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giovedì 22 marzo 2018

Mattoni

La voglia di scrivere mi ha preso mentre faccio un back up di un database per estrarre dati con SQL.

Questa è sostanzialmente la grande contraddizione di una vita merdosamente bugiarda. Relegare la voglia ad una fessura tra un mattone ed un altro. 
Finché qualche mattone non casca e ti frantuma l'alluce.

Da qualche parte tutto questo furore deve trovare una via d'uscita. Esisterà una illusione più duratura su cui poggiare la necessità di risparmiare se stessi all'atroce di destino di sentirsi un ingranaggio senza molta importanza sul cui capo poter pisciare senza alcuna coscienza?

Quando questa illusione era la voglia di pace, di stabilità e la rincorsa furente verso la normalità, questa epifanica rincorsa raccoglieva tutte le macerie facendone un ponte che si costruiva verso una direzione, una lotta, un senso per cui vivere.

Poi l'approdo. Poi il nulla.
Poi la gabbia senza serrature, spalancata, ma avvolgente, senza lati e pavimenti, senza soffitto, senza corridoi, senza spigoli a sancirne l'inizio e decretarne la fine.

Poi la telefonata che mi chiede di riaprire una piccola oasi verso quel mondo probabilmente e inconsciamente ripudiato dove le sbarre eterne che si perdono alla mia metalmeccanica vista, si ritravestono da rovi da insonnia permanente. Con la puzza dell'erbaccia selvaggia, con la merda di un'insoddisfazione che, cazzo, ci rendeva liberi e infiniti. E le pioggie di lacrime avare, di singhiozzi sotterrati che bruciavano dentro una camera dove adesso non riposa neanche una spiga di graminacea avariata.
Quelle notti senza tregua, con una rabbia che scavava dentro i condotti dell'inspiegabile che divorava i minuti rincorrendo e mandando a fanculo le alzatacce e i richiami di un mondo abissalmente distante e senza importanza.
Quando mancavi tu, e l'insignificante meravigliosa voragine che hai originato in questo animo senza riparo e senza sostanza.
Tu che rappresenti l'epilogo di ogni premessa che tenta di rabberciare l'esistenza in poche frasi che possano emanciparla dalla sua acclarata inutilità.
Tu che sei lo specchio nel quale vado a riprendere immagini di ponti e vallate, di arcobaleni e banchetti tra i profumi dei fiori, e le primavere senza solstizi a invertirne le rotte, e venti che solo accarezzano e non conoscon la furia, e parole spente, ed abbracci senza voglia di disciogliersi... e i soliti racconti di questo sentimento senza contorno, senza dichiarazione alcuna, libero da promesse e doveri, da resoconti e serrature dalla toppe polverose.
Così libero da isolarmi in questo silenzio da te che vivi in una lontananza che è il tuo mondo per me inaccessibile. 
Così libero da impreziosirsi di tante, tansissime cazzate asservite alla costruzione di un altro equilibrio tra la tua instancabile fuga, e la mia caparbia e silenziosa attesa di poterti incrociare in fondo a chissà quale vicolo di questa insondabile e incomprensibile vita.

E qualunque cosa scriverò saranno solo illusori mattoni di carta, gradini di struggente ansia infuocata, per costruire ponti protesi verso il nulla, dispersi verso direzioni sconosciute, alla sola ricerca di te.

martedì 13 febbraio 2018

Rastrellando a zonzo

Appunti per personaggi di un libro che non sarà mai scritto. Lungo un viaggio che rielabora la coscienza per poi terminare in uno schianto.
E quando passerà la polvere sollevata dall'impatto brusco, non resterà che nulla. Tutto resterà immutato. 
Esistono forze inscalfibili.
Occorre un fortissimo senso di colpa, profondo e inestricabile, per poter ammettere e sopportare immensi dolori.
La colpa può essere la salvezza che dà un senso al futuro, perché adisce alla riabilitazione, auspica una riconciliazione col male. Attende di essere riempito, il vuoto della colpa.
E senza la colpa, una colpa qualsiasi che possiamo sempre attribuirci a caso, non si riuscirebbe a dare un senso a tanto dolore. Si potrebbe perfino impazzire. 
Perché non sono solo scelte sbagliate, non sono le rinunce e i sacrifici vanificate dal destino. No, sono solo conseguenze della nostra natura che, alla fine, sembrano quasi giustificate, accolte, benvenute. Protette gelosamente contro i guizzi improvvisi di felicità inappropriata.

