
Dormi ancora un po', amore. Noi andiamo.


- Andiamo, Maria, facciamo tardi a scuola. Saluta la mamma.

domenica 4 settembre 2011

La vita interiore


- Ma lei è un giocatore di rugby?

- No, pratico attività più tranquille, come la briscola.

- Fuma?

- Sì, ho un'insana propensione al carsismo polmonare.

- Diamo una controllata alla prostata?

- No! Sono diventato obiettore di coscienza pur di non far visitare la mia prostata! La prego...

- Ma giunti alla sua età un controllo sarebbe opportuno, suvvia, non faccia il bambino, si volti.

- Le ho detto di no! E comunque sono ancora giovane per badare alla mia prostata!

- Lei "giovane"? Ma sta scherzando, vero?

- Perchè?

- Lei crede davvero di essere ancora giovane?

- Ma... è scritto qui, legga, sui miei documenti.

- Quali documenti?

- Ecco, questi... ma.... che cosa è successo alla mia immagine?

- Che cos'ha la sua foto?

- Sembra essersi ingiallita, all'improvviso, e il mio nome è sbiadito, la mia altezza dimezzata, che scherzi sono questi?

- Tenga, si guardi allo specchio.

- Ma, chi è questo vecchio canuto?

- Come chi è? È lei, non si riconosce?

- Ma non  posso essere io! Avevo il viso tondo e i capelli neri quando sono venuto qui.

- Quanto tempo crede che sia trascorso da quel momento?

- Come sarebbe, quanto tempo... Un'ora al massimo...

- Un'ora al massimo, dice? Lei ci sta lasciando lentamente, figliolo. Su, si giri, dobbiamo controllare la prostata, è necessario.

- Ma vuole darmi una spiagazione? Che cosa c'era in quel bicchiere che mi ha offerto?

- Dei drenanti naturali.

- E cosa significa tutto questo? Perché sento le gambe cedenti e un forte mal di schiena?

- Che lei deve svegliarsi, giovanotto. Che lei deve necessariamente svegliarsi  e andarsene da qui.




Le scelte sono gli angoli in cui si depositano le scorie della solitudine in cui è confinato ogni uomo. Ai bordi del pavimento, lungo i muri delle stanze, basta una passata di un panno umido per ristabile una parvenza di chiarezza. Agli angoli, invece, resta sempre qualcosa che si deposita col tempo. Lì, dove i contorni si fanno irregolari, dove è obbligatorio svoltare per non andare a sbattere contro un percorso nottambulo, e dove fa più male se ci si rovina contro.

Dopo aver fatto i gargarismi col suo colluttorio rosso, e avendo avuto cura di riporre il suo deodorante ascellare nel bagaglio, andò incontro a suo padre che lo aspettava battendo la pianta del piede.

Allargò il nodo della cravatta per non lasciare che l'ansia lo strozzasse. Qualche felpa per la sera l'aveva portata con sè. Doveva ancora interpretare gli adattamenti del suo corpo ad un clima diverso a quello a cui era abituato. Ogni tanto si schiariva la voce con un grugnito silenzioso per modulare meglio le sue parole. Aveva capito che plasmando bene le parole avrebbe potuto rendere meno infettivo il suo accento marcatamente distintivo.

Durante il volo provava a intavolare discorsi con se stesso per saggiare i suoi progressi nel tenere  a freno le mani, per controllare meglio gli effetti dell'ansia.
Che avrebbe avuto a disposizione poche altre occasioni lo sapeva bene. Non si è giovani per sempre. E la resa dei conti inesorabilmente è depositata sempre là, all'angolo della stanza.

Avrebbe sciorinato ancora una volta il novero delle sue esperienze. Una ad una, come un susseguirsi di stazioni deraglianti che non avrebbero mai conosciuto un approdo. Avrebbe provato ad offrire alla commissione una rilettura di quegli eventi che fosse meno ufficiale. Avrebbe tracciato il filo conduttore di quella rincorsa alla normalità affrontata con tanto coraggio ma con pochi apprezzabili impronte nel corso evolutivo della specie umana.

Giunto a destinazione lei lo venne a prendere, e lo abbracciò. Per un attimo ebbe il sospetto che vi fosse una larga pozzanghera che separasse la realtà monolitica e immutabile dall'idea che costei in quel momento stava stringendo tra le sue braccia piene di ardore.

Ogni minuto che da allora trascorse assomigliava al campanello del giudice istruttore che freddamente enucleava le ragioni di una speranza malriposta.

(I vincenti li riconosci subito, riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di te? Io avrei puntato tutto su di te, Noodles. E avresti perso.)

Lei le offrì una granita all'anice, preparata come solo sua madre sapeva fare. Era diventata consuetudine da un po' di anni. Egli guardava il suo bicchiere di granita nel quale giaceva l'ultimo sorso. Pensò che non aveva sempre bevuto granite. Che per larga parte della sua vita le granite erano fluite in maniera indifferente senza che gli venisse mai venuta voglia di berne un bicchiere. Tanti anni erano trascorsi senza che le granite fossero mai esistite.

Un giorno, invece, s'accorse che faceva caldo e che non aveva fame, e che una granita gli sarebbe bastata per restare in compagnia di persone a cui avrebbe poi voluto bene.

Pensò che questa volta non sarebbe stato necessario avvisare a casa che il viaggio era andato bene.

Per anni gli avevano insegnato ad aspettare, a rinunciare, a restringere il ventaglio delle scelte. Si presentava al mondo dei vivi ricolmo di un amore che recava in dote miriadi di capitoli incompiuti. Storie affogate nel cesso al primo apostrofo erroneamente collocato.
Come quelle vecchie macchine da scrivere che andavano con i nastri di inchiestro nero. Bastava un dito un po' più disconnesso a rendere inaccettabili discorsi interminabili.

Infilò il suo pigiama invernale, e respirò a fondo il calore che da quell'abbraccio ancora s'infondeva. Una lacrima si addensò alla cornice del suo occhio sinistro, come un vetro rotto da cui penetrava la pioggia.
Sentiva il peso di tutta quell'inadeguatezza a cui aveva lasciato ampi metri di vantaggio, e che proseguiva lenta, lentissima, e lo precedeva nella risoluzione dei suoi algoritmi quotidiani.
Anche con il passo di Achille non l'avrebbe mai raggiunta, perchè essa conservava sempre una precedenza assoluta che le proporzioni dello spazio tempo avrebbero reso incolmabile.
Si nasce tartaruga, o si nasce Achille.
Si nasce compiuti, o si nasce appena.

Sul giornale dell'altro ieri vi era la consacrazione dell'incompiutezza come stagno nel quale la forza creatrice del linguaggio si edulcorava di arazzi pregiati nei riguardi di una cenciosa e scontata banalità a tratti quasi ripugnante.
L'irrequietezza è l'impeto ventoso che schiaffeggia l'insenatura al riparo del mare. Una conca aperta da cui la vita avrebbe lanciato affondi che un lago cheto e descrivibile non avrebbe mai appreso nelle sue computabili rive.
Una forma estrema di annegamento che ha come contorno incompleto la colpa, e come sbocco inevitabile la distruzione di ogni cosa.

Sentiva tutto il peso dell'umidità di un cielo in cui la sera non si rintracciano stelle.

A lei dedicò quei pensieri che si rivelarono gli ultimi. Pensieri che non sarebbe stato capace di replicare su carta per non lasciarsene privo. Ché scrivere è un impoverirsi senza ricevuta fiscale.
L'arte, un condono sull'inconcludenza.

E la smise all'improvviso, calpestato tra i binari di una metropolitana.


 

domenica 21 novembre 2010

Be Proud!


Ti capisco. 




Tanti sacrifici per poter legittimamente ambire ad una collocazione degna degli spurghi endocrini di questi anni.
Hai persino passato la lima per le unghia ad addolcire gli spigoli più rigidi e caratterizzanti le tue  indubbie qualità.

Hai un'onestà che rasenta la pena, una non petita propensione cirenaica a sobbarcarti i fardelli di tutti gli stakeholder che hanno lanciato la scalata alla tua esistenza.
Ogni risposta è resa con lo sguardo basso teso alla preventiva discolpa.

Comincerai forse a credere all'esistenza di una banca della sorte, o di una regia spettrale che dispensa alchimisticamente le dosi di ventura in base a formule funzionali alla prosecuzione cinica e caustica della specie. Che pur nella triste fungibilità delle sue trascurabili monadi ha quanto meno il pregio di eleggere i lividi e le inculate in uno storicistico, epico contributo all'avvento di un uomo migliore.



No, quello è il pizzico dell'ottenebramento della ragione che tenta di fotterti. Bada che non ti dirò di mollare, perché ognuno saprà attardarsi lungo la propria emancipazione.

Ma quando verranno a dirti che ogni sofferenza è un'apertura di credito per soddisfazioni future, e che i vuoti odierni sono la capitalizzazione di un utile postdatato, sappi che sono tutte stronzate.




domenica 31 ottobre 2010

Hello wind



Tutti si credono un po' cuori sanguinanti, ed un po' artisti, quando hanno una qualche fregatura da tamponare con un banale poemetto emostatico.

Regressioni nella Pangea di una notte in cui si stenta a sedare l'anima nella naftalina di qualche pensiero di ripiego e di riserva.

Dolly, modificare l'umore di un uomo con involontari gesti è come giocare a fare cerchi concentrici nella diga del Vayont.

Oh, Dolly, piove. Va tutto bene Dolly, non aver paura.
Il tuo inquieto odore si gonfia ad ogni centimetro recuperato dalle mie scarpe lorde e pesanti. Piove, ed il tuo odore è quello delle felci che si imbellettano con le gocce di pioggia e presenziano al galà della notte sibilando desiderio e impazienza.

La corda è tesa, Dolly, ma ci sono qua io a liberarti dalle tue ansie. Questo impermeabile chiaro imbevuto di pioggia è impostore vicario di una Luna che ha abbandonato questi cieli.
Dolce, generosa Dolly che osservi disdegnosamente ogni cosa immobile roteando le smeraldine pupille quasi sino a far luce alle tue spalle. Non impegnarti a tremare ma accosta il tuo capo sul mio petto e sotterra ogni giacimento di rivalsa. Così, pudica e quieta, il viso rischiarato delle nuvole si specchia nel solco bramoso delle tue labbra piegate sulla mia camicia.

