lunedì 7 luglio 2008

Sweet Rapsody

Sei un tossicomane esistenziale che si straccerebbe le vene dai polsi pur di assecondare il proprio vizio. C'è ancora una traccia di ossigeno nell'oppio che riempie le tende di un teatro delle ombre cinesi. E mentre ti mantengono il collo, odi lo squillo di un telefono spento, e di una sirena che non ti cercherà mai. Il metadone dà la stessa soddisfazione che può darti un Jack Daniel's quando chiedi del whisky. Acqua sporca con etanolo. Assaggi la pelle intorno alle unghia, per mettere ordine al consequenziale giochetto di colpe ed espiazione. Il sangue ha un sapore molto dolce, sarà questo che attira le zanzare. Che senso ha espiare una colpa per un crimine incompiuto?
Ed è dolce, effettivamente, riporre in ordine i concetti. Sembra più governabile, la vita, in questo modo.

Ora, di queste puttanate che scrivo, il più delle volte, non ci capisco una mazza nemmeno io.
Mi prendono per un pazzo serioso e triste, solo perchè non so star fermo coi polpastrelli, a rischio di cavar fuori dalla corteccia encefalica, le più invereconde cazzate.
Sono costretto a dar fondo ai pensieri più idioti, alle idee più strambe, a mettere insieme appunti di scritti incoerenti e i resti di una serata noiosa. Quando avresti voluto fingerti malato o improvvisamente orfano per non starci più.
Scrivere è una forma di sorridente riconciliazione, e sono costretto a produrre tentativi consapevolmente vani di tornare a scrivere in maniera decente come apparentemente si narrava io facessi un po' di tempo fa. Quando ogni mio gesto, scrivere compreso, non era finalizzato a determinati obiettivi individuabili in nomi, cognomi, cose, azioni e città, queste più o meno ideali. E allora ci si illude provando a cambiare per un po' l'oggetto che invade il mirino con cui sparo i colpi della mia vita. E miserrimamente scopro che è una stronzata per perdere tempo.

Non si può scrivere ignorandosi. E la dolcezza per me è soltanto una. Ecco, c'è la mia vita riposta su quella poltrona schiodata. Non è che mi calzi in maniera elastica e comoda. Qualcuno potrebbe viverla al mio posto, prendendosi i miei sogni e le mie attese. Non dovrà nemmeno accollarsi paure da evitare col beneficio di inventario, si stia tranquilli. Con il cinismo ridicolo che non ci rende abbastanza persone. Solo un po' di sincerità, di schiettezza, di incomprensione, di propensione alla solitudine, un occhio destro con le bizze, e il battito cardiaco con l'eritropoietina di serie. Tutto incluso, chiavi in mano. Senza incentivi rottamazione. Che io un'altra vita al posto della mia non la voglio per niente al mondo.
Vaffanculo a tutti, quando è necessario, e sono felice.

Beata incoscienza che mi strugge e mi sorregge, sei tu la dolcezza irrefrenabile da cui non conosco scampo.






- I vincenti si riconoscono alla partenza. Riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di me?

- Io... avrei puntato tutto su di te...

- E avresti perso.


Qualche altra domanda signor giudice... Non sia timido, possibile che non abbiate null'altro da chiedermi? Che non sentiate alcun bisogno, oltre all'irreprensibile dovere istruttorio, di sviscerare ancora un po' queste mie giornate, queste mie continue rivolte che consumano le ore come cera che si raffredda sui lambiccati candelieri di ghisa?


Signor giudice, insomma, fatemi qualche altra domanda! Vi supplico, emettete le vostre sentenze senza rinchiudervi per ore in camera di consiglio, consigliate pure ai restanti membri della corte che possono anche ritirarsi ad accudire la normalità delle loro deplorevoli esistenze. A me occorre solo il vostro parere, e la vostra distorta opinione. Perché della giustizia reale e fredda non mi importa. Non a me, che rifiuto le vostre leggi ed i vostri sistemi, e da cui non potrei accettare alcuna condanna, se non per mia spontanea remissione...



Pensano che io scherzi, quando scrivo. Lo pensi anche tu, giudice, che sembri voler dettare delle norme alla vita. Mi lascio, pertanto, sormontare da una disperata risata.



Mamma, mamma. Io... la realtà travolge e irretisce come una montagna che frana e non dà scampo. Ci provo a morderla e a insabbiarla tra i denti. Quanto è buffo scivolare e inciampare senza mai cadere. Scrollarsi un po' di polvere dal bavero rialzato ad ogni delusione che sorge quasi sempre ogni volta che ascolti una qualunque persona parlare.
Ma... Apri gli occhi, volgi lo sguardo al cielo, e sai che non sarai capito. Che parlare è una scommessa che scotta proprio quando non hai sempre il fegato giusto per rischiare. Non so neanche se lo nutro veramente questo bisogno, del resto. Perché mi lascio trasportare, sono un indolente. Un po' su, un po' giù. Senza sapere dove andare.
Comunque soffi il vento, a me non importa.