Eppure ogni istante la mia mente ti osserva e ti racconta parole inesistenti e sconosciute all'alfabeto della colpa. 
Trascorrerà del tempo per dare un peso a questa rivoluzione piccola piccola. Dovrà raddoppiarsi il tempo e la durata di questa speranza per soverchiare il vuoto imposto da questa colpa.
Si aggiungerà un solo attimo in più per vincerela resistenza della tua colpa.
E poi mi ritroverai in fondo a questa lunga strada, con un pochino di affanno, a rivelarti che, in fondo, valeva sempre aspettarti, qualunque fosse la strada.

martedì 25 agosto 2015

Rendez-vous avec la vie

Lo avevo chiesto a gran voce di star lontani dalla folla.

Ma non mi si è voluto dare ascolto, e per fortuna adesso ci troviamo qui, in un locale deserto. Ancora è mal di testa... è da questa mattina che non oso rivolgere le mie attenzioni impure e peccaminose alla volta della nimesulide che da sfoggio di sé accattivante e ammiccante, benevola e accondiscendente, disponibile a estinguere le fitte emicraniche; spiandomi come fosse inopinatamente distratta oltre il vetro della credenza, seduta dinanzi alla collezione dei bicchieri di cristallo. Accanto al termometro, alle pillole per la pressione alta, e ad argentei cimeli rimembranti ricorrenze più o meno rapprese nel loro plumbeo tenore teologico-mondano.

Cavare un'idea che abbia una larvata coerenza, ed indi si faccia carico di un qualsivoglia messaggio tale da rimestarsi proficuamente in una pagina, oggi è difficile, Monsieur.

Anche scrivere la parola "difficile" costa fatica. La fatica di un'affannosa spulciata nella semiotica della propria ontologica identità. Perché quella parola è imprecisa, e come tale bugiarda. E scrivere falsità è per me una violenza che si assomma già alle scenette grottesche che la penna celebra per riderci su. Di gusto, su ciò che sempre più appare come una fumettata vicenda non seria, questa lunga passeggiata che costeggia gli anni. 

Non è, in punta di verità, "difficile", è solo che non mi riesce più di manipolarli altrimenti questi pensieri. Forse è soltanto "diverso". Ma io non so più scrivere, non come mi piace. E di colpi ne sto perdendo parecchi ultimamente, Monsieur. Forse tu comprenderai cosa vuol dire ridursi ad incipit conservati per scrupolo come frammenti di storie che non saranno mai compiuti. Che quando l'istinto narrante viene pompato da un orgasmico impulso lo devi consumare in fretta, giungere al nucleo della fiamma che ha infervorato l'istante, afferrarvi con slancio i volti e le parole ed inchiodare il flusso nella teca di un racconto.
Ma finché redigi la cornice, la storia s'è già sgualcita e non ne vale più la pena.

Compunta ovviamente di parole inadeguate. Perché quelle giuste sono come limiti che tendono all'infinito. Quell'infinito a cui rende giustizia solamente il silenzio. Quello che rende le proprie parole straniere e allo stesso tempo talmente personali da potersene disfare pressappoco con indifferenza. A prescindere da quanto possano essere care a chi ti è caro. Non riuscire a liberarsene vuol dire essere incompleti. Essere incompleti non è un problema.

Ne convieni? Considererei il silenzio come la più pura delle forme di comunicazione. Chiudere gli occhi e avvicinarsi, sentirsi adiacenti e restarsi accanto senza necessitare d'altro, e senza domandare oltre. Uno scambio che non depriva e non inganna.
Prendiamo qualcos'altro, Monsieur? Un'altra birra e qualche inezia recante in sé adipose conseguenze per accompagnare la discesa giù lungo l'esofago del biondo liquido amarognolo. Ricominciamo daccapo.
Anche se ho appena finito il solito drink, e ancora sto frantumando in bocca i piccoli cubetti di ghiaccio. 
Uno dei piccoli e irrinunciabili piaceri che fanno orripilare i detrattori dell'acqua corrente.
Con la lingua approfitto per dirigere un cubetto a coprire la gengiva sottostante il premolare inferiore collocato a destra del mio viso rispetto a chi mi guarda. Perché mi accorgo che duole un tantino, quando mi capita di pensarmi.