Dolly, non occorre  che tu parli, io ti solleverò dal carico di questa partita. Dimenticherai i tuoi affanni, allontanando le iniquità che hanno albergato nelle tue tende. Tu che mi hai decriptato la sorte in un sorriso su cui depongo la finora ricusata meraviglia della mia progenie.

Oh Dolly, alzerai la fronte e sarai sicura, e  senza timore. E la tua vita brillerà più del meriggio. Baciami così, Dolly, il buio sarà come il mattino.
Starai sicura perchè ora c'è di che sperare, ti guarderai intorno tranquilla e riposerai. Ti adagerai e nessuno ti turberà, molti invece tenteranno di corteggiarti.

Ma gli occhi dei malvagi languiranno, per essi non c'è più scampo e la loro speranza esala in soffio.

Ti amo, Dolly.

La lama del mio coltello fende la notte, le esalazioni, e il tuo petto.

Quanta vita scorgo ancora nei tuoi occhi, quanta innaturale calma ti priva del tuo peso, e ti dilegua fra i rimbalzi della pioggia. Indurisci il tuo abbandono sul mio petto, Dolly.
Quel tuo profumo di smeralda felce piangente è ancora lindo.



giovedì 24 settembre 2009

Faccio schifo

Burro, 150 g.
Cioccolato fondente, 180 g.
Farina, 150 g.
Zucchero, 150 g.
Uova, 5.
Sale, un pizzico.
Vanillina, una bustina.

Per la copertura:
Acqua, 50 ml.
Cioccolato fondente, 150 g.
Zucchero, 150 gr.

Marmellata di albicocche, 6 cucchiai.


Ricordate che la temperatura ottimale per conservare la sacher torte è tra i 16° e i 18°.

mercoledì 26 agosto 2009

Night voice

Un urlo.

Pare una gracchiante voce di donna che ha lanciato nel buio notturno una parola incomprensibile che iniziava per G.

No... non era mia madre... se fosse stata la sua voce che mi chiamava, avrei dovuto distinguere un appellativo prima della G., tipo: "maledetto G.", "maleducato G.", "buono a nulla G."

La voce di mia madre, non mi manca. Non più del cantino della mia acustica.

Un giorno la voce di mia madre non si sentirà più nell'aria. Io sarò lì, con la barba bagnata dalle lacrime e le braccia poggiate sul bordo della bara. Avrà ancora i capelli castani intatti, mia madre, come il suo bel viso che non sfiorisce mai al punto da camuffarsi da probabile mia ragazza quando capita che usciamo insieme.

Sulla mia cravatta non ci sarà la macchia del sugo che sarebbe schizzata dai suoi spaghetti, insipidi per via della pressione alta che da lei ho ereditato insieme allo sguardo, e alle vertigini.

Quante volte me ne sono andato e l'ho lasciata in lacrime, restando di pietra senza dirle mai una parola. Senza mai trasformare il mio braccio in un cordone ombelicale adulto e peloso che le restituisse l'amore incomprensibile che ha per me.

Tanto incomprensibile quanto inaccettabile.

Lei sarà la pietra fredda e sorridente che se ne andrà, ed io piangerò questa volta. Penserò a tutte le volte che ho voltato le spalle ad ogni tipo di sentimento. Il mio corpo sempre freddo e strafottente sarà coccolato e accalorato dal dolore facendo il paio con una cacchina fumante.

Ora esco e ammazzo quel gatto di merda che latra nella notte.

lunedì 10 agosto 2009

Pills

Il mio organismo viene idratato da un enorme quantitativo giornaliero di caffè.

Ciò mi consente di restare vigile e arzillo per diverse ore nottetempo, e sconfiggere quell'insonnia che mescolandosi alla stanchezza stritola il sistema nervoso.

Insonnia essenzialmente dovuta a due fattori: il primo è il fantasma di un volto di donna con la frangetta con cui intrattengo pindariche conversazioni nelle quali, comunque, ho sempre ragione.

Il secondo fattore sono le emorroidi, costanti e sottintese alle azioni giornaliere come la finissima pioggerellina d'Albione.

Fu attraverso il piccolo parco di Williamsburg, osservando cumuli umani contendersi l'esile ombra di un platano, attendendo che il mio compare avesse finito di pisciare, che ho compreso la mia voglia di non lasciare questa città.

Ho speso circa 50$ in barattoli di apricot preserves.

mercoledì 1 aprile 2009

Le luci della città

L'ultima volta che ho indossato il pigiama alle 20.30 ora illegale, avevo 8 anni. Avevo trascorso il pomeriggio a giocare a nascondino in un territorio vasto quanto un intero comparto di Piano Regolatore; l'area di verde pubblico con pineta era un rifugio sicuro per non essere scovato, ed il gioco lo prendevo talmente sul serio da rotolarmi sull'erba madida e nel fango, pur di scamparmela.
Peccato che anziché rotolarmi con gli anfibi e la mimetica, ero vestito come si conviene ad un ragazzino che raccontava ai suoi di recarsi devotamente alla parrocchia.
Non avevo ancora ben chiaro, nell'età dell'incoscienza, il trade off tra la vittoria a nascondino e le percosse paterne che mi attendevano precise, senza errabondi imprevisti, nel guadagnare l'uscio di casa con gli abiti lerci come una balla di fieno trainata da buoi con la diarrea.

Era il novembre palloso, ed io solevo così menare il giorno.
Fanculo ai flashback.

Compresi la necessità di asportare l'austerità e l'impegno al di fuori dai ludici meccanismi vitali, quando, quella sera, sacrificai in nome di quella gogliardica competizione tra scalmanati, un paio di bellissimi stivaletti di pelle di camoscio, chiari, con appena due di giorni di vita.
Fui sollevato di forza dagli avambracci pelosi di mio padre, trasportato nei pressi della vasca da bagno, denudato, e utilizzato come cavia per sperimentare il principio di Archimede, sviluppando l'attitudine all'apnea.
Ma quello era niente se paragonato al rito dell'asciugatura dei capelli.
Con il beccuccio dell'asciugacapelli che veniva fatto strisciare come  una rovente  aspirapolvere  ai raggi UVA sul mio cuoio capelluto, per garantire un'arsura tale da carbonizzare il cuscino nottetempo.
Avevo la classica riga a lato, propria di ogni bravo ragazzo taciturno.
Per questo Raffaele Fitto mi sta ampiamente sui maroni. Mica perché fa inviare gli ispettori di Angelino Alfano (che assomiglia al pupazzetto del castoro mentadent che mi fu regalato dal dentista quella prima volta che osarono profanarmi la bocca) nel tribunale presso il quale procede l'inchiesta sulle sue tangenti.

Giocavo con la forbice e mi ritoccavo la curvatura delle unghia delle dita dei piedi.
Quelli sì che erano bei tempi. Ed ogni cazzata è buona per ricordarli.
Meglio cogliere un piccolo insignificante gesto di una normale giornata e utilizzarlo come ponte verso un ricordo lieto e sorridente, che associarvi gli stucchevoli rimandi che ingiungono quando le briglie sono sciolte.

Devo ammettere che, da quando ho lasciato la ricerca, i caffè del pomeriggio hanno un sapore più piacevole, perchè alleggeriti dal fardello del senso di colpa.
Ancora meglio se penso a quel piccolo plico che giace sulla mensola della libreria; contiene un passaporto e due biglietti. Perché purtroppo è previsto il ritorno.
Mi ha divertito leggere un dispaccio inviatomi da un caro amico che si sta adoperando a trovarmi un giaciglio là dove andrò. Ha attivato i suoi benigni canali religiosi, e nella mail che ha inviato ai suoi confratelli, egli ha scritto: "non è un credente, ma è un bravo ragazzo".
Mi dispiace davvero di offrire questa tediosa immagine di me.

Altro lato comico è la incalzante insofferenza del genitore che si impegna a contrassegnare ogni ora con una sciocca domanda circa la sorte che mi attende dall'altra parte dell'oceano.
Ho comprato un'armonica diatonica, e credo di non abbisognare di altro.

Potrei, ad esempio, vagabondare. Come il tramp!
E nella mia erranza, imbattermi ad un angolino della metropoli con una persona di quelle che non ti accorgi che esistono. Perché le persone giacciono in questa specie di guscio che le ignora. Invisibile.

Quell'angolino mi pare d'averlo già visto in un pomeriggio della primavera dello scorso anno. Stavo da solo in un posto dove non capivo un accidenti di quello che la gente diceva con quella R moscia.
Vabbe' che di muretti bianchi nel mondo ce ne sono un bordello. Ma questa persona?
Potrei darle un nome francese, ma comincio ad averne le palle rigonfie al punto da farmi indurire le cisti di 'sti nomi.

Toh, ma è cieca! Provo a toccarla, a sfiorarla, ma lei non riconosce la direzione delle mie mani. Ne sente il calore, forse, altrimenti oltre ad essere cieca è pure 'na cretina. Vende dei fiori, ma più che altro, mendica.
Mi viene in mente di invitarla ad un concerto. Almeno sente qualosa, visto che sugli occhi non facciamo affidamento.
La recidività danza senza sospetto tra il peccato e la virtù.
Disegno il giudizio universale che mi garba, a seconda del piacere che accarezzo; che mi potrebbe fluire ovunque al pensiero di una notte trascorsa con le mie dita intrecciate alla sua mano. Che quella mano è il ponte tra la sua cecità, il suo silenzio, e questo rumore cacacazzo che fa la polveriera della mia coscienza.

La invito, sì. Sono un po' impacciato per la verità.
Perché
non dormo, io ho gli occhi aperti... Guardo fuori e guardo intorno. Com'è gonfia la strada di polvere e vento nel viale del ritorno...

Lei non c'ha un quattrino. Ha un mazzo di garofani chiari e margherite profumate. Non ha nemmeno il tempo per venire al concerto, c'ha da fare. Così dice. Del resto, gli impegni sono impegni.

