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venerdì 12 luglio 2019

Narrazioni di confine

Quando riesci a sporgerti oltre il valico della finestra?

Quando sibilanti e rabberciati strati di cielo stellato irrompono tra i dorsi dei palazzi.
O quando piove. Quando ombrelli tesi dei passanti ci nascondono dai loro possibili sguardi, e ci proteggono.

Dov'è la casa? Io non lo so.
Di tutti questi tempi ricordo solo che non c'erano più. Attimi che perdono, come condotte divorate da ruggine e vermi.
E che dimenticano.
Dimenticano il susseguirsi delle continue sottrazioni e mancanze di ogni istante, di tutti quei cieli che non saranno specchiati in occhi assenti.
Respiri come zavorre di possibilità in cenere.
Onde del mare che incontrano invano una riva che risponde con parole straniere. 
Del vento che non smuoverà più alcun fastidio, e degli spifferi di vecchi portoni che non presagiranno più asie assuefatte all'indifferenza di questa impraticabile vita.

Di tutto ciò che si è perso per sempre è popolato il treno del tempo.
Dei sorrisi di cui presto non ricorderemo il tragitto. Di concetti complessi come macigni che franano e frantumano l'abbandono ad abbracci vilmente scomposti.
Di parole strozzate esiliate da ogni pagina che possa sfidare i tuoi occhi.
Virgole che scindono e non collimano.
Profili di orizzonti piegati che non si riavvolgono.



venerdì 18 settembre 2015

La strada senza nome

Quelle strade avevano un sapore di gomma nuova, di lavori sempre in corso, di notti intrappolate nei labirinti della nebbia anche quando erano sequestrate coi sigilli del giorno.
La prima corsia per coloro che stanno per raggiungere casa, la seconda per coloro che la raggiungeranno con la pazienza delle lunghe distanze e della costanza, la terza corsia per quelli che scappano anche quando non sanno neppure da dove provengono.
Era la strada delle 19.30, quella dello svincolo che precede la telefonata per avvisare di poter preparare la cena. Quella che si consuma in fretta come l'alba di una domenica mattina di fine estate. La strada dei racconti e dei ragguagli sullo stato di salute di  tutti quelli che figurano accidentalmente tra i comprimari di questa morta storia,  la strada delle parole da giorni attese e conservate per essere spese tra quei limiti e quelle gallerie controllate da fari indiscreti.
Alle spalle la metropoli e le sue luci che spingono il cielo ancora più in alto, dinanzi le montagne in filigrana ricamate come toppe di mondo sul drappo madido e buio che non donosce bordi e confini. Abbiamo poco da mangiare domani, ma tanto siamo dieta, vero?
Se sbagliassi l'uscita le montagne cominceranno a sollevarsi sotto i nostri piedi senza che ce ne accorgiamo, ed un tuo urlo mi rimprovererà per la disattenzione, mettendo tutto in discussione.

Un sibilo sembra attraversare anche la strada più silenziosa che taglia un campo non illuminato prima del grande cancello che apparirà alla nostra sinistra.
Un sibilo ininterrotto che sembra irradiarsi da tutte quelle luci, che sembra portarsi dentro, come il cesto di un raccoglitore di cotone, tutte le voci che hanno riempito questi spazi intorno. 
Come un fumo impercettibile nella sua consistenza e negli odori si infonde e si raffredda senza che se ne rilevi traccia in quella normalità  così straniera e  imponderabile.
La mattina getta solo un po' di luce senza azzardarsi a rischiarare nulla fino in fondo. Sembra che le voci ristagnino arenandosi sulle dorsali dei monti a nord. Non è la nebbia dell'atmosfera o delle basse pressioni, o delle conche naturali ad abbassarsi. Sembrano le sospensioni di tutte le anime che popolano quella terra.

Un freddo che ti prende dentro alimentandosi da un chiasso indistinto, dove solo il suono della sua voce sembrava zittire l'urlo strozzato degli affanni a fine corsa, l'indispettito spiare del sole tra i nembi, e le stelle camuffate da aerei immobili come mosche indecise.

Volti sconosciuti che prendevano forma umana a partire da poltrone svuotate di senso, e vilipesi scheletri ricoperti di carne e abiti confezionati dai sarcofaghi dipinti dalla considerazioni altrui. Storie misere abbandonate su marciapiedi lerci ed appiccicosi, ed una calamita di misericordia su cui strisciano esistenze fragili che non riesco a sentire fraterne.

Sguardi rivolti ad altre convenevoli rive dove lasciar correre via una coscienza rachitizzate da camicie di forza cucite con schemi sociali tanto rigidi e acuminati dentro ai quali è così semplice smarrire se stessi.
Agende sgualcite a misura di tutte le cose, e i giudizi di un occhio opprimente in questa landa invisibile che sferza la terra ai confini del cielo.

Abbiamo attraversato insieme quello sciame di luci sibilanti e mi sembravi l'unica creatura vivente di quel cimitero di ghiaccio. Avevi un freddo permanente dentro che tentava di astrarti in quel quadro asfaltato senza nomi.
Corrono i palazzi intorno, i mega-store sulla Valassina, i negozi che ho impressi neimricordi sempre uguali, le insegne e le pubblicità e corrono in sogni dopati su circuiti rotanti su fulcri sbandati sganciati da ogni licenza di guida su queste piste senza punti di arrivo.
Sono al warm up di una vita che vorrei ripetere non appena giungerà alle mie latitudini un sibilo di quei cementi che sembrano piangere, e un sordo rombo sostituirà un tuono a quello sparo che non farà morti o feriti.
Ed una pioggia fresca e pura cancellerà tutto. Quei volti, quel silenzio bugiardo, quel vento stanco, quella nebbia mescolata al celeste opaco, quelle luci scialbe e scriteriate, sfondate come corpi svuotati in canopi bucati, cadaveri sciolti e annegati in un'aria immobile che accarezza con dolcezza e amore quelle strade senza nome.

sabato 2 maggio 2015

Un apatico

Mercier uscì di casa perché non riusciva a dormire. Entrò nel nuovo bistrot nella piazzetta della cattedrale, e dalla popolazione che si palesò ai suoi occhi riuscì a comprendere quale sarebbe stato il destino di quel posto. 
La proprietaria gli venne incontro con rumorosissimi passi, e Mercier fece una smorfia di disappunto con il rintoccare di quei tacchi se sembravano volerlo assalire. Ordinò dello scotch e fissò per un attimo un tavolo poco più in fondo, dove un uomo molto alto e ben vestito stava urlando qualcosa ad una ragazzetta che a stento tratteneva le lacrime. In giro calò uno strano silenzio, e tutti parvero coinvolti nella lite tra i due, ma Mercier concentrò i suoi occhi sul suo bicchiere, e con la punta delle dite della mano destra spostava avanti e dietro un quadrato di cioccolato bianco.

La proprietaria rimbrottò qualcosa di riprovevole sull'uomo più in fondo, e in generale sembrava avercela con tutti i presenti di quella serata, per lo più ubriachi. Mercier distoglieva lo sguardo dal suo bicchiere ogni volta che la donna appuntava nei suoi discorsi un nuovo individuo; Mercier lo guardava un attimo, e poi rientrava sulla sua rigida posa.
La donna si fermò all'improvviso, e prese a fissarlo silente. Mercier s'accorse di quello sguardo dopo qualche minuto. S'accorse del suo sguardo languido, e del viso ammiccante. La donna tornò sul retro, e andando via sfiorò il braccio di Mercier che ancora reggeva il bicchiere vuoto. Lasciò la porta socchiusa, rivolgendogli un ultimo sguardo.
Mercier girò dietro il bancone e la raggiunse. La donna era piegata a sistemare dei barili di olio. Mercier le si avvicinò e la prese dai fianchi. La donna gemette, e tentò di baciarlo, ma Mercier allontanò la sua bocca, spingendola con forza contro un bancone. Le sollevò la gonna e la prese da dietro.
Fece presto.
Prese uno straccio e si ripulì le mani. Si sistemò i pantaloni e fece per allontanarsi.
- Ehi! Tu! - Gli urlò la donna.
Mercier si fermò davanti la porta, ma non si voltò a guardarla, ne sentiva lentamente allontanarsi le urla e le maledizioni. Poi uscì verso la notte.

La Luna illuminava il cielo ad est, a pochi centimetri dalla costellazione della Vergine. Mercier accusò un leggero brivido, poi proseguì il suo cammino alternando i propri passi sulla colorazione a scacchi delle chianche sul viottolo.
Pensò a sua madre, e al dolore che avrebbe provato nel ricevere la notizia. Pensò a quella vita che sfioriva come in preda ad un interminabile inverno. Pensò a quelle combinazioni cosmiche che tornavano a mescolarsi nel caos, alla chiamata di una nuova vita a cui non si sentiva pronto di garantire una rigenerata presenza.
Pensò a come sarebbe stata la sua morte, alla gente che avrebbe condizionato, agli eventi che avrebbe messo in moto. Pensò ai pochi giorni dall'imprecisato numero che lo avrebbero ancora visto sulla scena del mondo a recitare ruoli comprimari. Si ricordò di una donna amata anni addietro. Della debolezza con cui aveva avvilito col tempo quei giorni dal sapore dolce e ricco di speranza. Dell'abbandono lento cui s'era condannato non riuscendo a nutrire un senso alcuno ai suoi giorni, e a quella serenità così scomoda.
Da lì a poco quel ricordo si sarebbe affastellato ai tanti racconti incompiuti che hanno ricopiato nei secoli le bozze del mondo, avrebbe avuto volti di vite mai nate.
Ricordò la profondità di quei giorni che pure gli furono sottratti con violenza. Pensò che, in fondo, in quello stretto recinto in cui s'era confinata la sua possibilità di scegliere non provava alcuna paura.
Quando lei se ne andò Mercier pensava che avrebbe dovuto fermarla, che avrebbe dovuto riprendersela. Che avrebbe dovuto forzare lo scorrere inevitabile delle cose piegando la vita alla sua volontà.
Come l'uomo nel bistrot che urlava contro la ragazza, avrebbe dovuto imporre al suo stesso mondo delle regole rigide e dei contorni precisi.
Pensò che racchiudere quei sogni condivisi in un solitario epitaffio coi tempi al passato l'avrebbe assolto per l'eternità. Quell'eternità che stava per giungere a compimento di lì a breve.
Mercier osservò che in quel momento tutti i suoi dubbi stavano per disperdersi. Anche la Luna, apparentemente costante ed infinita, avrebbe fatto a meno di lui. Così nulla al mondo ne avrebbe mai reclamato la presenza o aborrito le intemperanze. 
Si sedette su un improvvisato giaciglio ai piedi di un pino avvolto nella notte. Respirò l'odore della pece che veniva rafforzato dal suono tenue del vento tra quei rami. Si sentì chiamare un'ultima volta.
Sapeva che il  momento stava per arrivare, ma non lo avrebbe mai afferrato fino in fondo. Si sentiva impotente, come tutte le volte che la vita gli era sfuggita di mano.
Ma in quel sibilo tra i rami ascoltò il canto della sua resa al tempo, e nella sua mente rivolse delle ultime parole a sua madre.
Le disse che non valeva la pena aspettarlo a pranzo. Le disse che aveva perso l'illusione di poter governare il vascello della sua propria esistenza, e che nell'inevitabilità del naufragio ogni condanna risultava inefficace.
Attese che quell'attimo anarchico lo cogliesse. Non aveva idea di quando avrebbe potuto coglierlo. Un'ora o un mese, che differenza avrebbe fatto?
Mercier lo attendeva, e si addormentò.
    

sabato 26 gennaio 2013

2020: crociata nello spazio

La mia crociata contro il "sabato sera" prosegue senza sosta, e se ci fosse una voce narrante senza inflessioni dialettali, la mia vita di queste ore sarebbe un documentario di super quark dal titolo: scoglionamento da week-end.