I miei dieci piccoli irrinunciabili piaceri: dei cubetti di ghiaccio s'è già accennato; giocare con i sacchetti di riso o di farina, affondando le dita in quella morbidezza elastica, tralasciando qui biasimabili similitudini; suonare come un automa l'arpeggio di Is there anybody out there?; fare gli origami con i biglietti già obliterati dell'autobus; conservare tutto il conservabile come testimonianza inoppugnabile che su questo pianeta ci ho davvero messo piede pure io; avere le mani umide e i capelli bagnati; gironzolare da solo e salutare le persone soltanto con un cenno del capo e sorridendo, per evitare di fare figure di merda nel non ricordare i nomi; scartare con evidente soddisfazione i pomodori da un mio qualunque piatto; avere la "finestra sempre aperta" anche fino a notte fonda; e infine gli indovinelli che capiscono in pochi, soprattutto quando si legge di corsa senza soffermarsi più di tanto.

Siamo venuti quaggiù in quattro, era come se fossimo in tre, e tali si è rimasti nonostante la successiva addizione di ulteriori vispi commensali. Monsieur che siedi alla mia destra, hai ordinato un piatto di patatine fritte che io di norma, non dovrei poter mangiare. Ne assaggio qualcuna ma non vi si cosparga il sale, sono comunque a dieta. Domattina so già che mi sveglierò tardi e non correrò. Ma la mia è solo una morbosa curiosità di testare la tenuta dei bronchioli carbonizzati durante le ultime due settimane, mi si consenta di preservarvi un'illusione ancora a riguardo.

L'altra sera dopo aver cenato fuori torno a casa in tutta fretta, sotto le gocce di pioggia che si perdevano nella moresca chioma spettinata anni '50, rinfrescandomi con la loro sorpresa posata, e fresca. Volevo comunque andare a letto presto.

Pensavo, Monsieur, che sto riscoprendo un particolare gusto per i liquori secchi.
I fulmini illuminavano il cielo a giorno, infiammando per improvvisi istanti i contorni delle nuvole che suturavano il cielo come un cranio sbriciolato ricostruito a botte di gesso e saratoga visto dall'interno. Era da molto tempo che non mi abbandonavo sul cuscino del letto con un libro che non presentasse figure simili agli effetti del tasso di cambio giapponese sulla delocalizzazione in Cina. 
E l'ho ritrovato dilettevole quella sera. 

Ma quando qualcuno vuole sfottere a denti stretti il quarto cazzone che ci portiamo insieme imbevendoci passivamente delle sue varicose vicende senza soluzione di continuità, e mi sussurra un decontestualizzato e canzonatorio "che culo...", mentre la mia mente scorrazza altrove, vien facile per me, nel rinsavire dal sonnambulismo incedente, esprimere un parere disgustato sul fondoschiena della signora in stato di pre-obesità che riempie il campo visivo a me innanzi. 
E scusami, cazzo, se poi ridestandomi dal sabbioso abbaglio, esterno con voce moderatamente media-udibile il mio punto di vista sul quid di cui sopra, tale da intercettare torvi sguardi sospettosi dal marito di questa che deve avere inteso qualche sciagurato decibel del mio sommesso proclama. 
Che tu parli per quel che hai in testa tu, ma io ti rispondo per quel che ho in testa io, per la miseria... 

Vale per tutti, più o meno consapevoli, che chi ci fa star bene e chi più o meno ci comprende non è  altro che la proiezione meglio riuscita di sè... guardare dentro al cuore  e avvicinarmi al suo mistero  non come quando io ragiono ma come quando respiro. Ma non diciamolo ogni volta, le espressioni reiterate ne rovinano il senso. Sarebbe bello scoprire una bella frase, tratteggiare un bel pensiero, e dimenticarlo dopo un po'. In quel momento avremo scoperto qualcosa di noi e l'avremmo consegnata all'eternità.

Mi prende una stranissima voglia di ballare come intorno ad un ripetuto picchiettare di un dito medio della mano sinistra sul MI bemolle di un pianoforte scordato. Battendo i passi al suolo come un bicchiere che si rompe comprensivo del contenuto, che non si è sorseggiato per incantarsi a guardare l'alone interno lasciato sul bicchiere da ogni oscillata nelle nostre mani inquiete e sincere. Più della calma dipinta come la ceramica intorno agli occhi.

Monsieur. Che cosa vuoi che ti racconti? Un'altra storia.