Probabilmente deve dormire tutto il giorno. Ed è giusto, vivere stanca, lo diceva persino Pavese: arriva un giorno in cui si accumula talmente tanta fatica... ed è preferibile riposarsi tutto il giorno.
Non insisterò, volterò l'angolo dopo averla sfiorata, e me ne andrò.

Io poi combino le mie autonome cazzate quotidiane. Tipo andarmi ad ubriacare qua e là quando capita, e a fare i conti simpaticamente con la volubilità.
Però sarà la sfiga, ma io in questa cieca venditrice di fiori mi ci imbatto.
Che poi io lo faccio un po' capitare di passare per quell'angolino. Magari mi invento qualche verosimile ragione che mi conduce, guarda caso, a dover passar di là.

La venditrice di fiori è cieca. Le chiedo di accompagnarla a casa, e lei si mette sottobraccio. Vorrei abbracciarla, ma forse oso troppo. Si sgancia.

Vabbuò è cieca, c'aggia fa? Confonde le persone perché nate a pochi chilometri di distanza, ma forse confonde pure se stessa e le consone reazioni. Boh.
Però vale la pena farsi riempire di pugni, anche solo per celebrare un temporaneo fanculo alle cui spalle aggrapparsi.
La scena del pugile è bellissima.

Come finisce? Io creperò di caldo.
Al tramp finisce così:





sabato 23 agosto 2008

Quattro stracci di un amor di penna, e di pena

- Io la amo la tua penna...

 - ... ( è una maniera come un'altra per amare te stessa)

La logica normale delle cose, quella dei comportamenti razionali, prevede che, è sì possibile trascinare qualunque cosa fin dove si vuole malcelandola sotto le mentite spoglie di ipocrite relazioni, poi però questo percorso giunge all'appuntamento col proprio anatomico esame.
La verità è come una puttana a cui ti rivolgi per colmare un vuoto, e davanti alla quale ti sciogli in lacrime. Ti coccola subito dopo averti fatto del male, semplicemente estranea di fronte alla nostro masticare e rigurgitare di inganni e fallimenti.
Impassibile, non pretende nemmeno il fio, per quell'ascolto. Ed ha ragione.

Il gioco delle parti, che walzer di oscillazioni misteriose eppure così adamantine.

Voler bene certe volte pare essere una gara di resistenza per il proprio orgoglio. Ma senza rinuncie e senza abbandoni, dovrebbe essere un abbraccio ad armi pari, ed io stesso non ci riesco molto spesso.

Ho tagliato i miei capelli con un rasoio ricavato dalla barba di diavolo.
Ho visto che la mia pelle bruciava, ed io scomparivo senza più ascoltarti.

Mille volte ho tentato di chiudere questo blog, ingannando me stesso, perché ero ben conscio che non lo avrei mai fatto. Questo perché ho sempre scritto, e perché essere letto mi gonfia di narcisismo puro.

Non ha davvero senso, per me, esistere unicamente attraverso quelle parole. Quante cose restano sottese alle cavolate che scrivo... quante cose si annidano nelle righe scure che separano, come una scacchiera, una parola da un'altra, una frase dall'altra. Un pensiero dall'altro.

Quante voci mi restano decapitate in bocca come tradimento caino del mio stesso fervore... quante cose ho lasciato che si potessero unicamente immaginare, seppellendole in aule sotterranee, seminando sentieri per raggiungerle. Quante cose poi ho ritrovato intatte negli stessi nascondigli, perché incomprese, perché rifiutate, perché, forse, un tantino audaci o spaventose?

Quante cose che non sai di me...

La voce, una penna, un pensiero di cui forse non si riesce a fare a meno, qualcosa per cui ringraziare.
Per me, invece, sono solo gabbie. Incomprensibili gabbie che anziché avvicinarmi mi sembrano allontanarmi, perché mi limitano ed i miei pensieri collassano. Qualunque persona è un'esplosione che va alimentata, e mai soffocata.

Niente forza, niente pressioni. Attendersi qualcosa nel corso della vita è un oltraggio, nonché un inutile spreco di risorse. Provare a capire la strada dove ci muoviamo è talvolta un'illusione, ma spesso, anche un esercizio interessante.
Imprimere la propria volontà vuol dire non restare come vittime, ed essere sempre attori, consapevoli che il proprio plot lo si scrive a sei mani, insieme con i cazzi in culo e con le botte di culo.

Il demiurgo è intento in altre manifatture.

Le panchine sono comode, anche senza cartoni. La ruggine si attacca ai pantaloni, ma anche noi disseminiamo un po' del nostro humus in ogni cosa su cui poggiamo le terga. Ogni incontro è una contaminazione ed una conquista.

Quelli che vedono solo dei furti e delle minacce, sono le persone destinate ad una radicata tristezza.

Io sono felice. Anche dopo una fregatura di dimensioni colossali. Perché dura lo spazio di una bestemmia. E le strade sono tante.

Il gioco non finisce, ma io resisto... Io. Resisto... diceva il Di Spelta in preda alla follia nell'opera eduardiana.

Se devo essere solo una voce, per chiunque, tanto vale essere nulla.

E con questa bella canzone che ieri mi è stata ridestata, vi saluto per un po'.






E guardo fuori dalla finestra e vedo quel muro solito che tu sai.
Sigaretta o penna nella mia destra, simboli frivoli che non hai amato mai;
quello che ho addosso non ti è mai piaciuto, racconto e dico e ti sembro muto,
fumare e scrivere ti suona strano, meglio le mani di un artigiano
e cancellarmi è tutto quel che fai;

ma io sono fiero del mio sognare, di questo eterno mio incespicare

e rido in faccia a quello che cerchi e che mai avrai!

Non sai che ci vuole scienza, ci vuol costanza, ad invecchiare senza maturità,
ma maturo o meno io ne ho abbastanza della complessa tua semplicità.

Ma poi chi ha detto che tu abbia ragione, coi tuoi "also sprach" di maturazione
o è un' illusione pronta per l'uso da eterna vittima di un sopruso, abuso d' un mondo chiuso e fatalità;

ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare,

ma non raccontare a me che cos'è la libertà!

La libertà delle tue pozioni, di yoga, di erbe, psiche e di omeopatia,
di manuali contro le frustrazioni, le inibizioni che provavi qua a casa mia,
la noia data da uno non pratico, che non ha il polso di un matematico,
che coi motori non ci sa fare e che non sa neanche guidare,
un tipo perso dietro le nuvole e la poesia,
ma ora scommetto che vorrai provare quel che con me non volevi fare:

fare l' amore, tirare tardi o la fantasia!


La fantasia può portare male se non si conosce bene come domarla,
ma costa poco, val quel che vale, e nessuno ti può più impedire di adoperarla;

io, se Dio vuole, non son tuo padre, non ho nemmeno le palle quadre,
tu hai la fantasia delle idee contorte, vai con la mente e le gambe corte,
poi avrai sempre il momento giusto per sistemarla:
le vie del mondo ti sono aperte, tanto hai le spalle sempre coperte
ed avrai sempre le scuse buone per rifiutarla!

Per rifiutare sei stata un genio, sprecando il tempo a rifiutare me,
ma non c'è un alibi, non c'è un rimedio, se guardo bene no, non c'è un perchè;
nata di marzo, nata balzana, casta che sogna d' esser puttana,
quando sei dentro vuoi esser fuori cercando sempre i passati amori
ed hai annullato tutti fuori che te,
ma io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri, quei quattro stracci in cui hai buttato ieri,
persa a cercar per sempre quello che non c'è,
io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri, quei quattro stracci in cui hai buttato ieri
persa a cercar per sempre quello che non c'è,
io qui ti inchiodo a quei tuoi pensieri, quei quattro stracci in cui hai buttato ieri
persa a cercar per sempre quello che non c'è...

(cavolo come calza 'sta canzone, ogni tanto te la fai venire una grande idea...)

giovedì 14 agosto 2008

À bout de souffle (Lait et dérivés)

Mi avete rimproverato un giorno di essere troppo teso, di non saper lasciarmi andare con noncuranza.
Ci avete anche insegnato a viaggiare.
Dopo questi appunti di viaggio, che vi offro con cuore fedele, non potrete più rimproverarmi d'essere incapace di facile abbandono
.


(Jean Cocteau)


Negli ultimi dieci giorni ho scritto tre racconti.
Il primo narra di un tizio che incontra una ragazza in treno. Lui ha le dita delle mani perfette, ma non da sempre. Lei leggeva un quotidiano. Ne resta limitatamente ammaliato pur senza rivolgerle la parola; così le fa capitare un biglietto nella borsetta, tanto sa che non la rivedrà mai più. Qualche giorno dopo, invece, si incontrano casualmente, ed è lei a riconoscerlo. Gli riporge il biglietto a guisa di invito malizioso. Vanno a letto insieme e lui la uccide subito dopo, strangolandola nel sonno.


Il secondo è la storia di un giovine estremamente ansioso ed insicuro che passeggia per le vie di Bologna in solitaria. Si pone domande ridicole sulla vita e sul mondo, prova ad immaginare quale sorte l'avrebbe atteso se non avesse commesso alcuni errori. Sembra attendere sconsolato che qualcuno finalmente si accorga e si ricordi di lui. Gli squilla il telefono ed improvvisamente gli si illumina il volto al punto che smette di pensare. Cavolo, è una persona importante! Non risponde, e lo lascia squillare. Vuole esser certo che non si tratti di un errore. Il telefono riprende a squillare, è la stessa persona che lo cerca. Gli squilli sembrano più urlati e urgenti. Accidenti, sembra proprio che questa persona ci tenga davvero... meglio non sembrare eccessivamente lieti: non risponde anche stavolta. Respira un po' e si aggiusta i capelli, ha come l'impressione di essere visto e vuole sentirsi impeccabile. Trema ed ingoia rapidamente un mucoso grumo di agitazione. Prova a richiamare lui questa volta, e cominciava già a fantasticare, provando a sfornare una scusa nuova di zecca per non averle risposto prima.
Lei risponde immediatamente senza dargli il tempo di prender fiato e di sorridere, e di illudersi.

- Pronto...
- Ciao! Scusami ho fretta. Spresti dirmi se il biglietto del treno Milano-Bologna delle 13 lo posso utilizzare anche per il treno delle 11?