I colleghi di partito tentano di trascinarmi in una sagace discussione online circa l'utilizzo del noto brand "2020" per caratterizzare la nascita dell'ennesima sottomarca del pd da piazzare elettoralmente in questo roboante 2013.
E dopo qualche minuto la domanda che sorge da parte di qualcuno è la seguente: ma che minchia è 2020?
L'agenda di Lisbona non ha centrato nessun obiettivo, e se il 2020 gregoriano arriverà tra 7 anni, il 2020 europeo non arriverà forse mai.

Il vero problema di questa merda di crisi è che ha limitato il mio  giro d'affari al punto da costringermi a restare ancora ospite ingombrato nella dimora familiare, pur avendo raggiunto l'intollerabile soglia anagrafica della trasmigranza domiciliare, ed il raggiungimento della libertà provvisoria, in luogo dell'attuale libertà vigilata.

E così il documentario prosegue nella narrazione in cui si odono i nervosismi paterni, espressi mediante veementi perplessità sull'esatto punto di cottura delle seppie ripiene con pan grattato e formaggio. Tensioni certamente imputabili all'aver depositato i propri risparmi su un c/c della Monte dei Paschi, e all'aver investito notevoli somme in BOT a 1 anno che non renderanno un cazzo.

Vabbè che c'hai un profilo di rischio pari a quello di un criceto nella gabbia con la giostrina rotta, ma cristo, tutti quei tg1 economia???? Dopo aver udito questa scellerata notizia, ho cominciato a sperare che lo spread torni a salire, finanche ho meditato di votare Tremonti.

A tal proposito, il massimo di campagna elettorale che un consigliere comunale annoiato come me può fare, in questi giorni di porcellum, è spiegare allo zio disinformato la differenza che sussiste tra la scheda bianca, la scheda nulla, la scheda con un enorme fallo tratteggiato in calce, il non voto, il voto a silvio, il voto a monti, il voto al mio partito... va be', due palle.

Intanto, mio fratello palestrato ansima notevolmente e sbuffa rumorosamente per aver appena terminato una sessione di addominali extra che solitamente non pratica nei luoghi domestici.
Credo stia tentando di smaltire la rabbia di una settimana di vacanza in egitto con zoccolona incorporata che rischia di saltare per la sagacia di scegliere una simile meta giusto nel periodo di recrudescenza della primavera araba. Come dargli torto, se ci fosse ancora Mubarak, non avremmo di questi inconvenienti.

La mia ragazza mi mostra felice un importantissimo video circa un centro di recupero per cavalli maltrattati, e intanto odo sollevarsi ancora più nella mia mente l' Aria sulla IV corda di Bach....

... e mi chiedo, in questo disperato sabato dai piedi freddi, da scatolette di tonno e insalata scondita e tozzi di pane integrale, mentre la televisione nel tinello trasmette un vergognosissimo film con massimo boldi nella sua versione per non udenti (nella fattispecie, i miei, che hanno il volume impostato a 250/100), che mi desta furente l'odio verso la cadenza lombardo/veneta (pur avendo la zita lombarda)... e mi chiedo, dunque, come cazzo abbia fatto l'Italia a rendere apprezzabile uno come massimo boldi, e poi... che minchia vuol dire mai "2020"?


domenica 23 settembre 2012

I trapezisti spezzati


Ogni volta, dopo l'ennesimo tentativo di chiamata abortita, si trasportava inconsapevolmente agli argini dove i sassi incontravano la sabbia sottile.

Maggie, ormai, non voleva più saperne, e s'era convinto anch'egli che ne aveva le giuste ragioni.

Non era il calore delle sue avare carezze a mancargli, no. Nemmeno le cantilene notturne. Il vero baratro consisteva nel non potersi più afferrare come se fossero trapezisti in volo attraverso il dissestato tragitto dell'esistenza. 
L'assenza era fatta di assenza di risposte a interrogativi che da soli non si era in grado neppure di esplorare, di assenza di comprensione a stati di disfatta in guerre ancora da dichiarare. Di incontri sempre puntuali perché la felicità non richiede appuntamenti concordati.
Di queste miserie si nutre il famelico verme della mancanza, non di altre grevi inadempienze.

Ed R. prese dunque a raccontarsi le sfumature di un'agonia talmente lancinante da non fargli provare alcun dolore, che piuttosto si vestiva di una quiete amara interrotta di frequente da fragorose risate di rigetto.
Nelle sue storie i volti degli umoni perdevano ogni connotato: si riempivano le fosse oculari, si asciugavano le labbra, si levigavano i nasi. Una comune tragedia si riconoscerebbe sulle pallide fronti di  ciascun uomo, senza sprecar sguardi ad individuarne i motivi dei volti e delle disillusioni.
 Le uniche sfumature che rendono speciale il dramma di ogni uomo, è la porta d'accesso da cui questo si presenta.

Allora occorrerebbe tenersi stretti, senza neppure riuscirsi a sfiorare, come trapezisti integri che si riconoscono senza neppure chiamarsi, volteggianti e certi che all'acme del proprio volo, al cambio di rotta che introduce al precipizio, ci sono le mani dell'altro.
Il sogno di questa straordinaria empatia l'aveva del tutto abbandonato. Maggie se ne era andata, e non rispondeva più. Lei era tornata ai luoghi verso cui sentiva il suo richiamo.
Investigare sulle ragioni di quel fato infelice avrebbe significato rinnegare la tragedia alla base dell'inconciliabilità tra gli esseri, e di riflesso, ripudiare quei volteggi di profondo amore che aveva vissuto lassù con lei, sul trapezio, prima che questo si spezzasse.

Semplicemente, senza plasmare i connotati della vittima, o del carnefice, durava nei suoi giorni in attesa che una smentita epocale facesse crollare il circo delle verità svuotate che aveva allestito intorno alla propria gabbia di pelle e parole.
Una sera, mentre assaporava un cognac, incontrò Hanna, sua vecchia conoscenza. A lei piacevano le sue espressioni marmoree e dure, che sembravano scolpite da un senso di forte controllo sulla realtà.
La trovò ingrassata e provata, e con le coscie scoperte.

Hanna lo guardava, e lui si lasciò sedurre, come se la cosa non lo riguardasse. A casa di Hanna c'era una cucina ordinata e un corridoio tappezzato di foto, quelle pareti trasudavano dalla voglia di convincere chi le abitava che un'identità propria è raggiungibile anche a buon mecato. Basta pagare con una buona memoria.
Hanna, spogliata, urlava appoggiata contro il muro, mentre R. spingeva con forza da dietro, e lei, piccola,  sembrava piegarsi a quell'irruenza, quasi strozzata. R. non cercò di capire quanto piacere ci fosse nelle urla di Hanna, sembrava quasi immune da ogni ascolto, e fece presto.
Appena ebbe finito, R., ancora nudo, si versò del vino bianco e si preparò per andarsene. Hanna, nel letto, imprecava  avverso la sua nota indifferenza, ancora singhiozzando.  Ma fu completamente ignorata.

Hanna, umiliata, tentò di richiamarlo a sé, e cominciò ad insultare il nome di Maggie.

R. non rivolse immediatamente i suoi pensieri a Maggie, né a quanto l'aveva amata. Pensò a quella volta in cui lei lo tradì. Stavano insieme da poco e lui occultò il fatto dalle sue conversazioni con lei spazzandolo lontano con scialbe citazioni nichiliste. Pensava che gli servisse da monito, per ricordargli che nulla mai sarebbe stato scontato.
R. aveva ancora il sigaro in bocca. La raggiunse e la guardò mentre si azzittiva e si copriva le nudità con terrorizzato pudore.
Per un attimò gli sembrò anche bella adornata da un'aurea di sottomissione e vergogna.
Hanna cominciò a piangere. Un pianto infatile nutrito da un desiderio malriposto, un pianto che manifestava lo strazio di non poterlo rapire per sempre, e tenerlo con sè. Un pianto che aveva il gusto della maledizione agognante un possesso illeggitmo che R. non seppe sopportare.

Allungò le sue braccia dure contro la donna in lacrime, e le strinse la gola tra le mani finchè un'espressione di morte non gli raccontò in pochi istanti di che sapore era stata la vita che lì cessava.

Il volto di Hanna sembrava aver acquisito dei contorni. Adesso aveva dei nuovi occhi, una bocca socchiusa che reclamavi baci onesti e labbra da non scassinare con prepotenza, ma da assoporare con delicatezza. R. la guardò e la vide emergere da un anonimato tragico ed equo che si scioglie nel rito dell'addio.
Lo stesso che accompagnava Maggie, quella sera in cui gli comunicò gelidamente che sarebbe partita.

- Puttana.

R. non si scompose, prese il suo sigaro e scomparve. 

domenica 4 settembre 2011

La vita interiore


- Ma lei è un giocatore di rugby?

- No, pratico attività più tranquille, come la briscola.

- Fuma?

- Sì, ho un'insana propensione al carsismo polmonare.

- Diamo una controllata alla prostata?

- No! Sono diventato obiettore di coscienza pur di non far visitare la mia prostata! La prego...

- Ma giunti alla sua età un controllo sarebbe opportuno, suvvia, non faccia il bambino, si volti.

- Le ho detto di no! E comunque sono ancora giovane per badare alla mia prostata!

- Lei "giovane"? Ma sta scherzando, vero?

- Perchè?

- Lei crede davvero di essere ancora giovane?

- Ma... è scritto qui, legga, sui miei documenti.

- Quali documenti?

- Ecco, questi... ma.... che cosa è successo alla mia immagine?

- Che cos'ha la sua foto?

- Sembra essersi ingiallita, all'improvviso, e il mio nome è sbiadito, la mia altezza dimezzata, che scherzi sono questi?

- Tenga, si guardi allo specchio.

- Ma, chi è questo vecchio canuto?

- Come chi è? È lei, non si riconosce?

- Ma non  posso essere io! Avevo il viso tondo e i capelli neri quando sono venuto qui.

- Quanto tempo crede che sia trascorso da quel momento?

- Come sarebbe, quanto tempo... Un'ora al massimo...

- Un'ora al massimo, dice? Lei ci sta lasciando lentamente, figliolo. Su, si giri, dobbiamo controllare la prostata, è necessario.

- Ma vuole darmi una spiagazione? Che cosa c'era in quel bicchiere che mi ha offerto?

- Dei drenanti naturali.

- E cosa significa tutto questo? Perché sento le gambe cedenti e un forte mal di schiena?

- Che lei deve svegliarsi, giovanotto. Che lei deve necessariamente svegliarsi  e andarsene da qui.




Le scelte sono gli angoli in cui si depositano le scorie della solitudine in cui è confinato ogni uomo. Ai bordi del pavimento, lungo i muri delle stanze, basta una passata di un panno umido per ristabile una parvenza di chiarezza. Agli angoli, invece, resta sempre qualcosa che si deposita col tempo. Lì, dove i contorni si fanno irregolari, dove è obbligatorio svoltare per non andare a sbattere contro un percorso nottambulo, e dove fa più male se ci si rovina contro.

Dopo aver fatto i gargarismi col suo colluttorio rosso, e avendo avuto cura di riporre il suo deodorante ascellare nel bagaglio, andò incontro a suo padre che lo aspettava battendo la pianta del piede.