Signor giudice, chi ci pensa adesso a mia madre? Che neppure lei non ha mai capito un cazzo... Come nessun altro, naturalmente. Neanche voi ci capirete niente, mio ricusabile giudice che mi guardate sorridendo in maniera molto seducente, e neanche ve ne accorgete. Ma che cosa mi potrà mai importare di voi? Chi lo va a raccontare a mia madre il buio di questo baratro che mi rende tutti così squisitamente insopportabili?



Mamma io ho ucciso un uomo, gli ho puntato la pistola alla testa. Ho premuto il grilletto ed è morto. Non l'ho neppure guardato morire, per non rischiare di provare pietà verso un volto qualunque che conteneva tutti i volti del mondo. Per non trovare nel suo sguardo quell'implorazione a non farlo. È stato un attimo in cui ho dimostrato che la vita non è scritta.
Non volevo sentire quelle pupille atterrite, sguainate e sbigottite che mi supplicavano: perchè tutto questo? 

Forse costui assomigliava a qualcuno che ho odiato in silenzio per tanto tempo senza neanche conoscerlo, forse costui non avrebbe mai dovuto correre prima dell'alba. Forse aveva soltanto tradito sua moglie. Forse la sua colpa era che gli puzzava l'alito mentre giocava a carte a notte fonda con gli amici ubriachi, e ne approfittava per barare. Forse era soltanto un tizio qualsiasi che arrangiava a portare avanti i suoi giorni nella maniera che più lo divertiva.

Respiro di cirri che striavano un cielo che volgeva molto tardi al tramonto. Gente ai quattro angoli di un incrocio che attendeva una piccola pallina verde per incontrarsi senza guardarsi in faccia e scambiarsi il proprio tragitto. Avrei portato con me ogni espressione incidentalmente raccolta dai miei occhi. Avrei ascoltato i loro incomprensibili bisbigli. Ecco una ragazza che alza improvvisamente il suo braccio destro, che regge nella piega del gomito la sua borsa nera e pesante, forse per salutare qualcuno che non la sta neppure pensando. Accenna ad un sorriso che si perderà. Scorgo solo un orecchino all'orecchio sinistro che non si nasconde al viso piegato vero destra in direzione del ponte; la sua refrattaria mano sinistra, invece si aggrappa ai bordi della manica del suo giubbotto sportivo nero, aperto davanti perché ancora non faceva freddo.
Molti vanno in giro con gli zaini. Due vengono verso di me. In faccia recano la paura di perdere qualcosa, il ragazzo dimostra meno anni di quelli che ha. Lei invece è in sovrappeso e ha i capelli ricci perfettamente divisi in due che calavano ai lati del capo. Sono rinchiusi entrambi nei loro giubbotti.
E la vita è carica di menzogna. I palazzi grigi dall'altra parte sono divelti della propria memoria da una patina di storia ammuffita che ne ha reciso il senso del perdono.

Ancora qualche attimo di libertà, giudice. Devo finire un disegno. Il problema non sono gli occhi, non sono le labbra e i contorni del volto. Ma le mani intrecciate sulla bocca. Non ci riuscirebbe neppure Giotto a dar loro le movenze di un'anima. Ed io ci sto riuscendo, lasciatemi continuare, lasciate che completi qualcosa che mi renda contento...

-
Hai aspettato molto?

- Tutta la vita.

Sarebbe molto giusto, giudice caro di cui perdo la fiera immagine nella mia mente, che io potessi scrivere ignorando quello che ho dentro. E mi adeguassi al gioco della menzogna. Giudice diletto, quanto sono belli i tuoi piedi nei sandali. Avrei voluto invitarti a danzare con me in un ristorante sul mare a Venezia. Alla fine dell'inverno. O meglio, avrei atteso in silenzio che tu invitassi me. Per non impazzire non devi pensare che fuori c'è il mondo, proprio non pensarci. Dimenticarlo. Leggere ad occhi chiusi e recitare senza emettere fiato. Non è impossibile. Non con chi, giudice, sembra che ti stia parlando da sempre. Il tuo ombelico è una coppa rotonda dove non manca mai il vino, il tuo ventre un mucchio di grano circondato da gigli; le tue mammelle, sono grappoli d'uva. Il tuo respiro ha il profumo delicato delle mele.

Perché resti in silenzio, giudice? Sono solo le mie imprudenti esternazioni a farti trasalire? Io non riesco a vivere una farsa. Non riesco a ponderare la convenienza nel tenere a debita distanza la verità, solo per una fortunata combinazione di tranquillità e strategia. E che questo mi bruci, non mi importa. Stai leggendo su un libro che non è come gli altri. Non c'è la soluzione che tu prevedi, questa volta. Ed io lo so che cosa hai in mente, giudice. Anche se non posso guardarti. Non dritto negli occhi.

Tocca qui, è qui che ho sparato, vedi? Senti? È ancora caldo.
Mamma, la mia vita era appena iniziata ed io l'ho lasciata scappare, l'ho buttata via.
Non volevo farti piangere.
Quelle tue stupide lacrime.

Che cazzo sto combinando? Non lascerò che vada via... Da qui dentro io non esco, nossignore.
Niente veramente importa
Chiunque può capirlo, eppure...
Niente veramente importa.
Comunque soffi il vento...



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