Tutto qui, l'inganno. Lui, un informato figlio di ferroviere e basta. Non una persona, non un pensiero a costei perennemente e nostalgicamente rivolto, ma solo un'uniforme da figlio di ferroviere cucita addosso come una pelle.

Il terzo è la storia di una donna indecisa, e di un maestro. Non so se sarà uno sfigato maestro di vita, o un maestro di scuola elementare, ovviamente precario.

Ricapitolando.
Sono state giornate furibonde senza atti d'amore.


Trascorro gli ultimi giorni di luglio in attesa della cavallina storna che portava colei che non ritorna.  Mai l'uomo è così attivo come quando non fa nulla, mai meno solo di quando è in compagnia di se stesso.

Nel frattempo provo a dedicarmi anima e corpo ad assecondare le lagnose bizze di un signorino alto un metro e trenta che si è maldestramente improvvisato mio capo. Mi commissiona il lavoro da svolgere tramite un sms autodistruttivo, come in Mission Impossible. Adducendo il fatto che, in caso di mia prematura scomparsa, egli negherà d'avermi mai conosciuto. Li mortacci sua. E proprio di una missione impossibile si tratta, dover ultimare una ricerca in tre giorni quando vi occorrerebbe almeno un paio di settimane.
I miei occhi, così già fortunati nella vita, si scioglievano nottetempo sulla cute della mia faccia, come la voglia di
Gorbačëv; fino alle 4.00 di mattina davanti al computer, anziché dormire, ma sempre nella costante e vana attesa della cavallina storna che portava colei che non ritorna.
Completo egregiamente il mio lavoro, anche se mi sento più cieco io del detentore del record mondiale di seghe giornaliere,
tempori serviendum est.

Divento estremamente vizioso in tema di tabacco. Non riesco a fumare altra roba che non sia firmata Marlboro, e comincio a nutrire un ribrezzo epistemologico nei confronti delle Camel e di coloro che le fumano.
L'autotassazione giornaliera comincia a bruciare il mio prodotto interno lordo personale, e i bronchioli.
La macchinetta self service delle sigarette diventa la compagnia più fedele dei miei giorni. Non l'amica bona, non l'amica bona della mia amica bona, non i compagni di partito, nemmeno colei che non ritorna con la cavallina storna. Ma una cazzo di macchinetta che mi avvelena giornalmente senza dirmi di no, a cui riesco persino a perdonare la cronica e scientifica mancanza dei 5 centesimi di resto.
Pensando che, fino a qualche tempo fa, la macchinetta distributrice di parchi prodotti che mi era più confidente era quella dei preservativi, mi cospargo il capo di una tristezza lancinante.
Ero ubriaco e avviluppato in fragranze alla grappa, e non potevo sapere:
- Ehi, baldi giovini, guardate che bel culo si può scorgere da questa soglia...
- Ehi, Alcor, vedi che quel culo di  cui elogi le fattezze hai già avuto modo di apprezzarlo da molto vicino per quasi cinque anni...
- Ah... non me ne ero accorto che fosse esso.
Perché la nostalgia più atroce è quella che cogli in ciò che ti mancherà da sempre, che non hai ancora mai avuto. Quello che è alle spalle non vale più di un tirnese borbonico.

Senza rimandare i piaceri e i doveri, prendo atto della necessità di una specie di risorgimento psico-fisico e mi affido alle sapienti mani di un medico. Ho frequenti giramenti di testa, vertigini e nausee di vario genere. La prima di queste mi sovviene vorace quando mi soffermo a meditare circa la mia famiglia.
La seconda, nella scala cacacazzi, mi sovviene quando penso che in Italia fa più opposizione un'editoriale di Famiglia Cristana che un butt d' sang* di Partito Democratico; infine la terza, beati gli ultimi perché nella mente dell'onnipotente saranno i primi, sono un merdoso monotematico e perciò mi taccio,
rumores fuge, ne incipias novus auctor haberi: nam nulli tacuisse nocet, nocet esse locutum.

Sono vittima di retaggi oscurantisti, e tengo ad ingenerosa distanza una rossa riccia che si ostina a mettermi le mani addosso. Ci troviamo per caso una sera in una cittadina molto bella. Ballano il tango in piazza. Io non so ballare, ma chi se ne frega. Propongo a costei di darci alle danze, e lei mi abbraccia senza farselo dire due volte. Si ravvede circa la nostra incapacità e si rifiuta, ma le mani di dosso non le toglie. E sono costretto a fare la persona scortese.
E mi deprime constatare che quanto più le scacci, costoro più ti inseguono. E vale anche il contrario. Porca puttana che sfiga.

Se è così, allora: "TU CHE MI STAI A FAR GIRAR LA TESTA COME GLI ANELLI DI SATURNO, PUSSA VIA, NON TI VOGLIO PIÙ SENTIRE!!!".

Ma ho il sospetto che sia troppo tardi, cacchio. Non sono credibile. Che bell'inganno sei anima mia, e che bello il mio tempo che bella compagnia.



Comincia intanto un novello New Deal anche per me. E comincia dalla colazione. Elimino il latte ed i derivati per circa due settimane e vediamo l'effetto che fa.
Ammiro Franklin Delano
Roosvelt e perdo, senza fare un cazzo di niente, oltre cinque Kg in manco due settimane.
Tempo di urlare al miracolo, di benedire gli enzimi duodenali rinfrancati, e la foga autolesionista galoppa come
Jolly Jumper. Questo a testimonianza del fatto che, sebbene a sette anni leggessi il bolognese Guido Guinizzelli, mia gentil donzella di pregio nomata, qualcosa che mi fosse pascolianamente coerente in tenerà età l'ho subita anch'io.
E dunque, mi ritrovo a mangiar zuppe di orzo, farro, legumi e verdure, carote, insalate di ortaggi e poco olio, basta con l'aceto, meglio il limone.
Se mi guardo con gli occhi di ieri mi piscio dalle risate. Se mi guardo con gli occhi di domani mi dico: "ma sei scemo? Mi deludi, ed io che pensavo che volessi accorciare questo involontario soggiorno..."
In compenso, così per farmi un po' del male, smetto di fumare improvvisamente sigarette e mi dedico con letizia al Toscano aromatizzato alla grappa.
Che, detto tra noi, fa schifo. Ma deve piacerti per forza dopo che spendi 8,00 euro per due pacchetti. E poi, non vogliamo considerare l'effetto collaterale sopraggiungente nella morbosa esigenza di strangolare il deficiente che te li ha consigliati?

Ed è tra queste tresche impudiche e masturbatorie che mi accinsi, l' 1 agosto alle 8.36, a prendere il treno per Milano. Milano, sempre là vado a finire. Avrei potuto sostenere l'esame del Toefl dietro casa mia. Ma io sono fanatico, e Giffen mi fa un baffo. Perché in attesa dell'euro forte che mi consentisse di risparmiare l'acquisto dell'esame in dollari, ho atteso troppo per la prenotazione. Per restare, come prevedibile, col culo a terra. E dover poi risalire lungo la patria sbilenca sino a Mediolanum.
Ora, il Toefl non attesta un cazzo sulla conoscenza della lingua, ma è un ottimo indicatore per misurare quanto conta avere culo nella vita. Molto più che Match Point di Woody Allen.
E giacché ci siamo, possiamo dirlo che in quel film i personaggi sono tutti dei poveri idioti, pur essendo l'intreccio molto valido. Woody Allen ci gioca molto con questa abbietta piccolezza umana.

Torno da Milano e mi sento una persona felice. Lo sono sempre quando trascorro anche un minimo lasso di tempo in perfetta solitudine. E me ne vo in vacanza.

In questa vacanza scopro che: ci sono persone che durante l'inverno si esercitano a giocare a racchettoni, a rassodare il fisico, e a seguire delle winter school of beach volley. Perché non mi spiego altrimenti come cazzo fanno a sembrare così estremamente perfetti nel praticare 'ste partitelle.
Scopro di avere un talento atavico per il ping pong, che si aggiunge a quello già sperimentato per la bocciofilia ed il bowling, insomma, tutte discipline ad alto tenore motorio.
Sono talmente simpatico che l'amica
splendidiocchiverdi non capisce un tubo di quello che dico, ma ride per il semplice fatto che io le parlo senza sosta, e quando non ride si stupisce perché mi vede leggere l'Economist sulla spiaggia.
Devo evitare di andare a letto vestito solo con i boxer quando mi ritrovo a dormire in un Bed & Breakfast ubicato in un sottoscala denuclearizzato e deossigenizzato con tre donne intorno, perché la mattina mi destavo con evidenti ed imbarazzanti promontori. Sarà stata l'umidità...
Le zanzare mi rompono le palle per il ronzio e non per le punture, anche loro hann' à campa'... ma se fossero silenziose sarebbero meno irritanti.
Quando ballo la pizzica mi trasformo in un tank sovietico, Hulk a confronto è delicato come un frate certosino.
Quando balli la pizzica e pensi alla cavallina storna che portava colei che non ritorna, ti prende un'angoscia peggiore di quella che ti ammorba quando devi prelevare urgentemente ad un bancomat fuori servizio. Comprendi lì, quanto sia inappagante la vitae di come il tempo giusto per vivere le cose non sia una variabile esogena.

La mia misantropia raggiunge vette tibetane quando si comincia a criticare il mio stile di guida Ayrton Senna, non tenendo presente che io sono un pilota di F1 prestato ad una esistenza indecente.
L'amico volenteroso vuole apparire a tutti i costi pure efficiente, così si adopera di nascosto a preparare i miei sigari toscani con una lametta da unghia, per farmi un gradito omaggio. Risultato: sigari triturati come le spezie di Pietro Gutierrez, lametta da buttare, ed io furioso come Marcellus Wallace dopo la sadica esperienza anale con Zed.

- Who's Zed?

- Zed's dead, baby, Zed's dead...
 
Odio la gente che non pulisce il bagno, soprattutto le donne che disseminano i capelli in ogni dove.
 