Allargò il nodo della cravatta per non lasciare che l'ansia lo strozzasse. Qualche felpa per la sera l'aveva portata con sè. Doveva ancora interpretare gli adattamenti del suo corpo ad un clima diverso a quello a cui era abituato. Ogni tanto si schiariva la voce con un grugnito silenzioso per modulare meglio le sue parole. Aveva capito che plasmando bene le parole avrebbe potuto rendere meno infettivo il suo accento marcatamente distintivo.

Durante il volo provava a intavolare discorsi con se stesso per saggiare i suoi progressi nel tenere  a freno le mani, per controllare meglio gli effetti dell'ansia.
Che avrebbe avuto a disposizione poche altre occasioni lo sapeva bene. Non si è giovani per sempre. E la resa dei conti inesorabilmente è depositata sempre là, all'angolo della stanza.

Avrebbe sciorinato ancora una volta il novero delle sue esperienze. Una ad una, come un susseguirsi di stazioni deraglianti che non avrebbero mai conosciuto un approdo. Avrebbe provato ad offrire alla commissione una rilettura di quegli eventi che fosse meno ufficiale. Avrebbe tracciato il filo conduttore di quella rincorsa alla normalità affrontata con tanto coraggio ma con pochi apprezzabili impronte nel corso evolutivo della specie umana.

Giunto a destinazione lei lo venne a prendere, e lo abbracciò. Per un attimo ebbe il sospetto che vi fosse una larga pozzanghera che separasse la realtà monolitica e immutabile dall'idea che costei in quel momento stava stringendo tra le sue braccia piene di ardore.

Ogni minuto che da allora trascorse assomigliava al campanello del giudice istruttore che freddamente enucleava le ragioni di una speranza malriposta.

(I vincenti li riconosci subito, riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di te? Io avrei puntato tutto su di te, Noodles. E avresti perso.)

Lei le offrì una granita all'anice, preparata come solo sua madre sapeva fare. Era diventata consuetudine da un po' di anni. Egli guardava il suo bicchiere di granita nel quale giaceva l'ultimo sorso. Pensò che non aveva sempre bevuto granite. Che per larga parte della sua vita le granite erano fluite in maniera indifferente senza che gli venisse mai venuta voglia di berne un bicchiere. Tanti anni erano trascorsi senza che le granite fossero mai esistite.

Un giorno, invece, s'accorse che faceva caldo e che non aveva fame, e che una granita gli sarebbe bastata per restare in compagnia di persone a cui avrebbe poi voluto bene.

Pensò che questa volta non sarebbe stato necessario avvisare a casa che il viaggio era andato bene.

Per anni gli avevano insegnato ad aspettare, a rinunciare, a restringere il ventaglio delle scelte. Si presentava al mondo dei vivi ricolmo di un amore che recava in dote miriadi di capitoli incompiuti. Storie affogate nel cesso al primo apostrofo erroneamente collocato.
Come quelle vecchie macchine da scrivere che andavano con i nastri di inchiestro nero. Bastava un dito un po' più disconnesso a rendere inaccettabili discorsi interminabili.

Infilò il suo pigiama invernale, e respirò a fondo il calore che da quell'abbraccio ancora s'infondeva. Una lacrima si addensò alla cornice del suo occhio sinistro, come un vetro rotto da cui penetrava la pioggia.
Sentiva il peso di tutta quell'inadeguatezza a cui aveva lasciato ampi metri di vantaggio, e che proseguiva lenta, lentissima, e lo precedeva nella risoluzione dei suoi algoritmi quotidiani.
Anche con il passo di Achille non l'avrebbe mai raggiunta, perchè essa conservava sempre una precedenza assoluta che le proporzioni dello spazio tempo avrebbero reso incolmabile.
Si nasce tartaruga, o si nasce Achille.
Si nasce compiuti, o si nasce appena.

Sul giornale dell'altro ieri vi era la consacrazione dell'incompiutezza come stagno nel quale la forza creatrice del linguaggio si edulcorava di arazzi pregiati nei riguardi di una cenciosa e scontata banalità a tratti quasi ripugnante.
L'irrequietezza è l'impeto ventoso che schiaffeggia l'insenatura al riparo del mare. Una conca aperta da cui la vita avrebbe lanciato affondi che un lago cheto e descrivibile non avrebbe mai appreso nelle sue computabili rive.
Una forma estrema di annegamento che ha come contorno incompleto la colpa, e come sbocco inevitabile la distruzione di ogni cosa.

Sentiva tutto il peso dell'umidità di un cielo in cui la sera non si rintracciano stelle.

A lei dedicò quei pensieri che si rivelarono gli ultimi. Pensieri che non sarebbe stato capace di replicare su carta per non lasciarsene privo. Ché scrivere è un impoverirsi senza ricevuta fiscale.
L'arte, un condono sull'inconcludenza.

E la smise all'improvviso, calpestato tra i binari di una metropolitana.


 

mercoledì 27 luglio 2011

Le invasioni barbariche


R. accese una sigaretta, chiuse la macchina e si diresse verso la porta di casa. Man mano che si avvicinava teneva la sigaretta il più possibile nascosta nel palmo della mano piegato a coppa, e con il braccio steso, tendente a celarsi dietro la schiena.

Tirava fumate rapide e frequenti. Se qualcuno l’avesse visto fumare non sarebbe successo nulla, ma lo sguardo riprovevole di suo padre, che di lì a poco sarebbe giunto anch’egli in prossimità del portone, era quanto di meno sopportabile vi potesse essere, soprattutto dopo una serata di indigestione da parenti.

Una volta s'era abbandonato ad uno sfogo nella cui requisitoria ricondusse, con deplorazione, le cause della sua irascibilità sociopatica  all’attrito vischioso con cui si sviluppavano le conversazioni apparentemente più innocue tra lui e i suoi vecchi.

Suo padre, che riteneva di essere invaso da una innata condizione di impunità, non riteneva plausibile l’ipotesi sostenuta dal figlio, secondo la quale  sarebbe stato lui l’induttore della condizione disadattante del proprio pargolo, e che l’incessante opera di messa in luce delle manchevolezze da parte di quest’ultimo rientrasse nel novero delle indispensabili competenze paterne, volte al progressivo ripristino della perfettibilità dei propri derivati cromosomici.

In virtù di questa missione egli sarebbe stato l’infallibile censore di ogni azione dei propri figli, nonché il vate pronto a svelare anzitempo le conseguenze di ogni loro proposito, facendosi beffe del simulacro ordinario dell’imprevedibilità degli eventi.
Era un rigido assertore della programmazione, e non riconosceva smentite, poiché negli anni aveva accumulato un forziere di giustificazioni applicabili a qualunque situazione.

Mentre R. indugiava con la sua sigaretta sotto il portone, osservava con una parvenza di invidia la leggerezza con cui gli avventori del bar lì vicino seguitavano  ad accumulare vuoti a rendere di birra, discutendo animatamente circa le modalità di conservazione della ‘nduja calabra, e dei processi di lavorazione dello champagne.
Parole distinguibili tra rombi di motociclette, palle di biliardo che rimbalzavano al suolo, bestemmie di ogni genere e risate accalorate.

La contemplazione di tale eldorado fu bruscamente interrotta dall’arrivo della macchina paterna. Il finestrino si abbassò e lo sguardo del padre conducente si fece più distinguibile.
Quei pochi secondi di silenzio sembrarono pesantissimi ad R., che senza alcun motivo,  sentì di dover giustificare l’indugio sotto il portone. Fece finta di frugare nelle tasche della sua giacca ed estrasse solo foglietti a caso.

-  Non trovo le chiavi di casa. Le ho lasciate in macchina. Spero ci sia qualcuno che possa aprire il portone.

Il padre non disse nulla e andò a parcheggiare il mezzo. R. suonò il campanello e rientrò a casa.

Sentì d’essere scosso dopo che s’era appena assopito dinanzi alla tv che trasmetteva la rassegna stampa del giorno dopo.

- Vai a recuperare le chiavi di casa dalla macchina. – Impose suo padre.

- Ci andrò domattina.

- Ci vai adesso, così impari a dire ad alta voce che le chiavi di casa tua sono in macchina, informando la platea dei probabili scassinatori che popola il bar, su come svaligiarci senza fare tanto rumore.

R., si convinse del pericolo, si rivestì e tornò verso la sua auto per recuperare le chiavi di casa. Aprì lo sportello e le chiavi non c’erano.
Cercò dappertutto ma delle chiavi di casa, in macchina, non vi era traccia.

Rientrò a casa e comunicò a suo padre l’esito negativo della missione, lasciando che fosse lui a far emergere le conseguenze di quello stato di cose.
E per suo padre non vi era alcun dubbio: gli scassinatori che popolavano il bar, appena furono edotti dell’ubicazione delle chiavi del loro appartamento, dalle avventate parole di quello scriteriato di suo figlio, cessarono immediatamente di conversare sui metodi di conservazione della ‘nduja calabra e avevano provveduto ad aprire la macchina di R. per impossessarsi delle chiavi in maniera pulita e senza lasciare traccia, riuscendo persino a richiuderla per non destare sospetto.

Egli sapeva benissimo quanto si fossero evolute le tecniche raffinatissime di scassinamento eseguite in maniera delicata e chirurgica.

Una volta il padre di R. sentì di scassinatori che usavano un particolare gas sedante che consente l’esecuzione notturna dei furti mentre le vittime sprofondavano in un sonno quasi comatoso.
Era sicuro che il loro appartamento prima o poi sarebbe finito in cima agli obiettivi sensibili delle bande che imperversavano in tutta la provincia.
Quell’idiota di suo figlio aveva agevolato la scalata nella top ten dei colpi “sicuri”.

Quella notte non dormì, perché prima o poi sarebbero giunti e avrebbero aperto facilmente il portone con le chiavi di R., avrebbero liberato il gas, e lui al suo risveglio non avrebbe trovato neanche  i cessi del bagno.
Ogni minimo rumore lo insospettiva e gli imponeva di alzarsi da letto per controllare che non vi fosse nessuno in casa. Girava per le stanze da letto, e giungendo nella stanza di R. lo vide dormire tranquillo, digrignando come sempre, e sprofondato nel suo sonno indifferente alla perniciosa sorte che di lì a poco sarebbe capitata per causa sua.
Avvertì un senso di frustrazione e rabbia per la mancanza di condivisione del dramma, proprio da parte del suo principale responsabile.

Ma la notte trascorse senza alcun tentativo di scasso. Il padre di R. asserì che era prevedibile, che una banda di professionisti non avrebbe agito immediatamente, perché si sarebbero aspettati delle contromisure immediate che notte dopo notte sarebbero state allentate da una falsa rassicurazione.
Egli non sarebbe stato gabbato, a differenza di quello che i malfattori pensavano.

Ogni notte avrebbe vigilato per controllare l’origine di ogni minimo scostamento d’aria in casa. Ovviamente non si fidava minimamente della collaborazione di moglie e figli, soprattutto quando la causa di quell’imminente sventura  era stata proprio la noncuranza  di uno di questi.
Era cosciente che avrebbe dovuto compiere quell’eroico salvataggio da solo. Non dormì per giorni divenendo sempre più intrattabile e severo, intollerante e iroso.