Stanotte ho sognato Adriana. Indossava una lunga veste bianca; avanzava lungo la spiaggia. Avevo come l'impressione che la mattina di quel giorno in sogno fosse venuto giù un acquazzone impietoso; io stavo seduto su una poltrona a sdraio e le ho fatto cenno col braccio. 
Ma lei ha continuato a camminare come se non si fosse accorta di me, guardando fissa in avanti, e quando mi è passata vicino mi ha investito una folata di aria gelida, come un alone che si portava dietro.

A volte una soluzione sembra plausibile solo sognando. Forse perchè la ragione è pavida, non riesce a riempire i vuoti tra le cose, a stabilire la completezza come un forma di semplicità.
Ma poi domani, o un altro giorno, sognerò che passerà di nuovo vicina al mare e acconsentirà al mio richiamo e si siederà vicino a me. Poserà le mani sulle gambe con un gesto lento e languido, pieno di sensi, e guardando il mare mi indicherà una vela o una nuvola, e riderà. Ed io continuerò a ridere, mentre la guarderò; rideremo insieme, come l'esserci trovati ad un appuntamento.

La vita è un appuntamento, lo so di dire una banalità, Monsieur. Solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove. Magari capita che il primo saluto avvenga per caso, ad esempio a  febbraio, e nel posto più sbagliato, ma che importa... 

Il diritto, il rovescio... l'estate. Non so se ci si trova in un punto perchè l'esperienza ti ha portato per mano fin lì, non so se è vero che dal passato si impara la lezione come un vaccino. A volte sì, lo penso e lo confermo, altre volte lo disprezzo insieme al fascio secco di tutti i princìpi fasulli; più sovente lo ignoro. 
E allora spesso uno pensa: se avessi detto questo anziché quello, se mi fossi svegliato un giorno prima, se non fossi mai andato a letto presto, se non avessi temuto, se mi fossi fidato di più... Forse sarebbe stato lo stesso. O forse non starei neanche qui a raccontare questa storia. E ogni tanto racconto di una certa soluzione che tuttavia ignoro a qualche amico, raramente, bevendo un bicchiere.

Un appuntamento e un viaggio, è la vita. Fatta di percorsi sulla crosta di questo pianeta, che a sua volta si muove, ma verso dove? Ti sembrerò maniaco, Monsieur. Però a quel tempo io ero fermo, un momento di stasi e il mio tempo ristagnava in un pozzo di accidia. Con quella tranquillità di quando non si è troppo giovani ma non si è ancora troppo adulti, e si aspetta semplicemente la vita.

Ed al posto della vita, venne Adriana.

Talvolta indifesa e interpretabile che pareva di leggerle in volto il carattere di tutti i suoi momenti. E poi era bella, certo, ma questa non era una sorpresa: ma quel giorno mi sembrò di una bellezza assoluta, perché lì capii che non esiste bellezza al mondo superiore alla bellezza di una donna, tu mi capisci Monsieur, e questo mi accese una specie di frenesia.

La strada dietro di me fuggiva, davanti a me si apriva, e io pensavo alla mia vita e alla mia accidia, e a tutto quello che mi era stato detto. Frasi più nitide man mano che si procede lontano alla radice dei ricordi, e stranamente più fragili e tremule nel risalire fino a quel momento. Quando le prima parole son cariche di mistero, di un voler spiare tra le fessure dei propri vissuti, sospinti da una curiosità che poi si evolve e scende giù portando alla luce i reperti più celati, confidenze meno infrangibili, sensazioni più acute. E sempre meno descrivibili con l'alfabeto.
Mentre le parole più prossime stentano ad aggrapparsi alla mensole della mente, e all'esigenza di lasciarsele propagare per giorni e giorni nella testa. Come se si comprendessero già senza il bisogno di doverle riprendere, rispolverare con cura e ricercarne tutti i sensi per star sicuri di essere davvero felici a giusta ragione. 

E sentii, quel giorno, una specie di vergogna per non aver mai provato niente di tutto questo fino ad allora. Fu proprio così, una specie di rimorso, come una consapevolezza di mediocrità o di codardia.
Come quando si ha la concreta sicurezza di aver sì corso per milioni di chilometri, ma in maniera lenta e accidiosa attraverso una strada lunga, e senza ricordare alcun paesaggio.

Ed ora viaggiavo, con questa vita, su un'altra strada che non importava dove mi avrebbe condotto, con la compagnia di una donna bella e distante che fuggiva non sapevo da cosa, o che evitava non sapevo cosa: era una corsa che mi vibrava dentro e intorno lungo una strada vuota in mezzo alla Francia.