Torno dalle vacanze, più scazzato di quando sono partito.
Ho perso la voglia di scrivere e la voglia di di tenere gli occhi aperti. Ho la necessità impellente di acquistare un'armonica cromatica.
Trascorro la notte delle Perseidi con due amici degni di questo nome a mangiucchiare, e a fare incetta di grappini e amari lucani, discettando di FDI, Doha round e politiche di riequilibrio in seno al WTO.
Divento un lettore del quotidiano
Haaretz.

Scopro che Pravda, quello che una volta fu il giornale organo di informazione del PCUS, oltre al cirillico ha una versione in inglese, portoghese ed italiano. Ma ovviamente la versione italiana è rimasta ferma da mesi e non viene aggiornata. Però mi sento ugualmente, sinceramente commosso.

Attendo. Mi rompo, ma attendo,  e chi se ne frega.

Mi decido ad andare una mattina al mare sulla west coast japigica direzione sud-ovest. Come un tempo, salutati i parenti onnipresenti, mi appallo, e decido di abnegarmi in una lunghissima traversata a piedi del lungomare alla ricerca di un'edicola che mi consenta di sfamare la mia brama da lettura.
La querelle
Putin-Saakashvili è una delle vicende più intriganti e pericolose degli ultimi anni. E sono curioso di leggere come i giornali italiani trattano queste storie, quanto siano così depistanti e ineducativi.

Durante questo tragitto mattutino penso che mi piacerebbe allungare i tempi di queste vacanze strane, ed in preda ad un barlume di gemmazione esistenziale, mi faccio venire qualche idea, ho un invito per Dublino, uno per la Calabria ed uno per Siena.
Ma ho una vicenda in sospeso, ed io sono purtroppo onesto, ragion per cui nella vita arriverò sempre secondo alle spalle di qualche figlio di puttana, meno accorto e meno sensibile.
A prescindere dall'esito, a me piace vederci nitidamente, almeno ho la possibilità di errare, perché se comincio ad elucubrare va a finire che ci indovino, e mi secca molto,
noli tu quaedam referenti credere semper: exigua est tribuenda fides, qui multa locuntur

Chiedo delicatamente lumi, con tutti i convenevoli contorni del caso di cui preferirei fare a meno,  a chi di dovere, per porre fine a tali vicende sospese nel limbo del "nonsochecazzofare " oppure "forselosomanontelovogliodire". Situazioni ambigue che generalmente non sono da annoverare tra le mie caratteristiche.
Ricevo dunque la cattiva notizia
quotidiana. La incamero con la stessa beatitudine di un succhiotto sull'orecchio da parte di Mike Tyson. È dolce. Sono indeciso se deprimermi per questa ragione, o perché un mio compare mi chiama comunicandomi di essere anche lui lì al mare, rendendo cosicchè inutili i chilometri fatti per leggere gli articoli di Vittorio Zucconi, che mi lasciano sempre un'espressione basita sul volto.
Dico al mio amico di attendere, e dopo aver letto il quotidiano, lo raggiungo e propongo una lunga passeggiata along the coast.

Durante i bellissimi anni di liceo, eravamo soliti passeggiare lungo quel litorale, parlando di relativismo etico, di incomunicabilità, di traumi post-adolescenziali conditi in salsa kierkegaardiana, di sogni alla meglio gioventù.
Ci ritroviamo nella medesima situazione, ad anni di distanza, coi capelli grigi. A parlare di stronzate. Disillusi e vecchi prima ancora di avere la certezza se saremo mai adulti. Circondati da adulti che non sono mai ancora nati. Non è un pensiero incoraggiante, perché esso amplifica quella breve e invalicabile distanza verso il mondo.
Il massimo della saggezza di cui siamo stati capaci è stato giungere alla conclusione che le donne quando cominciano a dire stronzate non vanno assecondate, ma pesantemente redarguite, se necessario, muniti con oggetti contundenti.
E poi, che Veltroni ci ha delusi tutti. Che la raccolta firme del PD è una cazzata deprimente, e che la profezia di Gaber si è avverata: non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me. Ed è quello che stiamo diventando tutti, piccoli caimani schifosi.

Divergevano, invece, le nostre opinioni sulla perfezione della morfologia femminile. Prendiamo a modello la mia migliore amica, che è un gran bel donnino, la quale mi legge e che pertanto saluto. Secondo me sta bene così, impercettibilmente più tonda, secondo lui invece dovrebbe dimagrire.
E non ci schiodavamo dalle nostre rispettive posizioni, quasi ci picchiavamo. E avrei voluto affogare prima lui e poi me, perché ci siamo ridotti in questo stato di decomposizione cerebrale avanzata.

Lui scenderà in piazza ad ottobre alla manifestazione del PD. Io non lo so.
Allo stato attuale pronostico un immane flop e vi sono segnali forti in tal senso, non ultima la campagna di boicottaggio interno al partito. Mi duole annunciarlo, ma Veltroni ormai è una lame-duck, a meno che non subentrino colpi di scena a cui la politica italiana ci ha abituato. Ma ne dubito.
Sarò paranoico, ma sono davvero stanco di vedere questo dispiegarsi della vita così superficiale, così disinteressato e acritico. Criticare coi paraocchi e per atto di fede, criticare, criticare con una volgarità di atti e infestata disillusione, che non ha nulla da invidiare alle sparate della Guzzanti.
La volgarità è la forma più spregevole di schiavitù verso un padrone ignoto e accomodante. La responsabilità, i sentimenti, sono un libertà che costa fatica. Nel mio caso, una perdita di tempo.
Orsù! Scendiamo in piazza! Protestiamo!
E le pecore, senza sapere perché, scendono...
cedant arma togae, concedat laurea laudi. Che tristezza.

La minoranza, guarda silente, e si dispiace.

Ieri sera mi sono sentito male. E ho pensato ad un verso di Lou Reed: you just keep me hanging on... e mi sono sentito davvero misero. Ché il mio primo pensiero la mattina non avrebbe mai dovuto essere un volto di una persona, ma il rimpianto per quei tazzoni di latte e cereali che non posso più mangiare.
Quello sì, che razionalmente sarebbe un pensiero per cui star male. Il guaio è che non fa male più niente. Voglio soffrire, voglio il dolore, e non mi viene un cazzo di niente.
Solo un fastidio sottocutaneo che non è abbastanza eloquente nella sua pratica irritante.

Bevo un bicchiere d'acqua la mattina, sperando che sia un sorso d'umanità. Provare un briciolo d'amore per qualcosa, e per la vita che mi è sprofondata nell'indifferenza.
Non mi abbattono neanche le risposte che non ricevo.
Ditemi come si fa ad imparare a decidere, pronti a sorridere a chi non ha voglia di noi.

Quell'ignavia che pare circondarmi e rifiutarmi. Le stronzate pseudo-consolatorie che mi tocca ascoltare e ingerire come un boccone acido e clandestino, che non paga dazio sulla lingua, e viene ingoiato per porre fine all'idea che esso persiste tra le cose fisiche e materiali.
Non danno pace, non hanno sguardi né pietà, tra le voci di rimorsi e pentimenti.

Stamattina ho fatto una piccola passeggiata con una persona che ho recentemente rispolverato dal passato. Parla e mi annovera in una triade di persone da cui non vorrebbe separarsi mai.
Mi è cara, ha segnato un periodo bellissimo della mia vita, quando ancora mi spuntava a stento la barba.
Sono felice per lei. Sono felice quando c'è lei, e quando ci sono ancora quei tre o quattro, non di più.
Un bene che è solo mio, che non mi importa di sapere se è reciproco. Di cui non mi frega un cazzo conoscere la dimensione. Perché dalla mia gabbia di parole vuote ma doppiate non c'è scampo.

Odio la gente quando dimostra di volermi bene. Perché vuol dire che non ha capito un cazzo di me.

Lo so, tutti coloro che scrivono sono un po' matti.  Il punto è rendere interessante questa follia (François Truffaut)





mi sono spiato illudermi e fallire
abortire i figli come i sogni

mi sono guardato piangere in uno specchio di neve
mi sono visto che ridevo
mi sono visto di spalle che partivo
ti saluto dai paesi di domani

che sono visioni di anime contadine
in volo per il mondo




* butt d' sang: intercalare dialettale che denota sfinimento e rassegnazione


sabato 19 luglio 2008

Le parole che non dico



Simone si faceva attendere, abitava in una palazzina al centro. R. non sapeva nemmeno a quale piano fosse il suo appartamento, lei gli aveva detto solamente che non sarebbe venuta sola. E l'ansia di R. cresceva e non s'affievoliva col prolungarsi dell'attesa che avvicinava quell'incontro.
La rivedeva dopo tanti anni, erano tornati a incrociarsi quasi per caso, durante una manifestazione pubblica.

Quella volta R. restò ammutolito nel rincontrarla in mezzo a tutta quella gente. Lei non lo aveva riconosciuto, sebbene il volto sorridente di R. fosse rimasto quasi intatto tra qualche incavo rugoso sulle guance, e i capelli un po' meno neri. Non aveva più la barbetta, lasciava visibile la fossetta sul mento che gli rendeva meno aguzzo il volto.
Lei, invece era sempre stata bellissima. Una bellezza che le era stata cucita addosso nell'attimo esatto in cui era stata pensata, e che non le sarebbe mai scomparsa. Vestita come sempre in maniera un tantino scanzonata ma profondamente aderente a se stessa, con quella larga sciarpa verde, ed i capelli lisci sciolti sulle spalle.

Gli sembrò che la vita si fosse immediatamente riaccesa dopo anni di buio e di silenzio; che si fosse rialzata da quella lettiga di contingenze senza importanza nella quale s'era adagiata, dopo che Simone era andata via.
Prima che lei sparisse definitivamente c'erano stati giorni di penombre e di silenzi congelati nella distanza che intercorreva tra loro. Giorni in cui R. sapeva di soffrire come un cane, ma non glielo diceva, un po' per orgoglio, un po' per non condizionare l'atteggiamento di lei, che voleva fosse il più naturale possibile nei suoi confronti.
Non era mentire. Era solo il desiderio di non voler dare troppa importanza a quella mancanza, a quella che era quasi una nostalgia che agli occhi di lei non aveva nemmeno poi tanto senso. Ma i sentimenti si propagano nella vita a prescindere dall'importanza che si vuol attribuire loro.
Ed R. aveva troppo sopravvalutato la sua capacità di resistere dinanzi a tutto questo.