Dopo una settimana molto complicata R. decise che avrebbe dovuto porre fine a quel tormento da lui cagionato e che si ripercuoteva sulla tenuta mentale del padre, minando la consistenza stessa della sua famiglia.
Approfittando di una passeggiata investigativa del suo vecchio, decise di agire autonomamente, per dimostrare che anche lui era in grado di fare la sua parte per tutelare l’integrità dei suoi cari.
Fece cambiare la serratura della porta di casa, in maniera tale che anche se gli scassinatori fossero giunti non avrebbero potuto utilizzare le chiavi che egli aveva incautamente dimenticato in macchina.

Si sentì soddisfatto perché per la prima volta aveva posto rimedio ad un danno gigantesco derivato dalla sua insicurezza insanabile, ed alla quale s’era ormai rassegnato. Quel gesto riparatore lo avrebbe riabilitato al severo giudizio del padre e gli avrebbe infuso la tranquillità di non essere una merda di  livelli irrecuperabili.
Per la prima volta attese il ritorno del padre per giovarsi del meritato premio al coraggio.

Il padre tentò di aprire la porta di casa con le sue chiavi e non ci riuscì, così, sospettoso, suonò il campanello. R. corse ad aprire.

- Che è successo qui?

- Perché?

- Le mie chiavi non funzionano, e cos’è tutta questa polvere intorno all’uscio?

- Papà ho fatto cambiare la serratura, per stare più tranquilli. Adesso non c’è più da preoccuparsi. – Pronunciò quelle parole con insolita fierezza.

- Sei un coglione, R. 

- Perché papà?

- Una volta giunti sull’uscio di casa, annusata la preda, pensi che si fermeranno dinanzi ad una contromisura così scontata? Possedere le tue chiavi, stronzo, li avrà talmente allettati che una serratura nuova non basterà a farli desistere. Scassineranno la porta, ecco che cosa faranno! E magari diventeranno anche violenti se qualcuno dovesse tentare di intervenire per via del rumore che saranno costretti a fare. Potrebbe scapparci il morto, imbecille, capisci!!! Tua madre o tuo padre potrebbero morire perché un cazzone come te ha dimenticato le chiavi di casa in macchina, e lo ha urlato ai quattro venti.

- Ma io pensavo che….

- No! Tu non devi pensare! Dov’è la vecchia serratura?

- Nel ripostiglio.

- Vai a riprenderla.

- Vuoi rimontare la vecchia serratura?

- Certo, imbecille, continueremo le ronde. Anzi, TU continuerai le ronde.

Dopo qualche giorno, la madre di R. lavando la giacca di R. vi frugò nelle tasche, e vi trovò le chiavi che si pensava fossero state trafugate dagli scassinatori.

- È un cazzone, lo sapevo io. – Sentenziò il padre di R.

venerdì 22 luglio 2011

Babilonia


[Gesù in un locale di Drag Queen - si ringrazia ChuckIrvine]



- Che ti do?

- Ho voglia di un calice di Brunello, di quello buono. Oh, cavolo, dopo tutti questi millenni avete ancora nervi per ascoltare la musica a questo volume?

- Non ce l'abbiamo il vino, tesoro. Solo miscele infernali. E se non ti piace la musica puoi accomodarti nel dormitoio in fondo alla strada. Conciato da pezzente, con quegli stracci, forse ti lasciano entrare. Ma non fare accattonaggio sul sagrato della chiesa, rischi un verbale dal vescovo.

- Ahia, una fitta, ho ancora il costato infiammato. Orsù, dammi un calice con dell'acqua naturale,  ché ci penso io.

- Tu non sei di queste parti. Qual'è il tuo nome?

- Uhm, chiamami pure Emmanuel.

- Dimmi un po', Emmanuel, ma chi è il tuo parrucchiere, Jeffrey Lebowski?

- Ah-Ah-Ah.... Simpatica. Stronza.

- Eccoti l'acqua, sciacquati le viscere. E una volta purificato, puoi divertiti con quel donnone travestito da ombrellone da spiaggia che ti sta fissando da quando sei entrato. Ah, eccola, vi lascio soli. Il privé costa solo 30 denari.

---------------------

- Guarda, guarda chi si rivede.... Emmanuel!

- Ci conosciamo? Ricordo la samaritana al pozzo, la veronica, le pie donne, ma non mi ricordo di aver mai rivolto la parola ad un abat-jour con il silicone nelle labbra.

- Ahahahah. Ci mescoliamo alla confusione nella quale è precipitato il creato, ragazzo. Guardami bene.

- Ga-Gabriel?

- Non Gabriel, ma "Gabrielle", adesso.

- Oh, acciderbolina, sto perdendo colpi.

- Che succede?

- Niente, anziché in Brunello, l'ho traformato in Chianti. Il Chianti fa schifo, non lo farei bere nemmeno a Giuda. Non ci farei lavare nemmeno le mani a Pilato.

- Come mai sei venuto qui, ragazzo? A proposito, lo sa tuo padre?

- Ci son capitato per caso. Avevo voglia di svagarmi un po', di provare a divertirmi con qualcosa di alternativo. Sto troppo male.

- Che hai? Ti sei reso conto dopo duemila anni di essere stato un incompreso?

- No, quello era già insito nel sacrificio da me compiuto. Solo alla rottura del settimo sigillo capiremo se ne è valsa la pena. Verrà una nuova Babilonia.

- Hai fatto la tua parte in maniera esemplare, Emmanuel. Meriti un po' di emozioni forti. Vuoi divertirti con un'amica? Non dirmi che ti sei rassegnato al catechismo edito dalla Paoline Edizioni?

- No, Gabriel. Oh, perdonami, "Gabrielle". Non sono in animo di svagarmi.  Soffro. Maddalena se n'è andata e non riesco a trovarla. Dal giorno dell'ascensione, è sparita lasciando un vuoto grande più del mare. Non me l'aspettavo. Son duemila anni che vago.

- Forse posso aiutarti.
Io so dov'è.

- Dimmelo, Gabrielle. Ti prego. Poni fine al mio tormento... Non dirmi che anche lei s'è fatta ingaggiare in un postaccio come questo?

- Ma postaccio le corna di satana! Sai quanto guadagno io in una sera? Be' tu non lo puoi neanche immaginare. Altro che pescherecci del Mar Morto. Tzé.

- Va bene, dimmi dov'è, Gabrielle.

- Via Olgettina, Milano 2. Ma stai attento. Devi aprire il portafogli per riconquistarla. Con la povertà ti sciacqui lo scroto oggigiormo.

- Babilonia.

- Sì.

 

mercoledì 20 luglio 2011

Gates


"Desiderava fare qualcosa che non lasciasse la possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi anni.
Era la vertigine.
L'ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere.
La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare ad essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cade in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso."



La regina di Itaca doveva possedere una tenacia fuori dal comune. Ella tesseva e sdruciva il medesimo ricamo ogni notte, e nel continuo ritorno del suo ago lungo l'esperito tragitto del suo filo guidato da mani sicure, rafforzava il senso della sua attesa. Traeva da essa la forma che sostanziava il suo tempo, nell'affidamento certo di tutte le grazie ad un moto che si ricaricava di ferme convinzioni ad ogni punto di ripresa.

Riempì la sua borsa all'ultimo momento, mentre aspettava l'autobus sotto casa i suoi piedi disegnavano cinconferenze sghembe sul terreno appena madido della prima pioggia d'estate. Il terriccio sotto i faggi conservava l'impronta della punta delle sue scarpe. L'attesa le rielencava il contenuto del suo bagaglio leggero che non le lasciava alcuna striscia di fatica sul palmo delle sue piccole mani chiare.

Portava con sé un cappello dalla frangia larga. Tutti gli oggetti essenziali che le avrebbero consentito di rilanciare al tavolo della vita li aveva lasciati a casa. La sua biancheria intima era perfettamente accatastata per riempire borse che sarebbero rimaste lì, aperte e mai riempite.

Aveva portato con sé un accendino, nonostante non fumasse regolarmente. L'aveva trovato qualche giorno prima in cucina. Un suo amico l'aveva lasciato lì dopo aver acceso una sigaretta a cena, non  prestando alcun ascolto alla sua richiesta di non fumare in casa.
Anche G. perdeva spesso l'accendino, e lei pensò che gli sarebbe stato utile quando sarebbe successo, e lui le avrebbe offerto da fumare. Pensava che G. avrebbe acceso la sua prima sigaretta dopo averla salutata e baciata, non prima.

Aveva lasciato a casa anche l'ultimo paio di scarpe di tela bianca che aveva comprato, semplici e comode, per preservare le sue caviglie dalle lunghe passeggiate. Si giustificava adesso raccontandosi che avrebbe passeggiato scalza.

Con larghissimo anticipo spense il suo cellulare, si sedette sul margine di una vetrina su cui campeggiava enorme la scritta SALDI, e poggiò il suo viso tra le mani a coppa.
Si accorse che tendeva inconsciamente ad allungare la gonna verso il ginocchio, come a scacciare via la sensazione di sentirsi nuda, di sentirsi spiata. Da qualche tempo le sembrava che anche gli sguardi più distratti riuscissero a pungerla oltre le vesti e la carne, che la sua vita fosse divenuto uno spettacolo gratuito da serata estiva al parco.

Su ciascun volto coglieva un'espressione riprovevole che testimoniava la partecipazione dell'intera platea umana alle conversazioni che intavolava con se stessa. Corti improvvisate che sentenziavano in pochi secondi la loro versione circa le sue conversioni.

Il monitor del gate annunciava l'avvio delle fasi di imbarco. Era certa che dall'altra  parte della rotta aerea ci fosse G., ansioso, che contava i minuti disegnando circonferenze sghembe. Le venne un sorriso denso d'affetto e si sentì all'improvviso colta da un senso di leggerezza. Si sentì sollevare, accompagnata da una stretta di mano in mezzo a tutta quella gente.

S'alzò, e vide che la confusione si stava organizzando in code. Afferrò la sua borsa e, inaspettatamente, inciampò.
Si scoprì che inciampava nei viottoli della leggerezza.

Ferma. Si ravvivò il rossetto sulle labbra e si passò una mano tra i capelli. Voleva sentirsi bella, e il suo specchio era la vetrina in rifacimento che campeggiava davanti a lei. Passi di ogni genere attraversavano il suo riflesso rivelandole tutto il suo immobilismo.
Si scoprì forse ancorata al suolo, mentre la coda di gente si rinforzava.

Stava per cadere, e avvertì il brusco risveglio. Riprese il rossetto dalla borsa e cominciò a passarlo più volte sulle sue labbra, voleva essere certa che la sua bocca esistesse ancora, e non le fosse strata strappata via all'urto con qualche vitrea parete di cui non avesse percepito la presenza. Non riusciva a distinguerla bene, la sua bocca, nella distanza di tre metri dalla vetrina nella quale si vedeva riflettere, e che veniva attraversata da viaggiatori di corsa.
La fase di imbarco stava per concludersi, lei nella coda non si era ancora inserita.

Un distinto signore di cinquant'anni le passo accanto e le sorrise. Le aveva camminato lentamente intorno senza che lei se ne accorgesse per diversi minuti. Finché si fermò e le chiese se avesse tempo per un caffè, e se per caso la fortuna li avesse condotti sullo stesso volo.
Lei non rispose, ed egli provò ad insistere con atteggiamenti languidi. S'accorse che lo sguardo  del cinquantenne s'ammantava di un'aria volgare ed era concentrato verso il suo culo con cui sembrava volesse toccarla e afferrarla brutalmente.
Lei strinse le braccia intorno al corpo, come se volesse proteggersi da quello sguardo che potesse accorfersi della sua nudità. E non disse nulla.