Accostai la macchina e mi fermai. Mi volsi e stavo per dirglielo... Ma lei mi mise un dito sulle labbra, molto dolcemente, e mormorò: "non essere stupido". E restrinse le sue labbra in un bacio mai dato.

Nel luogo del nostro appuntamento c'era uno stabilimento balneare con una fila di poltrone a sdraio. Mi sedetti e mi misi a guardare il mare. Sentii il campanile che batteva le dieci, e poi le undici, e poi la mezzanotte, le ore si facevano giorni, i giorni si facevano mesi, ed i mesi diventavano tutta l'immensa attesa che non sarebbe mai bastata.

Ah, tu mi hai fatto bere troppo, Monsieur, però in quanto a bicchieri sei una buona compagnia. Non ho la giacca e fa freddo, e una sigaretta non riscalda. Sai, a volte, quando si è bevuto un po' la realtà si semplifica, non occorre sclerarsi a coniare nuovi idiomi per riconoscere quello che proviamo. Si saltano i vuoti fra le cose, tutto sembra combaciare e uno dice: "ci sono". Come nei sogni.

Attendere, quella vita che che non ha alcun appuntamento col dovere imperativo, e che tuttavia non scappa come un codardo che non lascia tracce di sè nel mondo intorno stimato come un magazzino immanente per saziare le proprie voglie, deprezzando e svuotando ogni senso. 
Come a non voler essere responsabili dei propri affetti, dei propri gesti, delle sensazioni e dei germogli che si innestano negli altrui cuori, indipendentemente dal più ignavo dei propositi. Salvaguardarsi non è essere egoisti, è viltà. L'egoismo naturale come un fiume è l'esserci sempre in svariate forme che non affollano l'esistenza di chi si attende, pur non essendole mai lontano. 
La retorica della viltà invece è merda.
Un ammutolito lungometraggio di incontri che a lungo andare assomiglia più che altro ad un reciproco masturbarsi. Una feroce razzìa al termine della quale sputarsi in faccia non suonerebbe neppure stonato.
Non sono né un santo né un moralista, detesto appena con una puntina di odio qualunque cosa renda la vita volgare, brutale e sporca. E che spogli la dignità del suo valore, lasciando qualche livido breve che porta ancora i segni della paura e dell'insensibilità.

Attendere, e ritornare ardentemente al mio sorriso che a tutto questo non vuol pensare.
Attendere, come un silenzio nelle notti di semi-veglia in controluce, con gli occhi stanchi e l'animo gioioso. Attendere, e percepire che anche il sonno è vita, e non riposo. Attendere, scagionando l'anima dalla paura di non meritare, di esservi capitati per un caso avulso dagli intenti. Attendere e non domandarsi alcun perché. 
Attendere, e sentire per chi non c'è, quasi una solitudine.

Andiamo a casa. Fa freddo, e mi gira la testa. La radio passa Aida di Rino Gaetano. Non c'entro assolutamente nulla con la maggior parte di questo teatrino di nuvolette. La sceneggiatura degli ultimi minuti appartiene già ad un film che non mi riguarda, i figuranti si predispongono per un ciak nel quale non siamo stati scritturati.
Scrivere... è una forma di presidio per i propri dilemmi e insieme l'esigenza di correre incontro. 
E devo andare a pisciare.

Ma a te interessano le storie altrui? Forse anche tu, Monsieur, devi essere incapace a riempire i vuoti fra le cose? Non ti sono sufficienti i propri sogni?

Adoro quando sorgono le amenità prodotte dai meandri della mia fulgida immaginazione.
Altresì spontaneamente da non esigere che si vada a sbirciarvi...
Ci vivo di questi scatti. 
Ma mi odio anche un po' per questa medesima ragione, quivi scanzonatamente narrata.

giovedì 2 luglio 2015

Golden Age

Un tempo si guardava la scollatura, il colore degli occhi, e l'assenza di piercing e tatuaggi.

Oggi si guarda direttamente se c'è qualcosa d'oro all'anulare sinistro per evitare di perdere tempo.

Arriverà la Fornero anche per noi.

giovedì 25 giugno 2015

Tra qualche anno

- Sono contenta di rivederti Alcor. Davvero.

- Be' sì, passavo da queste parti e, dato che non hai cambiato numero di telefono, ho pensato di...