Per poi ritrovarsi, nel giorno in cui l'aveva rivista in mezzo a tutta quella gente, a scoprire di essere sempre stato solo dal giorno in cui i loro rapporti s'erano lentamente spenti. A scoprire di non aver mai imparato a rivestire di un nuovo abito il suo voler bene. Che quel vestito che i suoi incessanti pensieri avevano cucito addosso a Simone, fin dal giorno in cui l'aveva vista per la prima volta, non s'adattava su nessun altro corpo.

Le si avvicinò dimenticandosi del suo nome, degli anni trascorsi che si sublimavano in ogni passo verso di lei, come fossero polvere sporca durante il gelo della sua accidia.
La chiamò piegando lo sguardo con cui la riscopriva nella sua mente, riaccogliendola nelle sue speranze. La voce di R. che scandiva le lente sillabe del suo nome con un più vasto carico di messaggi trapelanti nel fiato asperso, recava in sé tutta la vita che lui avrebbe voluto spendere per lei e che aveva disperato, ormai, di poter riafferrare.
Lei allargò le labbra in un sorriso che spalancava il mattino tra le nuvole, fece un passo e lo riabbracciò. Senza sollevarsi sulle punte dei piedi, gli premette il seno sul suo petto duro e freddo.
R. non la strinse a sé e restò immobile, impreparato, con un braccio languido e nolente, e l'altra mano che le si posava sui capelli.
- Tingi i capelli, Simone? - le sorrise R. - Sono tutti scuri. La prima volta che ti vidi avevi qualche impercettibile ciocca bianca.
Lei non rispose. R. la baciò sui capelli.
- E quella volta ti baciai anche i capelli. Tu forse non te ne accorgesti nemmeno. Non volevi nemmeno che ti abbracciassi.
- Non mi ricordo, R. Come stai?
- Lo vedi. Sono sopravvissuto anche senza di te. Ma non è stata un'esperienza invidiabile.
- Ero davvero così importante per te?
- Molto più di quanto io stesso mi sia reso conto. Più di quello che abbia mai provato a farti capire.
Simone sorrise, non sapeva che cosa rispondere. Era passato troppo tempo. E se anche fosse stato rimasto intatto un infinito presente fra loro, forse non sarebbe cambiato molto in quel destino.
- E tu come stai Simone? Che cosa hai fatto in tutti questi anni?
- Devo andare R. Mi aspettano.
- Anche io ti ho sempre aspettato, non sono mai stato bugiardo. La vita è stata davvero una lunga attesa.
- Ho sempre sperato che la tua fosse soltanto una vaga menzogna. La vita la devi aggredire, R.
- Sei riapparsa per questo, Simone?
- Devo andar via... una persona importante mi aspetta.
- Capisco, il colpo di grazia ci sta tutto. Rivederti e sentirmi la vita rimontare all'improvviso, solo per vedermela bruciare con più soddisfazione. - disse R. allargando lo sguardo intorno alla folla, senza mai farla sparire da dentro ai suoi occhi.
- Aspetta R. - e Simone trasse fuori una specie di moleskine, strappò un foglio con una data, e un indirizzo.
- Se ti trattieni in città, e vorrai, io mi farò trovare. Addio, R.

Se ne andò senza voltarsi. R. provò ad allungare ancora una volta il suo braccio, da cui lei fuggì. Di nuovo, come la prima volta alla stazione della metro, portandosi tutto via con sé.

La chiamò al numero che lei aveva scritto, per dirle che sarebbe venuto in città. Lei con aria indifferente e scevra da interesse o curiosità confermò. E ribadì non sarebbe venuta da sola.
Ed R. era lì, quel giorno, ad aspettarla. A riallacciare i nodi della sua vita, tra sogni, pensieri e ricordi. Giunse con la sua auto, e cercò un posto con buona visibilità per attenderla in macchina.
Era la prima volta che percorreva quelle strade, ma ogni cosa gli sembrava familiare. Le case, i volti della gente, i posti dove poteva lasciare la macchina, le strade strette e intasate. I negozi brulicanti di signore cicalanti.
Ogni cosa sembrava lentamente mutare in una scena familiare. In una cartolina della sua esistenza che lui vedeva dal di fuori, di cui avvertiva di essere un ospite tra i percorsi della sua stessa casa.

Simone
giunse. Anzi no. Lei non giunse, lei apparve. Improvvisamente, sul sedile accanto a lui.
- Apri gli occhi, R. - lei sorrise - Non hai niente da dirmi?
- Dal giorno in cui ti ho vista, il sole sorge e tramonta con te.
- Ancora questa cazzata alla Jim Morrison... sei fatto vecchio R., sono sicura che potresti fare di meglio.
- Non riesco a togliermelo dalla testa...
- Che ne diresti se intanto cominciassimo ad uscire dai tuoi personaggi? Tu non sei R. ed io non sono Simone. Va bene, Giuse'?
- E con te, come faccio?
- Usa i pronomi. Facile, no?
- Sì, è facile. Ti sto sognando, vero?
- Sì, Giuse'. Come sempre. Qui dentro è tutto un po' più semplice. Ma non attenderti risposte, io sono solo frutto della tua fantasia.
- Vedo. Sei uno spreco di proteine.
- Forse sono anche uno spreco di tempo.
- No. Non azzardarti a pensarlo, sei tu che scandisci il mio tempo, cara mademoiselle. Però li vedi i miei capelli bianchi? Sono vecchio...
- Non cambia la sostanza delle cose. Stai posponendo la scena onirica.
- Non direi...
- Non importa. Arriviamo al sodo, perché l’alba incalza. Così impari ad andare a letto tardi. Sei innamorato di me?
- Non lo so. Non so dare nomi alle cose. Di certo sto in un bel casino. E non posso parlarne con nessuno. Tanto meno con te.
- E ti fai questi sogni da pippato mentale.
- Non ho il controllo su tutto. Sai, io vivo in profondità le cose. Tu mi hai travolto la vita, mademoiselle.
- Sei stato tu a farti travolgere, io te l'avevo detto.
- Non cambia la sostanza delle cose.
- È assurdo, non c'è logica a tutto questo. Te lo ripeto: noi non ci siamo vissuti.
- Ed è solo per questa ragione che non do un nome alle cose. Sento i tuoi occhi in ogni specchio vero o artificioso in cui si ferma la mia immagine. Mi sbuchi nei posti più strani, nel terrazzino del disco pub dove servono il frappé con le palle di gelato al cioccolato, all'assessorato regionale per la formazione professionale che mi paga lo stipendio, persino nell'arena comunale dove mi affaccio per vedere gente idiota che assiste a dei musical ridicoli senza capire un accidenti di inglese. Poi non ti dico ogni volta che vedo una frangetta, è un dramma. Quando qualcuna mi prende per il braccio vorrei strangolarla. Mentre canto, mentre parlo con la gente, mentre cammino, sei tu che mi circondi e trasfondi la vita in tutto quello che faccio. Nei rimproveri alla mia indolenza e alla mia sregolatezza, ci sei tu.
Parlo come se tu mi stessi ascoltando, agisco come se tu mi stessi vedendo, sorrido come se tu mi stessi di fronte senza sapere che cosa rispondermi quando ti metto al centro del mio mondo.
Scrivo solo e soltanto come se tu leggessi contemporaneamente, muovendo gli occhi mentre io muovo le dita.
Tutto questo trasforma la mia indifferente esistenza in vita. Lo so, tutto è solo una proiezione di me. Posso ripetertelo in eterno quello che sei per me...
- Sprechi troppe proteine inutilmente...
- Parla per te...io vhhhhhhhhhhh phhh te.
- Che dici?
- Io viv... hhhhhhhhh... peeer te.
- Vuoi essere più chiaro? Non essere pusillanime.
- Uh, madonna. Io vivo per te. Ecco l'ho detto. E tu nemmeno puoi capire quanto mi costa ammetterlo. Accettarlo è bello, ammetterlo un po' meno. C'è troppo orgoglio. Quello che un po' mi frena tutto...
- Questo tuo orgoglio pare piuttosto una maschera alle tue debolezze...
- Non è così. Io cerco sempre di pormi dalla parte di chi mi ascolta. Trovo buffo che qualcuna possa volermi bene e così  non combino  mai niente. Alla fine non credo che alla gente possa importare quello che dico. Questo mi rende libero di dire quello che voglio fregandomene dell'importanza. Ma non funziona così coi sentimenti. Il confine tra quello che vorrei dirti e quello che vorrei tu comprendessi  da sola senza farmi sentire ossessionato da te è molto sottile.
- Quindi non sei sincero con me, Giuse'...
- Lo sono, ma vedi, quando tu mi chiami e mi dici "ciao", io vorrei immediatamente raccontarti quanto si impenna la mia felicità in quei momenti che io mi sforzo di mantenere normali. Vorrei cominciare a parlare per non farti andar via. Vorrei riempire la tua vita. Mademoiselle, la normalità è un riposo che il mio cuore non riesce più a concedersi da quando ci sei tu.
- Giuse'...
- Lo riscrivo il mio nome, mettendolo sulle tue labbra, anche solo nella mia immaginazione. Perché mi riempie tu non sai quanto. Non  è una forma di reietta masturbazione cervellotica, è un desiderio di sentirti pronunciare il mio nome.
- Continua...
- Mi esorti a parlare, perché qui non ho barriere. Qui non devo tenere tese le corde del buon senso che spesso mi ammutoliscono. Non voglio metterti a disagio. E poi mi pento di tutte quelle parole che non dico. Di quelle che lascio stare su quelle panchine che non tornano. Un po' come quello che ti scrissi una volta, ricordi? La vita fa sempre il suo giro, e dagli errori si impara poco.
A furia di sbagliare non impari a vivere, impari solo a riconoscere un po' prima e un po' meglio le occasioni mancate. Occasioni che non assicurano la felicità, ma che rendono la coscienza certa di aver provato fino in fondo a scegliere la vita.
Tu sei la vita mia adesso. Per quanto mi sforzi di farlo passare inosservato.
- Non sono sforzi che ti riescono bene. Perché ti sforzi, vuoi che tutto questo ti passi?
- Troppo cerebrale, troppo cerebrale... non passa, non passa. Non per via della mia volontà. E poi io non voglio che passi un bel niente. Sto male perché ti desidero, tu non puoi capire quanto. Ma se il mio desiderio sei tu, sto bene. Ma io non mi accontento. Vado fino in fondo.
- Hai paura?
- Che tu possa decidere di estinguermi, sì. Temo solo questo. Perché sarebbe veramente uno strazio  inutile.
- Che cose ti aspetti adesso?
- Che tu mi venga a trovare. Di rivederti presto. Solo questo. E poi…
- E poi?
Mademoiselle, ho bisogno di tornare a scrivere il mio racconto, così come lo avevo pensato, con R. e Simone.