Il distinto signore, stizzito, mordicchiò un insulto con una smorfia che sembrava scacciarla via dal gioco normale degli esseri umani, dai loro mescolamenti superficiali e codificati dalle leggi dell'effimero che inflaziona l'appagamento per annullare la fame.

Un brivido la percorse, e si sentì smarrita. Come se avesse subìto un tentativo di scippo all'uscita del carcere.
Prendere quell'areo sarebbe stata una scelta in cui avrebbe dovuto risarcire la leggerezza con responsabilità.
Tutti gli sguardi si trasformavano in mani seduttive che provavano ad afferrarla, spogliandola dal peso della scelta, dissipando in una polvere di infinite
stazioni appaltanti la gestione degli spazi della sua felicità, fonti straniere al suo autonomo  discernimento.
La convinzione che il governo di quegli spazi potesse tornare completamente nelle sue mani, e nella sua volontà, ora sembrava spiazzarla e la atterriva, provocandole un senso di nausea.

Al contrario, conosceva le pareti della sua stanza senza doverle cercare con gli occhi. Quella leggerezza sembrava ora soffocarla, si sentiva lanciata ad alture con parole di scarsa densità materiale sulle quali avrebbe dovuto poggiarsi senza badare alla possibilità di cadere.
Quel valore richiedeva una fede sterminata dal sapore nuovo, differente dai pasti di cui s'era nutrita fino ad allora.
L'abitudine induce una mano a scorrere lungo un telaio e ricamare trainata da gesti sicuri e consolidati.  Le uscite di sicurezza le riconosceva camminando a gattoni in caso di incendio, segni distinguibili sono tracciati su ogni terreno.



dimmi, senza un programma, dimmi come ci si sente



L'ultima chiamata delle assistenti, e la fretta dei ritardatari che la evitavano senza guardarle il culo.
Prese il rossetto dalla sua borsa e lo lasciò scorrere ancora una volta lungo le sue labbra. Si scompigliò i capelli e riaccese il suo telefono.
Cercò il numero di un vecchio amico di scuola.

- Vieni. Riportami a casa.

 



dove un attimo vale un altro

giovedì 26 maggio 2011

La casa sul mare - 5


V
Intanto una voce di un vecchio si levava anch’essa da quella casa vicina. - Vera! Vera! Torna qui brutta bambina stupida… - Imprecava, chiamava, apostrofava la bambina.
– E’ tuo nonno, vero? - chiese lui, vergognandosi della pietà per quella povera anima ancora immune dalla realtà cruda.
- Sì, mio nonno è tanto severo, ha un fucile, dice che serve per far paura all’uomo cattivo che abita a casa tua. – Sorrise. – Si… fa tanta paura il fucile del nonno, tanta.

La piccola ebbe un sussulto improvviso verso di lui. - Vieni con me, quella casa è brutta, andiamo sul molo e aspettiamo papà!
Senza che lui potesse far nulla, Vera lo prese per mano e lo fece camminare con lei. Lui sentiva le sue gambe zoppicare accanto a quella piccola che gli curvava la schiena. Si lasciava condurre, senza opporre resistenza senza più ascoltare le voci che da quella casa sentiva levarsi verso la sua guida dai riccioli biondi.
Lei lo trainava e più camminava più si sentiva leggero, più riacquistava la linfa nelle gambe, più l’odore torbido della casa sul mare si disperdeva nell’odore del mare che sentiva vicino, sempre più vicino.

Raggiunsero il molo. Era freddo e nero, continuamente bagnato dalle onde, stretto e vecchio. Pareva un ponte in rovina, una pensilina collocata sul mare per attraversare a piedi le acque. Nessuna barca era ormeggiata ai suoi lati.
Attendeva anche egli di sprofondare nell’alta marea. Non se ne era accorto, ma all’estremità del molo questo aveva ceduto all’erosione del mare, e la punta era crollata in diversi blocchi di pietra franati chissà da quanto tempo. Erano ricoperti di alghe e di liquami sedimentati sulla roccia.

Guardò quel ponte interrotto, mentre un canto sottile e sussurrato dalla piccola accanto a lui che dondolava il suo braccio, per un attimo zittì il vento, e assopì il mare. Il molo pareva allungarsi, il ponte sembrava non interrompersi più e fuggire verso il cielo, sembrava una strada agevole che il suo cuore riusciva accogliere con sobbalzi sempre più miti, lontani dalla stanchezza, prossimi al tepore di settembre.
La spiaggia lontana appariva adesso pulita e chiara nel tramonto, l’acqua era immota man mano che ci si allontanava dalla battigia, ondeggiava con ansia, ma senza alcun impeto. L’acqua cheta assomigliava al mesto placarsi del suo respiro. In quel punto, con la piccola Vera, il suo affanno pareva predisporsi a svanire.
Vide anime e destini percorrere quell’acqua, passi e racconti, storie di naufragi e rimorsi raccontavano i primi riflessi della sera che rendevano invisibile il fondo bruno. Ed il mare narrava mille voci disperse, di gente che non tornava ai suoi cari, che lì però avevano incontrato la pace, altre infinite e invisibili dimore tra le onde, scrigni intoccabili, solcati dal vento e calpestati dagli angeli.

Lì apprendeva in quel silenzio accarezzato dai versi della piccola Vera, che la speranza riposava nell’immensità del mare, che la pace sarebbe stata il mescolarsi supino tra il calpestìo delle fate e degli angeli sulla superficie che evaporava verso il cielo… avrebbe voluti sciogliersi lì, ed evaporare anche egli, lasciando al mondo un umido pugno di sale.
Già sentiva mescolare le sue membra fra la spuma argentata che sgualcita si dissipava in superficie, e mentre calava tiepido il crepuscolo, quella tavola vitrea appariva sempre più lontana dall’abisso che soggiaceva nel buio delle acque. Avrebbe allungato docilmente i suoi passi salutando la piccola Vera che lo aveva condotto verso quel ponte tra la morte e la speranza.
Si sarebbe annullato nei meandri in cui riecheggiava ancora il sorriso del suo bambino mescolato con il suo durante i giorni sereni a bordo della piccola canoa. Sarebbe divenuto mare che avrebbe dato sollievo ad altre vite, sarebbe divenuto un’onda che avrebbe illuso Vera sul ritorno del papà disperso. Pensava già che la condanna emessa fosse stata più clemente, e che accarezzando quel lento svanire il suo male sarebbe evacuato lontano dall’anima…
Sì fermò a gustare tutti i momenti con respiri convinti, di quel ristoro dei sensi e la fine che avrebbe desiderato per ritornare al principio. Non si accorse che la mano della piccola non stringeva più la sua, e che il suo sussurro s’era bruscamente interrotto.

- Papà, papà, sta tornando papà! – la piccola aveva visto un piccola vela all’orizzonte e cominciò a correre verso la punta del molo. La superficie di questo era cosparso di alghe e di flutti, la piccola inciampava ma correva, correva, si rialzava e correva… scivolava, e correva per poter rivedere il papà disperso.
Lui la guardava correre forsennatamente, mentre il mare ricominciava a gonfiarsi e la marea avrebbe divorato tutto in pochi minuti sotto la sua fagocitante voluttà. Doveva salvarla e corse arrancando vistosamente, tentando di attirare l’attenzione della piccola con schiamazzi soffocati.

Passi gonfi di ferocia si mossero intanto dalla spiaggia.
- Vera! Vai via da lì! Allontanati dalla bambina brutto porco! – Un urlo diabolico giungeva, e si distinse un vecchio zoppicante con in mano un fucile che con falsa rapidità si dirigeva verso il molo, mentre caricava la sua arma, seguito da una donna in lacrime che chiamava con ardore il nome della piccola che aveva orecchie solo per il vento che doveva avvicinare a lei quella vela, nella quale cullava la speranza che ci fosse il padre.
Non s’accorse del vecchio che sopraggiungeva.
Decise che doveva correre ancora, correre verso la piccola, mentre le onde si alzavano sempre più maestose, pregustando di inghiottire la piccola preda. Corse. A passi soffocati. Ogni passo gonfiava i suoi polmoni logori, per quegli ultimi respiri che avevano un senso.

Quando fu a pochi metri da lei riuscì a chiamarla.
- Vera torna indietro è pericoloso lì – urlò lui alla bambina, che saltellava vicino alla punta del molo in prossimità del punto in cui questo rovinava nelle acque tornate maledettamente troppo furiose.

Il caricatore del fucile era posizionato e pronto a levare il suo latrato verso il molo. Pochi attimi, pochi passi, ultime voci prima del ruggito.
Lui correva. Il fucile si caricava di morte.

La bambina saltava sulle sue strette ginocchia. La chiamò con voce disperata mentre la sfuriava si gonfiava sempre di più in ogni attimo. La piccola Vera riconobbe una voce paterna che le diceva di ritornare indietro, e si girò sorridendo verso di lui, dando le spalle all’impetuoso precipitarsi delle onde affamate di terrore.
Un’onda si levò famelica investendo di spalle la piccola Vera che scivolava via strillando, e chiamava: Papà!… Mentre i suoi piccoli piedi non incontravano il freddo nero del molo, ma slittavano via verso l’acqua bramosa. Lui riuscì a raggiungerla in un balzo che avrebbe consumato tutto la vita che gli fosse rimasta, riuscì a prenderle il braccio e tirarla in salvo a sé.

Mentre dall’imboccatura del molo, la bestia ruggì.

Un unico sordo fragore, che intimorì anche le onde del mare. La pallottola perforò la sua testa, bruciando il cervello e asciugando con il calore dell’odio il sangue che dal foro infiammato non sgorgava neanche. Non ebbe il tempo di capire, di vedere, di presentarsi degnamente al suo appuntamento con il destino. In un istante si spense la coscienza.
Il tuono avrebbe consumato ogni misero desiderio di consumare quegli attimi agognati in cui aggrapparsi piano tra la vita e la morte mentre vi avrebbe voluto calarsi in quest’ultima cosciente e deliziato nel riposo della sua anima.

Dopo giorni di agonia e morte dell’anima, Vera era riuscito a condurlo su quel ponte dove si insegue la speranza, e lui quasi inconsapevole, concepì un desiderio di pace e redenzione. Pregustare la fine tra quelle onde e aggiungere il suo triste destino a quell’eterno ritorno che lo avrebbe reso infinito.
Ecco che malvagio e tetro il patibolo atteso s’era manifestato per lui, nella pena più atroce e violenta, deprivandolo dell’ultimo briciolo di vita che aveva trovato il coraggio di costruire nel suo cuore. Finì così il vano supplizio, senza coscienza e redenzione. Nell’oblio di un buco nella testa perforata con indifferenza, senza che sgorgasse via il suo sangue.

La piccola Vera gemeva terrorizzata con quella carcassa senza anima addosso. Il vecchio e la madre li raggiunsero al termine del molo. Sollevarono la piccola. La videro ansimare, con gli occhi sbarrati, non muoveva palpebre, ciglia, labbra. I suoi capelli parevano voler resistere al vento.
Pallida e smorta, la allontanarono via. Il cadavere putrido fu presto condotto nella casa sul mare. Il vecchio raccolse le travi di legno disseminate sulla sabbia e accese un fuoco cospargendo di benzina le mura decrepite, sollevando una fiamma che rendeva invisibili le stelle.

Tra le fiamme le pareti della vecchia catapecchia cedettero piano, il soffitto crollò improvvisamente sul cadavere che ardeva. Quella fu la sua tomba di odio e di fuoco.
La piccola Vera dopo qualche mese che non si muoveva più, che non parlava, che s’era trasformata in un vegetale marino, fu portata in un istituto di recupero psichiatrico. I pescatori, spaventati e costretti abbandonarono per sempre quella spiaggia.