Simone questa volta giunse. R. la vide arrivare dallo specchietto retrovisore, e scese dalla sua auto. Lei sembrava guardare oltre, attendere qualcun altro.
- Hai ancora le mani disastrate, R. - Gli diceva senza prestargli poi tanta attenzione. Lui sorrise. - Scrivi ancora?
- Oh sì, un po' meno, però... – disse stringendosi le spalle - che cosa hai fatto in tutti questi anni?
- Ho vissuto. Tu?
- Ti ho amata.
- Non me ne sono accorta.
- Lo so. Ed è l'unico rimorso che mi porto addosso.
- Così è questo il modo in cui ubbidisci ai tuoi imperativi, R.? Molto diligente, non c'è che dire... Ah... è arrivata!!!

Simone si illuminò sul volto e si bloccò improvvisamente, una ragazza bionda bassina con gli occhi verdi ed il viso abbronzato portava un passeggino e le fece cenno da lontano. Andarono incontro l'un l'altra. Si salutarono. Simone diede un bacio alla bimba. La prese in braccio e la piccola rideva.
Simone,
nonostante il suo temperamento, era molto dolce.
La ragazza andò via. E lei rimase sola con la bimba. Tornò da R. che la attendeva su una panchina al fresco. Faceva molto caldo. Ora che aveva infranto l'ansia dell'attesa, cominciò ad accorgersene.

- Adriana, questo è il signor R. Saluta, su! Di': "ciao signor R.", ma sta’ attenta, con quel sorriso austero, se sbagli a parlare, ti prende a morsi sul culetto!  - E mimò una smorfia solleticante che fece scoppiare a ridere la bambina. Aveva una frangetta bionda la bimba. Ad occhio sembrava avere tre anni.
- Prima che tu possa farmi domande cretine R., ti dico subito: è mia figlia e l'ho cresciuta da sola. Prima che ti possa venire in mente di chiedermelo, non farmi domande sul padre.
- Adriana... è bella. Come te. Ha gli occhi chiari, ma l'espressione è la tua... Simone... io...

Si incamminarono verso un giardino. Simone parlava alla bambina e R. ascoltava sentendosi davvero piccolo in tutto questo. Pensava che durante quegli anni quella donna aveva davvero vissuto, aveva morso la vita come lui si limitava a poter mordere il culetto di chi sbagliava a parlare.
Simone
era rimasta intatta perché era vera. Lui aveva appeso un ritratto nella sua stanza, lo ammirava e si ammirava, cospargendosi di rimorsi e nostalgie. E rinunciando a tutto.

- Lei ha tutto il mio amore, adesso R., perciò non farti troppi pensieri, anche adesso che ci siamo rivisti - gli disse sedendosi molto sensualmente, conservando il travolgente fascino che lo aveva ammaliato; mentre lui restava ancora in piedi a vedere la piccola seduta sul prato a qualche metro da loro, che giocava ad acciuffare l'erba scivolosa e ridendo ad ogni tentativo mancato, verso gli occhi attenti della madre.
R. aveva vissuto davvero per lei. Egoisticamente, senza dare il proprio amore a nessun'altra. Mettendo in gabbia ogni cosa. Adesso non riusciva a badare alla bambina, che pure lo aveva sorpreso, perché mai come in quel momento voleva afferrare Simone tra le braccia e amarla con ardore senza indugio, senza badare nemmeno allo sguardo della piccola Adriana. Perché in quel momento lei era ancora più completa, invincibile, irraggiungibile. Talmente piena di sé che se lui l'avesse avuta, avrebbe sentito da vicino il profumo della totale immersione di due vite che si riempivano a vicenda.
- A cosa stai pensando? Non ti siedi? - chiese lei. R. si sedette e accese un sigaro.
- Penso che vorrei tanto far l'amore con te, adesso, in questo momento. Senza darti il tempo di renderti conto di dove ti trovi e di chi ti guarda.
- Sei rimasto il solito pazzo di sempre. - Rise lei.
- E tu sei sempre più adorabile. - Rispose lui fissandola concupiscente, e serio.
- Ma lo vedi come mi sono ridotta?
- Siamo sempre noi, Simone, con qualche anno, qualche rimorso, qualche casino in più e basta.
- Rendi tutto troppo semplice, tu. - si interruppe, sospirò - Non sei geloso?
- Di cosa?
- Di lei - ed indicò la bambina.
- Perché dovrei esserlo? L'amore di una madre non sarà mai identico a quello tra le persone.
- Mi è piaciuto tanto. Adriana l'ho desiderata. Ho sempre pensato che dovesse essere lei, prima ancora che incontrassi la persona con cui averla. E ho amato profondamente nell'attimo in cui l'ho sentita accendersi in me. Questo amore tu non me lo hai dato. Non c'eri. Eri da solo chissà dove, a farti vessare dai rimorsi, mentre io amavo immensamente, al punto di avere lei. - Si fermò nuovamente. Indicò la figlia con un gesto del mento, e senza attendere che R. potesse dirle qualcosa, riprese a parlare. - Guarda Adriana, lei è la vita che tu avresti sempre voluto, che qualcuno ha assaggiato per un po' al tuo posto e senza darci nemmeno il valore che vi avrebbe dato una persona come te.


R. la ascoltava restando in silenzio. E per quanto si era sempre sforzato di comprendere le donne, non era mai riuscito a toccare davvero l'egoismo con cui esse vivono. Di come, per quanto sappiano voler bene, i loro sentimenti sono elargiti come briciole di una loro speranza che è tutta personale. Perché è la vita che le ha rese così. Sono loro che consentono all'umanità di perpetuarsi.
Un po' umiliante per qualsiasi orgoglio maschile che ci si soffermi a pensare.
- Che fai? Non dirmi che adesso tirerai fuori la tua agendina e comincerai ad appuntare le tue evanescenze mentali? - disse lei ridendo a denti stretti.
R. la guardava in silenzio.
- Sei stata l'unica persona che è riuscita a farmi sentire a disagio con l'esistenza  in maniera così evidente. - Strizzò gli occhi, sorrise, e tirò al sigaro. E aggiunse: - comunque no, non parlerei di gelosia. Mi facevi accenno a tante cose, mi parlavi delle tue vicende, dei tuoi incontri. Non ero geloso. Desideravo sommessamente di essere ogni oggetto che tu sfioravi, volevo essere ogni persona che ti riempiva lo sguardo. Ogni persona che attendevi, baciavi, accarezzavi, che accoglievi tra le tue braccia. Ma bada bene, Simone, a come descrivo le cose: perché hai determinato sempre tutto tu nella tua vita, almeno da quando io ti ho conosciuta. Quello che ho più desiderato in maniera folle è essere la persona dalla quale ti saresti lasciata baciare, accarezzare, e che avresti lasciato che ti accogliesse. Quella persona con cui avresti condiviso completamente, senza accorgertene e quasi sbarazzandotene davvero, la cosa che tu hai di più prezioso.
- E cioè?
- Te stessa.

giovedì 10 luglio 2008

Desiderium vel nòstos-àlgos vel samnasê id ēlĭgis, semper animum ădūrit

- Stavo pensando che, in questo periodo, ogni nostro scambio di battute sarebbe degno di diventare un'operetta immorale. Proprio per questa ragione non riuscirei mai a sopportarti.

-
Eh, Alcor, sennò la tua allure da pregamuorto va a puttane... Hai visto mai che ti diverti?

- No, è che non vorrei mai concretizzare la mia vita come un'opera d'arte, come asseriva quel "carfagno" svalvolato di D'Annunzio.

- Temo di non comprendere...

- Se su ogni nostro dialogo ci faccio un'opera, non  riusciremmo mai a sospenderci nell'atroce ma pur necessaria normalità...

- ...oddio...

- ... e di conseguenza vivremmo imprigionati sempiternamente in un'opera d'arte. Diventerei dannunziano, non mi garba.

- Posso dirti una cosa, Alcor?

- Prego...

- Questa è la prima minchiata che sento, detta in un modo così perfetto. Complimenti.

- Ecco.

- Ah... uhm...

- 'mbé?

- Ora capisco...

- Che cosa?

- Sei un idiota, Alcor.

- Perché?

- Come perché? Ma come cazzo andavi vestito?

- Come sarebbe a dire "come cazzo"? Tu non puoi nemmeno lontanamente immaginare quanto
fosse importante per me, e poi io mi vesto spesso così...

- Sì, lo so, però...

- Indi?

- L'avrai spaventata... insomma, conciato in quel modo avrà immaginato che tu volessi portarla direttamente all'altare! Secondo me era terrorizzata... Ah, ah, ah...

- E se per esempio uno volesse soltanto andare a letto con qualcuna, allora, che cosa dovrebbe fare? Presentarsi in vestaglia, in pigiama, vestito unicamente col condom? Ma fammi il piacere...

- Sei nervoso, Alcor?

- 52.

- Eh?

- 52.

- Che vuol dire?

- 52.

- Ma ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa? Un drink?

- 52.

- Ma che cazzo stai contando adesso? Sempre a contare...

- 52. Bene. Ora ti saluto, è tardi, vado a letto…






Quello che dovevo dire, l’ho detto, in latino, greco e sanscrito.
Non so più in che cazzo di lingua scriverlo.
Inutilmente, come sempre.