La vita era completamente sparita. Il male, aveva compiuto il suo ciclo nell’eterno ritorno delle onde del mare.

martedì 24 maggio 2011

La casa sul mare - 4


IV
- Ciao - Irruppe una voce – mi dai la palla? – Vide dapprima una vecchia palla grigia accanto il suo piede sinistro che s’era bloccata tra questo ed il blocco di tufo sul quale era seduto. Poi scorse il volto di una bambina vestita poverella con un sorriso sincero e beffardo. Spostò la gamba cosicché questa potesse servirsi da sola, ma vide che la piccola titubava. Aveva paura, oppure era la puzza a dissuaderla? Allungò il braccio e la palla scivolò via verso la bambina.
Questa la raccolse e si volse di spalle ricominciando a correre dietro alla palla che si divertiva a scalciare maldestramente. Ridendo.

Ecco, riconobbe il suono primordiale che gli aveva infuso quella voglia di alzarsi e sentirsi riavere. Restò lì a lasciarsi catturare dal moto di quella creatura, che disordinatamente calpestava la spiaggia disseminandola di quell’incantevole viso, tanto raggiante, quanto inconsapevole.
Osservava quella farfalla spargere vita così, senza un perché, senza una meta che potesse guidarla, una mano che riuscisse ad afferrarla e portarla via con se, libera e confusa, senza fine, senza un tragitto rettilineo. Non s’interrompeva neanche per cadere, per rendersi conto d’essersi fatta male, di dover essere attenta, non avrebbe corso alcun pericolo, pareva, finchè avrebbe inseguito la sua palla. E nulla poteva intercettare quell’incomprensibile agitazione.

Ma lui, poveraccio, non era abituato all’aria ed al vento, e bastò un sospiro più sostenuto di questo per acutizzare una fitta ad un fianco, emise un sussulto e si alzò di scatto per contenere il dolore. La bambina si spaventò a quel repentino movimento. Poi ebbe quasi pietà, e gli venne incontro.
- Tu abiti lì? – chiese facendo segno alla casa sul mare. – Mio nonno e mia mamma dicono che lì ci abita una persona che prende i bambini, li rapisce, che abita in quella casa brutta e vecchia perché ce lo hanno rinchiuso i pescatori. Loro aspettano che la casa crolli. Lo conosci tu questo signore cattivo? – guardò la piccola che sorrideva mentre raccontava persino la paura con la pace nel cuore, un sorriso che avrebbe vinto il più cupo terrore.

- Si, lo conosco il signore cattivo, è dentro quella brutta casa che sta per crollare, è tanto cattivo, l’uomo più nero e triste del mondo… ma non prende i bambini degli altri papà, lui era un papà, il suo bambino gli è stato portato via dal mare, aspetta che il suo figlioletto torni da lui… E il tuo papà dov’è adesso? – Aveva quasi dimenticato l’uso della parole, formulò il suo pensiero con estrema lentezza… mentre una voce di donna chiamava da quella casa di pescatori che si eresse in un attimo di lì a poco lontano dal suo sguardo. Ergendosi anche nel suo ricordo maledetto, con tutto il livore del suo odio.

- Vera! Vera! Torna a casa è pronta la cena! Sbrigati!
- La mia mamma mi sta chiamando – Si voltò la bambina, senza accennare all’idea di volersene andare.
- Ti chiami Vera? Abiti in quella casa.
- Si, ma mia mamma non vuole che mi avvicino alla tua casa, ha paura che crolla ed io ho paura dell’uomo cattivo che ci abita dentro. – Diceva guardando instancabilmente oltre il molo, lontano, cercando un segnale che provenisse oltre l’orizzonte.
- Non torni a casa?
- No, devo aspettare il mio papà che torna con la sua barca… lo aspetto tutte le volte che ci sono le onde. Il mio papà è partito con la barca, partiva e tornava sempre, e mi dava un bacio… Ora sono tanti giorni che non torna, forse sta pescando un pescecane. La mamma dice che non torna perché sta pescando un pescecane grandissimo… - diceva allargando oltremodo le braccia - … una sera sentivo la mamma piangere, ed il nonno diceva che il mio papà se l’erano portato via le onde. Poi sento mia madre e mio nonno fare strani versi, però mia mamma piange sempre… Così quando ci sono le onde io vengo ad aspettare papà, lui tornerà quando ci sono le onde.

Cercava il suo papà, ingoiato dalle onde… Vera, dolce e tenera, innocente e inconsapevole, volteggiava sulla sabbia sporca di cenere e gabbiani morti per attendere un ritorno che non sarebbe mai giunto. Spargendo vita, attendeva chi probabilmente era morto. Ogni volta che il mare infuriava, lei veniva a reclamare suo padre.
Lui invece nella furia delle onde riconosceva il frastuono della morte. Ecco la differenza che lo separava dalla vita.

domenica 22 maggio 2011

La casa sul mare - 3


III
Corse accecato dal tetro presentimento. Vicino alla sedia del suo letto, un lago di sangue, e suo figlio con un buco alla gola ancora bruciato dalla pallottola, steso a terra senza vita.

Ora lui fissava quel vetro torbido, attendendo che il fragore del mare grosso gli riecheggiasse quella eco di morte che gli aveva strappato suo figlio. Perché ciò soltanto gli infliggeva quella pena da cui il suicidio lo avrebbe forse inutilmente salvato. Non cercava pace, né perdono, né altro, cercava il silenzio interiore di chi non è mai apparso a questo mondo.

Tragica fatalità, il responso della corte penale. Non era più nulla, non gli era rimasto più nulla. Nemmeno la colpa per aver lasciato che suo figlio fermasse il suo tempo a sei anni, lasciando lì inchiodata in quell’attimo tutta un’intera esistenza, tramutando i sogni in un epigrafe incisa su una lapide bianca. La pistola era stata ben conservata e nascosta, solo una stupida e tragica fatalità.

Era innocente secondo i canoni della civiltà umana, lindo, immacolato, il mondo gli consentiva di proseguire i suoi giorni come più egli gradiva, come se nulla fosse successo. Si era soltanto distrutto il suo unico motivo di vita.

La moglie andò via portandosi via con sé presente e passato, ricordi ed oggetti, lasciando che il futuro restasse a marcire solo per lui, per sempre prigioniero del fetore di morte di cui erano intrise le decrepite pareti della casa sul mare.

Qualcun altro al suo posto avrebbe pensato che un altro ridondante urlo della sua rivoltella, od un qualsiasi altro metodo di azzeramento di quei giorni inutili, sarebbe bastato per porre a compimento la deviazione che la vita aveva sancito per lui in quel giorno maledetto. Ma no, sarebbe stato troppo facile, la sentenza vera e propria non era ancora stata emanata, l’attesa prima del capestro sarebbe potuta durare ancora molto a lungo.

Depauperato della sensibilità attendeva, mite e freddo, che proseguisse quella miseria.
Mentre annegava nel suo nulla, all’istante sentì ridere, ed all’improvviso ricordò di possedere quella carcassa abbandonata dalla peluria canuta e senile, riuscendo persino a decifrare in quei suoni lontani un genere di sensazione a cui non ebbe modo di collegare un significato preciso. Credeva d’aver rimosso l’esistenza di tali versi che s’erano estinti dalla sua memoria dacché non li avrebbe più intesi sulle labbra e sulla gioia del suo bambino.
Ma qualcosa forse c’era ancora nella baia. Forse non tutto s’era riempito di morte.

Quasi senza volersi separare dalla seggiola carceriera che pativa la sua presenza addosso, si trascinò via in accenni di quelli che rimembrava si chiamassero passi. Si sentiva, si sentiva respirare, sentiva la presenza del suo corpo, dei suoi organi, del cuore che pompava il sangue che percepiva scorrere attraverso il suo corpo. Scoprì d’aver fame e sete, da quanto tempo non aveva inserito alcunché nei cunicoli dell’addome…

Scoprì la puzza che lo circondava, capì cosa fosse il sentore del disgusto, ma non s’accorgeva che molto emanava da lui stesso.
Aprì la porta della casa sul mare, alla ricerca di quel suono improvviso che lo aveva destato. Scoprì un mare che s’infuriava ai piedi di un cielo torvo con nubi dai contorni squamosi che accludevano ampie porzioni d’azzurro. Tutto intorno c’erano ammassi di travi in legno e carboni spenti di un fuoco che aveva arso lì vicino. Immerse i suoi piedi nella cenere e sollevando polvere e sabbia, scalciò via un passero morto che si consumava tra i carboni.

Osservò la presenza di un blocco di tufo nel silenzio interrotto dal mare e dai gabbiani. Il suo tremore nell’inetto cammino non gli permetteva di indugiare a lungo in piedi. Si diresse verso la pietra sabbiosa per appoggiarsi a scrutare quello scenario che gli si manifestava dinanzi. Le gambe subivano nel piegarsi uno strano turgore, una tensione rocciosa penetrava dalle caviglie per cementargli le membra ogni volta che un’onda si scagliava violenta contro la riva esacerbando il fragore del suo impeto.

C’era un’eco in quell’infrangersi che ancora lo atterriva, come unico contatto con l’esistenza, sentiva quei rigetti del mare come una frusta arroventata che impattava inferocita sulla sua coscienza… sentì qualcosa toccare il suo piede.
Eccolo, il patibolo forse si stava approssimando.

sabato 21 maggio 2011

La casa sul mare - 2


II
Era lì che un tempo sua moglie e suo figlio d’estate lo attendevano a pranzo.
In quello stesso tempo remoto, lui attendeva con ansia che il suo turno mattutino da guardia giurata finisse per raggiungere quell’ameno tugurio, e riabbracciare suo figlio impaziente di cavalcare le onde.
Uno sporco ma accogliente scantinato del paradiso, infestato da sorci e immondizia erano quella casa e quella spiaggia degradata. Un paradiso vituperato e scalfito dal risentimento e dall’invidia degli altri abitanti di quel litorale.

Più volte i vetri della casa erano stati ridotti in frantumi, e minacce più o meno celate pendevano su quella casetta, costruita troppo a ridosso della battigia da suo padre tanti anni prima.
Suo padre, anch’egli era pescatore, come tutti gli abitanti della zona. Si vociferava che presto sarebbero giunte le ruspe a radere al suolo quell’insediamento di gente semplice che si preoccupava soltanto di perseverare la pacata ed indifferente esistenza, sempre identica nel tempo.

L’idea di un villaggio turistico avrebbe rimosso quella speranza di conservazione. Ruderi decadenti e irregolari, abusivi, patrimonio inalienabile di gente che viveva del mare. Mietuti come fieno infetto dalle orde e dalle promesse del progresso.
Tutte destinate al macero tranne quella piccola casa sul mare, troppo antica, primogenita di quella triste prole muraria, diritto acquisito reso intoccabile dalla sua prolungata inutilità, e dalla sua posizione troppo poco appetibile all’avvento del nuovo e del moderno.
Tanto bastava a disseminare odio verso quell’intonaco divorato dai muschi e dalla brezza. E verso le anime che da quel giaciglio malandato traevano un mite gusto dell’estate.

Quel tragico pomeriggio di fine agosto che restava inciso tra le sue palpebre perse nel vuoto, il mare pareva indisposto a coccolare la voglia di vivere del suo bambino, e mentre egli riponeva piano la camicia della sua uniforme sulla sedia accanto al letto, il bambino piangeva. Via via più forte.