Dicono che gli occhi fanno un uomo sincero
Non capita poi tanto spesso
Che mi rimbalzi così forte addosso

Ho l’età che tutto sembra meno importante
il resto non conta niente,

ma proprio niente,
Cristo!


lunedì 7 luglio 2008

Sweet Rapsody

Sei un tossicomane esistenziale che si straccerebbe le vene dai polsi pur di assecondare il proprio vizio. C'è ancora una traccia di ossigeno nell'oppio che riempie le tende di un teatro delle ombre cinesi. E mentre ti mantengono il collo, odi lo squillo di un telefono spento, e di una sirena che non ti cercherà mai. Il metadone dà la stessa soddisfazione che può darti un Jack Daniel's quando chiedi del whisky. Acqua sporca con etanolo. Assaggi la pelle intorno alle unghia, per mettere ordine al consequenziale giochetto di colpe ed espiazione. Il sangue ha un sapore molto dolce, sarà questo che attira le zanzare. Che senso ha espiare una colpa per un crimine incompiuto?
Ed è dolce, effettivamente, riporre in ordine i concetti. Sembra più governabile, la vita, in questo modo.

Ora, di queste puttanate che scrivo, il più delle volte, non ci capisco una mazza nemmeno io.
Mi prendono per un pazzo serioso e triste, solo perchè non so star fermo coi polpastrelli, a rischio di cavar fuori dalla corteccia encefalica, le più invereconde cazzate.
Sono costretto a dar fondo ai pensieri più idioti, alle idee più strambe, a mettere insieme appunti di scritti incoerenti e i resti di una serata noiosa. Quando avresti voluto fingerti malato o improvvisamente orfano per non starci più.
Scrivere è una forma di sorridente riconciliazione, e sono costretto a produrre tentativi consapevolmente vani di tornare a scrivere in maniera decente come apparentemente si narrava io facessi un po' di tempo fa. Quando ogni mio gesto, scrivere compreso, non era finalizzato a determinati obiettivi individuabili in nomi, cognomi, cose, azioni e città, queste più o meno ideali. E allora ci si illude provando a cambiare per un po' l'oggetto che invade il mirino con cui sparo i colpi della mia vita. E miserrimamente scopro che è una stronzata per perdere tempo.

Non si può scrivere ignorandosi. E la dolcezza per me è soltanto una. Ecco, c'è la mia vita riposta su quella poltrona schiodata. Non è che mi calzi in maniera elastica e comoda. Qualcuno potrebbe viverla al mio posto, prendendosi i miei sogni e le mie attese. Non dovrà nemmeno accollarsi paure da evitare col beneficio di inventario, si stia tranquilli. Con il cinismo ridicolo che non ci rende abbastanza persone. Solo un po' di sincerità, di schiettezza, di incomprensione, di propensione alla solitudine, un occhio destro con le bizze, e il battito cardiaco con l'eritropoietina di serie. Tutto incluso, chiavi in mano. Senza incentivi rottamazione. Che io un'altra vita al posto della mia non la voglio per niente al mondo.
Vaffanculo a tutti, quando è necessario, e sono felice.

Beata incoscienza che mi strugge e mi sorregge, sei tu la dolcezza irrefrenabile da cui non conosco scampo.






- I vincenti si riconoscono alla partenza. Riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di me?

- Io... avrei puntato tutto su di te...

- E avresti perso.


Qualche altra domanda signor giudice... Non sia timido, possibile che non abbiate null'altro da chiedermi? Che non sentiate alcun bisogno, oltre all'irreprensibile dovere istruttorio, di sviscerare ancora un po' queste mie giornate, queste mie continue rivolte che consumano le ore come cera che si raffredda sui lambiccati candelieri di ghisa?


Signor giudice, insomma, fatemi qualche altra domanda! Vi supplico, emettete le vostre sentenze senza rinchiudervi per ore in camera di consiglio, consigliate pure ai restanti membri della corte che possono anche ritirarsi ad accudire la normalità delle loro deplorevoli esistenze. A me occorre solo il vostro parere, e la vostra distorta opinione. Perché della giustizia reale e fredda non mi importa. Non a me, che rifiuto le vostre leggi ed i vostri sistemi, e da cui non potrei accettare alcuna condanna, se non per mia spontanea remissione...



Pensano che io scherzi, quando scrivo. Lo pensi anche tu, giudice, che sembri voler dettare delle norme alla vita. Mi lascio, pertanto, sormontare da una disperata risata.



Mamma, mamma. Io... la realtà travolge e irretisce come una montagna che frana e non dà scampo. Ci provo a morderla e a insabbiarla tra i denti. Quanto è buffo scivolare e inciampare senza mai cadere. Scrollarsi un po' di polvere dal bavero rialzato ad ogni delusione che sorge quasi sempre ogni volta che ascolti una qualunque persona parlare.
Ma... Apri gli occhi, volgi lo sguardo al cielo, e sai che non sarai capito. Che parlare è una scommessa che scotta proprio quando non hai sempre il fegato giusto per rischiare. Non so neanche se lo nutro veramente questo bisogno, del resto. Perché mi lascio trasportare, sono un indolente. Un po' su, un po' giù. Senza sapere dove andare.
Comunque soffi il vento, a me non importa.


Signor giudice, chi ci pensa adesso a mia madre? Che neppure lei non ha mai capito un cazzo... Come nessun altro, naturalmente. Neanche voi ci capirete niente, mio ricusabile giudice che mi guardate sorridendo in maniera molto seducente, e neanche ve ne accorgete. Ma che cosa mi potrà mai importare di voi? Chi lo va a raccontare a mia madre il buio di questo baratro che mi rende tutti così squisitamente insopportabili?



Mamma io ho ucciso un uomo, gli ho puntato la pistola alla testa. Ho premuto il grilletto ed è morto. Non l'ho neppure guardato morire, per non rischiare di provare pietà verso un volto qualunque che conteneva tutti i volti del mondo. Per non trovare nel suo sguardo quell'implorazione a non farlo. È stato un attimo in cui ho dimostrato che la vita non è scritta.
Non volevo sentire quelle pupille atterrite, sguainate e sbigottite che mi supplicavano: perchè tutto questo? 

Forse costui assomigliava a qualcuno che ho odiato in silenzio per tanto tempo senza neanche conoscerlo, forse costui non avrebbe mai dovuto correre prima dell'alba. Forse aveva soltanto tradito sua moglie. Forse la sua colpa era che gli puzzava l'alito mentre giocava a carte a notte fonda con gli amici ubriachi, e ne approfittava per barare. Forse era soltanto un tizio qualsiasi che arrangiava a portare avanti i suoi giorni nella maniera che più lo divertiva.

Respiro di cirri che striavano un cielo che volgeva molto tardi al tramonto. Gente ai quattro angoli di un incrocio che attendeva una piccola pallina verde per incontrarsi senza guardarsi in faccia e scambiarsi il proprio tragitto. Avrei portato con me ogni espressione incidentalmente raccolta dai miei occhi. Avrei ascoltato i loro incomprensibili bisbigli. Ecco una ragazza che alza improvvisamente il suo braccio destro, che regge nella piega del gomito la sua borsa nera e pesante, forse per salutare qualcuno che non la sta neppure pensando. Accenna ad un sorriso che si perderà. Scorgo solo un orecchino all'orecchio sinistro che non si nasconde al viso piegato vero destra in direzione del ponte; la sua refrattaria mano sinistra, invece si aggrappa ai bordi della manica del suo giubbotto sportivo nero, aperto davanti perché ancora non faceva freddo.
Molti vanno in giro con gli zaini. Due vengono verso di me. In faccia recano la paura di perdere qualcosa, il ragazzo dimostra meno anni di quelli che ha. Lei invece è in sovrappeso e ha i capelli ricci perfettamente divisi in due che calavano ai lati del capo. Sono rinchiusi entrambi nei loro giubbotti.
E la vita è carica di menzogna. I palazzi grigi dall'altra parte sono divelti della propria memoria da una patina di storia ammuffita che ne ha reciso il senso del perdono.

Ancora qualche attimo di libertà, giudice. Devo finire un disegno. Il problema non sono gli occhi, non sono le labbra e i contorni del volto. Ma le mani intrecciate sulla bocca. Non ci riuscirebbe neppure Giotto a dar loro le movenze di un'anima. Ed io ci sto riuscendo, lasciatemi continuare, lasciate che completi qualcosa che mi renda contento...

-
Hai aspettato molto?

- Tutta la vita.

Sarebbe molto giusto, giudice caro di cui perdo la fiera immagine nella mia mente, che io potessi scrivere ignorando quello che ho dentro. E mi adeguassi al gioco della menzogna. Giudice diletto, quanto sono belli i tuoi piedi nei sandali. Avrei voluto invitarti a danzare con me in un ristorante sul mare a Venezia. Alla fine dell'inverno. O meglio, avrei atteso in silenzio che tu invitassi me. Per non impazzire non devi pensare che fuori c'è il mondo, proprio non pensarci. Dimenticarlo. Leggere ad occhi chiusi e recitare senza emettere fiato. Non è impossibile. Non con chi, giudice, sembra che ti stia parlando da sempre. Il tuo ombelico è una coppa rotonda dove non manca mai il vino, il tuo ventre un mucchio di grano circondato da gigli; le tue mammelle, sono grappoli d'uva. Il tuo respiro ha il profumo delicato delle mele.

Perché resti in silenzio, giudice? Sono solo le mie imprudenti esternazioni a farti trasalire? Io non riesco a vivere una farsa. Non riesco a ponderare la convenienza nel tenere a debita distanza la verità, solo per una fortunata combinazione di tranquillità e strategia. E che questo mi bruci, non mi importa. Stai leggendo su un libro che non è come gli altri. Non c'è la soluzione che tu prevedi, questa volta. Ed io lo so che cosa hai in mente, giudice. Anche se non posso guardarti. Non dritto negli occhi.

Tocca qui, è qui che ho sparato, vedi? Senti? È ancora caldo.
Mamma, la mia vita era appena iniziata ed io l'ho lasciata scappare, l'ho buttata via.
Non volevo farti piangere.
Quelle tue stupide lacrime.

Che cazzo sto combinando? Non lascerò che vada via... Da qui dentro io non esco, nossignore.
Niente veramente importa
Chiunque può capirlo, eppure...
Niente veramente importa.
Comunque soffi il vento...