La canoa era arenata a qualche metro e da solo non sarebbe riuscito a governarla tra le onde. Il mare era agitato, ma la vita lo era di più, doveva cavalcare quella furia la sua irrefrenabile infanzia, così avrebbe avuto un senso. Quel giorno si sarebbe spento per suo figlio se egli avrebbe mancato all’appuntamento col mare, e l’infanzia avrebbe ceduto ancora una volta il passo al diventar grandi, attraverso una triste rinuncia.
Piangeva, strillava e non conosceva ragione. Non aveva mai picchiato suo figlio, era sempre stato buono il suo piccolo, non ce n’era bisogno. Ma sua moglie mal sopportava quegli strilli isterici, soprattutto se immersi tra quell’odiata noia di un deserto di civiltà nel quale il marito la costringeva ogni estate. Il mare era più oscuro quel giorno e la canoa non sarebbe rimasta a lungo in superficie.

Avrebbe ribadito il suo no, era troppo pericoloso. Ma il piccolo non s’arrendeva, doveva solcare le onde con il padre con la loro canoa. Piangeva, strillava, imprecava.
Iniziarono a levarsi urla dai caseggiati vicini, i pescatori non tolleravano quel fracasso, nelle poche ore che potevano concedersi il sonno prima di affidare vite e speranze alla mercè delle correnti marine. Intimavano al padre di zittire quegli strilli sempre più rochi.
Cominciarono a piovere insulti, e si stava innescando l’ennesima lite. Sotto gli occhi straniti e annoiati della moglie.

Una scena già viste mille volte, che si sarebbe risolta con il solito scambio di insulti. Il vecchio pazzo della casetta contigua alla casa sul mare, stavolta però pareva fin troppo nervoso perché sparò persino due colpi di fucile in aria.
A quel minaccioso incedere del vecchio confinante indiavolato, ad egli bastò guardare il viso atterrito e spaventato del suo piccolo prosciugato di ogni lacrima per il terrore che lo aveva scosso per gli spari, per riscoprire il sapore della rabbia. S’avventò contro quel vecchio dissennato armato di fucile.

Non s’accorse che lo sguardo atterrito del piccolo spaventato era diventato lo sguardo dell’odio che segue alla paura.
Era già qualche decina di metri lontano dalla casa sul mare, pronto a tutto per porre fine a quella spropositata minaccia, quando alle sue spalle, udì l’urlo fedele e lacerante della sua pistola d’ordinanza.

Un istante straziato, seguito ad attimi di tragico silenzio.
Poi le urla disperate di sua moglie che lo chiamavano.

giovedì 19 maggio 2011

La casa sul mare


I
Sedeva saldo, accostato a quella grande finestra serrata da tempo.
Il suo braccio destro giaceva grave sul freddo davanzale di marmo, immobile; il sinistro pendeva indifferente e le dita di quella mano tentennavano lentamente, ostentando un’opaca presenza di vita, quel che n’era rimasta e non accennava a distruggersi, perseguendo invano una secca e sconosciuta vendetta contro un rimorso amaro che lì lo aveva esiliato.
In un miserabile stato, che pochissimo sapeva d’umano.

I vetri luridi si rifiutavano ormai di riflettere l’impressione del suo viso, né permettevano allo sguardo di eludere il suo castigo, neanche per un istante. La luna del fresco cielo notturno non avrebbe mai avuto accesso in quella buia tana, per consolare chi si consumava in un letargo eterno.
Tutt’intorno aleggiava un’aria fosca, satura d’insopportabilità, di rassegnazione, di mestizia; il pendolo appeso alla parete ingiallita, che di là si confondeva alle sue spalle, non osava più cercare il coraggio per scandire gli attimi di un tempo defunto, relegato ai ricordi in cui tutto si era lì fossilizzato.
Tutto si sospendeva e forse la vita, dormiva, senza sognare, né reagire, e la notte avvolgeva la casa con straniera indifferenza e ripugnanza: le stelle non ardivano spiarla per non recarle offesa o disturbo. E il mare, che s’abbevera sazio e non pago delle intangibili lacrime che la reietta violenza scagliava disperse, riposava spesso quieto contemplando la noia che l’empio vento riusciva a sfiorare, per non carpire ancora dolore e angoscia.
Occhi sguainati dall’esistenza che non trovarono la via di riaversi al profumo del sole, non avevano incontrato ancora faccia a faccia il destino che leggesse loro la sentenza che avrebbe sancito la risolutiva condanna.

Ansimava. Il fiato singhiozzante non aveva più lacrime da disperdere alla mercé delle onde.
Espirava.
Confondendo al respiro un’enorme brama di liberazione da quell’affanno asfissiante, dal quale immaginava di separarsi piano, lungo piccoli passi di salvezza tracciati per lui dalla prudenza di essere, che l’avrebbero avvolto di pace, spogliandolo dalla carceriera memoria di uomo errante, adagiandosi nel breve ristoro della sua debolezza, pago dell’insulsa dimensione finalmente lambita.

Una meta silente ove l’ozio della ragione e dei sensi era bottino sopraffino ricchissimo, al riparo dal vento, il suo naufragio si sarebbe così tacitamente arenato, nella baia dove non albeggiava mai estate, dove la follia di petali secchi di una primavera remota non avrebbe sussurrato l’abbaglio dello strappo che lo spogliò della sua anima.
Poi inspirava. Tanto e tanto forte. Con furia. Con rabbia. Con realtà. Per assorbire in sé quella cappa di piombo che gravava minacciosa, immergendo sempre più in fondo ai suoi polmoni, alla sua milza la sua colpa, e l’atroce condanna di cui egli sempre volle recitare il copione del boia più spietato; ma… se l’umana viltà avesse fatto mai capolino sorretta dall’orgoglio, dalla dignità, dall’infernale sentirsi di sé, dagli inganni meschini di un mondo che aveva forgiato il male covandone il seme nel suo seno protetto, che l’avrebbe accompagnato verso un tramonto improvviso cui non sarebbe seguito alcun giorno bensì una notte che in un attimo avrebbe annerito d’ombre l’idea stessa del tempo impercettibile, che avrebbe cancellato tutto senza preservare la via da cui la vita sarebbe potuta tornare accanendosi nell’impedire ogni ritorno possibile, allora egli rigettava fuori dal respiro ogni cosa. Per poi ritornare al patibolo, quasi s’allontanasse da sé per essere parte del fumo ansante che divorava la sua insulsa presenza, che aveva per sempre escluso la vita dalla casa sul mare.

Nulla poteva racchiuderlo in categorie umane. Tranne quel trascendente castigo che s’era cucito addosso con le mura di quell’umida casa. Neanche l’ufficiale vessillo di una colpevolezza acclarata e pronunciata da un giudice. La colpa è pur sempre un abito sporco che tiene ancorati all’esistenza, è l’idea di una presenza dai precisi connotati scalfiti dai giorni vissuti.

Quella casa sul mare era tutto ciò che gli fosse rimasto dell’eco dei ricordi. Un tempo era stato un delizioso appoggio di fortuna per le vacanze, piccolo e scomodo, ma prezioso rifugio di pace, in un villaggio di pescatori che vivevano delle fecondità del mare.

mercoledì 22 dicembre 2010

Immobilità - chapter 4


Ancora una volta, in quegli occhi, si rinvenivano i tratti di un dipinto fatto di colori, adesso completo di una nuova presenza, in basso, nel lato opposto a quello in cui lui era relegato, ancora, e vi era anche quella donna, adorna di una bellezza che il tempo era riuscito a portarle via, che spasimava, triste, i suoi sguardi erano rivolti in alto.
Perché quell’incontro rispolverava vecchie immagini sepolte, che sembravano generate dalle riga del libro che aveva visto nella libreria?

Com’era fragile la resistenza illusoria che impediva alla sua coscienza d’emergere così vendicatrice dal confino in cui era stata relegata dalla vergogna.
Abbassò gli occhi ed ebbe una risposta, che forse la percezione inconscia aveva trovato già prima, ma che la sua persona non capiva, per i continui ostacoli che poneva tra sé, e la realtà che non poteva, o non voleva riconoscere, per una giusta paura.
Ecco ciò da cui un giorno era fuggito, ecco ciò che lui spiava alle sue spalle nel dipinto, per ingannare se stesso e la sua solitudine.
Mai più s’era voltato, dopo l’ultima volta, ad ammirare un mondo ricamato d’armoniose tinte celesti a cui aveva dato tanto, ma da cui non accettava nulla, nemmeno parole che dovevano incoraggiarlo a non spiare più oltre le sue spalle, ma a lasciarsi abbracciare dalla vita.
Lui fu capace solo di disprezzo, per timore di se stesso o per orgoglio, o per incapacità.
Mai l’aveva rimpianto.

In piccoli istanti che avevano la forza di centinaia cristalli di ghiaccio pioventi, sembrarono tornare a vivere due figure strette nel freddo, che nel gelo del passato erano rimaste scolpite, sotto i riflessi di una luna estranea che zampillavano sul lenzuolo di quel fiume, che entrambi solcarono su di un rumoroso battello, e che lei, quella donna non più ignota, coprì di gemiti silenziosi, gocce di un sibilo eterno, emesso dall’indimenticabile volto dei rimpianti, che diventava forse sincero con le sue illusioni, sapendo che quei momenti sarebbero rimasti lì, perle incastonate di quella notte lontanissima, che adesso, in quel viale immerso nell’inverno misterioso, stava ricominciando per loro, per altri deboli istanti ancora.

Lui le volle bene, semplicemente come emblema di ciò che anche lui avrebbe voluto essere, con la consapevolezza che sarebbe stato impossibile diventarlo. Rideva, rideva, il giovane professore, quando lei sosteneva che sarebbe stato un’amicizia eterna, un legame lungo più dell’età, lo diceva nei pochi momenti in cui sembrava che ciò fosse davvero realizzabile.
Ma lui conosceva l’orda distruttrice del tempo.

L’ultima volta che s’erano visti, mentre lei lo salutava con un “arrivederci” pur sapendo che ciò sarebbe avvenuto chissà quando, dopo un commiato che sapeva tanto d’addio, lui, consapevole la lasciò, annunciandole che se il destino li avesse fatti rincontrare, lei non l’avrebbe nemmeno riconosciuto.
Il tempo, li avrebbe uccisi entrambi, trasformandoli da come essi si ricordavano di essere.

Si era voltato, dopo che ebbe pronunciato quelle parole, nascondendo nella voce le lacrime che le spalle occultavano.
In tutti quegli anni, una volta sola, senti il bisogno di comunicare con lei, le scrisse così una lettera dove le rivelava dove viveva, dove insegnava, e che era felice, soddisfatto, menzogne che dovevano illudere entrambi.

Adesso quella lettera era posata di nuovo dinanzi a lui, ad esigere il fio per quelle menzogne, di cui s’era fatta messaggera anni addietro.
Lei, era madre, doveva esser anche moglie, ed era lì. Forse non l’aveva riconosciuto.
Forse per caso era lì, a confondere una realtà colma di finzioni, forse per condurlo, come un tempo, verso la vita, tendendogli quel nastro salvifico, nonostante anche lei sembrava giacere in basso adesso, nel dipinto dell’esistenza, anche lei vittima della speranza, una speranza di cui da giovane parlava con ardore, ma di cui ora non ne comprendeva più né il linguaggio né tanto meno le promesse.

Ed era triste, come in verità era sempre stata, in quell’ultimo attimo che il destino offriva loro.
La donna salutò l’estraneo con cordialità, per sempre, ma i ricordi non seppero più allontanarsi con lei.
Lui non rispose al saluto, si voltò di spalle, quasi rannicchiato su se stesso e i suoi occhi la spiavano allontanarsi nell’infinito, che forse lei aveva ancora volontà di conoscere. Che cosa sentiva di poter meritare da lei? Nulla, come nulla meritava quando erano entrambi ragazzi, quando lei gli sedeva accanto, e dal nulla gli diceva di volergli bene. Lui non le credeva. Non avrebbe mai creduto a nessuno che avesse mai detto di volergli bene, non avrebbe creduto ai sentimenti di nessuno nei suoi confronti, neppure se questi si potessero toccare, vedere, assaporare, e godersene fino in fondo.

Eppure lei pensava ancora che ci potesse essere qualche via di salvezza, perché? No. Non poteva essere così. Ma se invece lo fosse? Come avrebbe potuto non riconoscerlo?
E se invece fosse stato lui a non voler essere riconosciuto? Perché sempre egli aveva agito come credeva, e lei sempre aveva rispettato ogni cosa, pur soffrendo un terribile distacco che i suoi sentimenti non meritavano. E forse anche questa volta, questa ultima volta, è stata come sempre la stessa cosa, e lei, e lui, avrebbero accettato e patito allo stesso modo, senza pensare che fosse possibile cambiare il corso della storia di entrambi.

Pur ferito come da una lamina rovente, il professore che fino a quel pomeriggio uggioso credeva d’aver vinto, soffriva, per non essere mai stato anonimo al mondo come invece s’era illuso di essere,
Colui che lei cercava, esisteva ancora? Non l’avrebbe mai più saputo, perché era svanito con lei, nei ricordi, nei sensi di colpa, e nelle attese di quella donna.
Come le disse quel giorno, è stato poi per davvero.

In ogni caso, riconobbe che quella era l’ultima punizione che s’era inferto, sapeva che non avrebbe nemmeno meritato che lei lo riconoscesse, la vita lo puniva, esimendolo da quei sentimenti che lui non volle conoscere e che stimava troppo poca cosa per estinguere la colpa di esistere. E lui stesso era conscio di non aver mai vissuto, mai però la vita gli era passata tanto vicina, quanto in quel momento, offrendosi come ultima scorciatoia per rifiorire, dimenticando le macchie di un passato fin troppo mescolato al presente, denso di vergogna, e lui, quella vita, l’aveva lasciala andare oltre, senza catturarla.

Avrebbe continuato, nel disgusto di un copione che sembrava recitare identico ogni attimo, da sempre. Sarebbe tornato a casa, come se nulla fosse accaduto. Pronto a ricostruire quel fragile equilibrio di sopravvivenza, sospeso tra i due estremi di ricordo e speranza, ma che non avesse nulla né dell’uno né dell’altra, solo, murato vivo dal presente.
L’indomani avrebbe riscoperto il viale che s’affacciava sulla valle, avrebbe riassaporato le scene delle sue remote origini, si sarebbe recato nella libreria. L’avrebbe fatto soltanto con un indelebile rimorso in più da nascondere nella sua invecchiata marmorea espressione, e si sarebbe ancora di più ingannato dicendo, che in fondo, era quanto meritava, la sua colpa.

I monti pacati erano ancora prede del buio, le piccole luci tremanti come stelle in agonia cadute e stesesi al suolo, al freddo, sonnecchiavano appena.
I picchi lontani sarebbero rinati all’aurora, quando la mattina avrebbe ridipinto ogni cosa identica a come s’era assopita al tramonto, per un altro giorno in più, con nuovi sgualciti ricordi da riporre con cura negli stipi serrati, e una strada da percorrere al pomeriggio.
Sarebbe rinato identico il mondo anche per lui, che poteva solo immaginare da qualche parte oltre le colline, l’umanità vera e lontana che stesse brindando alla vita, nonostante non riuscisse a non credere, che nei preziosi calici che l’esistenza generosamente offriva nel meraviglioso convito, non ci fosse altro che nulla.


[the end]

lunedì 20 dicembre 2010

Immobilità - chapter 3


- Mi scusi - esordì la donna con voce ansiosa, abbassando celermente il finestrino della sua vettura, mentre accostava nervosamente ai margini del marciapiede. - Sa dirmi la strada per raggiungere la stazione? -

Il professore percepì quelle parole pronunciate velocemente, con un tono molto strano o camuffato, come se fossero usate per nascondere delle menzogne senza avere la capacità di mentire, anche se lei lo faceva con molta innocenza e paura, come una bambina che si rivolgeva con ingenuo inganno ai genitori.

Ebbe subito la sensazione che la donna avesse più anni di quelli che dimostrava.
La pausa che seguì la precisa richiesta fu interpretata dalla donna come dovuta alla raccolta delle informazioni necessarie ad esaudirla. Invece il professore restava a fissare qualcosa che aveva catturato la sua tensione, che si agitava alle spalle della signora, un giovinetto che al massimo avrebbe potuto avere quattro anni dallo sguardo severo e beffardo allo stesso tempo, scurissimo di capelli, che si dimenava forse per impazienza di un viaggiotroppo lungo come evidentemente le valigie ammassate rivelavano.

Quasi basito nello scrutare il volto di quel fanciullo dall’aria euforica, ma stranamente familiare, continuava a tacere.
- Perdonatemi signore, ma... - irruppe spazientita la madre di questi come per mettere ordine a quelle circostanze e pensieri che s’erano affastellati di colpo nella mente del professor R., esibendo tutta l’ansia che provava e che non riusciva camuffare.
Egli rinvenne confuso e indicò lentamente il percorso osservando la strada che avrebbe dovuto attraversare, come se stesse scoprendo quella via adesso per la prima volta.
La donna prestava attenzione, ma la sua aria non convinse il professore che dopo aver indicato la strada, indugiò in silenzio, non scorgendo nessun segnale d’appagamento in quel volto, che sembrava avere nel buio una collocazione naturale e spontanea come quella della luna o delle stelle. Forse il professore si aspettava ancora qualcosa, qualcosa d’insolito che non tardò ad arrivare.

- Mi scusi ancora, è lontano il liceo... - mentre cercava di ricordare qualcosa che le sfuggiva, prese un foglio molto stropicciato, che dimostrava d’essere stato letto chissà quante volte, dalla sua borsa e, leggendo tra quelle righe, sembrò calmarsi lentamente come il vento che s’intorpidiva sul mare. - ... il liceo classico “C. Pavese” ?

Il professore sibilò soffocato e incredulo; ebbe un evidente sobbalzo, come se avesse ricevuto un poderoso pugno nello stomaco, al sentir pronunciare il nome dell’istituto dove aveva insegnato per circa quattro anni e che da tre ormai era scomparso nell’attesa di essere riedificato dopo il terremoto che lo aveva distrutto. Un imprevedibile tuffo nel suo imminente passato, che per la prima volta gli si parava dinanzi, l’ultimo dei suoi rimpianti veniva così sobriamente evocato, mentre spalancava senza pietà il cancello da cui un torrente di rimorsi sconfinò nella coscienza, ed un tifone di rabbiosa afflizione eruppe violentemente straripando ovunque.

Si sentiva avulso da quanto accadeva in quel momento, isolato da tutto, senza significato, incomprensibile, ove la notte assurgeva a nido incombente da cui partoriva ogni illuminazione insensata e senza vita, ove trionfava mostruosamente l’espressione di quel bambino che continuava ad agitarsi, che si muoveva sempre più avidamente, sempre più rideva come se si stesse dilettando a vederlo travolto in quel vorticoso tumulto di follia, come fosse proprio quel moccioso a manovrare la sua coscienza a lungo immota, adesso strapazzata come una pagina nivea, mai scritta, in preda alla bufera.

- Si sente bene? Ha bisogno d’aiuto? - la donna si rese conto che il professore ebbe uno strano mancamento e sudava parecchio, e mentre s’affrettava ad uscire dal veicolo per aiutarlo, il professore si riebbe immediatamente e con un cenno, seguito da un rassicurante sorriso, respinse cordialmente l’assistenza della signora, per ricomporsi immediatamente.

- La scuola, è chiusa...è crollata tre anni fa... il terremoto… - emise quelle parole sciorinando in esse lo spirito dei ricordi angosciosi legati a quell’evento, vittima com’era di quell’inspiegabile confusione.
Qualcosa non andava, era evidente, come se qualcosa che lì si trovasse non doveva esserci affatto adesso, come se appartenesse ad un altro tempo, ad un altro mondo, e fosse lì a sconvolgere il suo, coinvolgendolo in quello sconcerto. Era forse il bambino? Ma cos’era, un diavolo nei panni di quel moccioso fremente?
- Peccato... mi dispiace, davvero - sospirò una delusione che dissipò tutta l’ansia accumulata, il che poteva indurre a pensare che alla donna la stazione non importasse granché, o non abbastanza quanto la scuola. Si sentì in diritto di sapere.

- Posso sapere, perdonatemi, perché cercavate l’istituto? - provò in ogni modo a non tradire un interesse personale nella sua domanda, per farsi sentire, e sentirsi, del tutto estraneo alla faccenda.
- No, niente, ci tenevo a salutare una persona che……Giuseppe! Basta! - urlò rivolta contro il birbante alle sue spalle, con un’energia ed uno sdegno di cui non la si sarebbe ritenuta capace. C’erano stati attimi in cui quel ragazzino aveva arrecato disturbi maggiori, e la madre l’aveva ignorato, forse perché fin troppo assorta in un pensiero dal quale ora restava svuotata dalla delusione, o forse il disturbo era solo un fastidio che quel bambino arrecava con la sua semplice vitale presenza, tanto difforme dal clima torbido che si stava vivendo. La donna, scaraventò sul sedile accanto al suo il vecchio foglio che non aveva mai posato fin da quando lo trasse fiori la prima volta, e le sue parole divennero traboccanti di tristezza.

Tutto, era triste, in quella donna.
Quei sospiri d’ansia, le mani, piccole piccole, che poggiavano sul duro volante, l’aria stanca sul viso tondo e delicato dalla pelle chiarissima, quei lineamenti che sembravano carpiti da una statua effigiante una qualche divinità greca, e tanto più s’avvertiva quest’impressione di tristezza, quando stringeva le docili labbra in un disappunto arrendevole che, nel poter accarezzare quel viso, avrebbe reso tangibile a chiunque quella tenerezza. Poi... gli occhi, erano tristissimi, le pupille muovevano lentamente mentre offrivano a chi adesso le fissava, una luce fatta di gratitudine e perdono, come se si fossero misteriosamente accorte del disagio che il professore stava provando, e lo condividevano. Quasi ne conoscessero persino i motivi, finanche fossero andati a scrutare nell’anfratto più depresso per apprendere un segreto, che adesso tenevano esposto tra le palpebre, in un’espressione di pietà e di conforto, e volessero dirgli “Non temere, il tuo mistero morirà in me ad un batter di ciglia”.

I suoi occhi erano talmente lontani da lei, come se fossero appartenuti ad un’altra espressione, forse di una vita che giaceva sepolta in un qualunque angolo di lei stessa, che sopravviveva agli anni, e che il professore sentiva tanto vicino alla sua intimità molto più di quanto non fosse la persona che gli era di fronte.

Improvvisamente il professore si sentì tradito senza capire da cosa o da chi.
Dove aveva già ravvisato quelle sensazioni d’oltraggio, che demolivano in un istante la sua falsa e malferma perspicuità?


[to be continued...]