- Hai fatto bene. Mi fa piacere. Sì sì.

- ...

- Ti trovo in forma Alcor, sai?

- Embé vedi, le grotte, le arrampicate, il canyoning, la speleosub, il parapendio, i ponti tibetani...

- Ah... e per il resto come...

- Eh no, eh! Non ci provare! Non ti interessa nulla di me! E non provare a raccontarmi niente di te perché non voglio sapere che cosa è successo dopo! Va bene? Non voglio che ci raccontiamo niente! Altrimenti  me ne vado subito!

- O-ok. Come vuoi tu, Alcor, non ci raccontiamo niente.

- Brava.

- ...

- ...

- ... E quindi? Mi hai rimpiazzato? E lui com'è? Alto, magro, biondo. Aspetta... scommetto che è medico! Anzi no, è anche il figlio di un medico che ha ereditato la clinica del padre. Ed è pure glabro. E poiché ricorda vagamente che due secoli fa è esistita la lotta di classe pur ignorando minimamente cosa sia il proletariato, ha deciso di votare il Movimento 5 stelle, e ha convito anche te a votare per le parlamentarie per mandare tutti a casa i politici, giusto? Ed è pure vegano, vero?

- ...

- ... E dove andate in vacanza questa estate? In Australia? Be' sì. Vacanze in Australia. E dimmi, l'ha pagata la TASI sul mega-villone in brianza? Ha bestemmiato contro il governo? In effetti con quei soldi avrebbe potuto posare la prima pietra della nuova piscina, giusto. Oddio... No, non dirmi niente, non mi rispondere. So già tutto. Non mi interessa sapere niente. Non mi importa più nulla. Me ne vado. Ciao. 

lunedì 11 maggio 2015

As Alonso

Ora, se io andassi in giro a bordo di McLaren Honda capace di stritolarmi il cervello con una scarica elettrica da 600V, potrei anche io perdere la memoria per una settimana e ritrovarmi di colpo proiettato indietro di 20 anni.

 – Buongiorno Alcor, sei sveglio?

– E chi è Alcor?

– Sei tu.

– Come scusi? Dove mi trovo, chi siete voi?

– Stai tranquillo, va tutto bene.

– Dov’è Artù, il mio gatto? Che cosa è successo, e cosa sono tutti questi peli? Ma guarda… e qui? Che fine ha fatto il mio prepuzio???

– Cosa ricordi Alcor?

– Tra un mese devo cominciare il liceo, ho già cominciato a studiare latino, spero che non abbiano trovato i giornaletti porno che ho nello zaino. I miei amici hanno cominciato a fumare... Coglioni…. è già estate? Bene! Vado a vedere la costellazione dello Scorpione e voglio trovare anche M3 nel Bootes. Un giorno farò l’astronomo. Che bella quella camicia nera, anche io sono fascista,  lo sa? Metti un cd dei Queen, per piacere,  voglio sentire Radio Ga Ga.

– Hai altro da aggiungere alla tua giovinezza di merda, Alcor?

domenica 15 giugno 2014

Un etnologo all'Esselunga

In un qualunque supermercato, non-luogo, in Brianza. Reparto cosmetici e affini.

- Sto guardando un attimo... non trovo i preservativi di taglia XL....

- ...

- Ah, mi scusi signora, l'avevo scambiata per la mia compagna.

- ... (più sguardo schifato)

giovedì 27 febbraio 2014

lunedì 28 gennaio 2013

Il peso del fumo

Avevo smesso circa un mese fa. Niente più monete da introdurre in quelle maledette macchinette self service delle stazioni di servizio.

Niente più mal di gola appena svegli. Qualche scrocco qua e là. Persino la voglia di tornare a correre e darmi un tono.

Stamane invece ci sono tornato, da lei, dalla mia sigaretta..Ci sono tornato tre volte. Complici un paio di notizie incoraggianti da dover immediatamente condividere con qualcuno e allo stesso tempo con nessuno. 

Perché è questo, in fondo, una sigaretta. Lasciarsi andare a qualcuno e nessuno allo stesso tempo, arginando ogni intento di cedevole donazione.

Ci sta, dopo una separazione recente. Come quando molli da poco una che ha condiviso una buona parte del tempo della tua vita. Dopo un po' vien voglia di tornare per brevi isolati istanti, per appagarsi un po' mediante essa. Perchè la brusca interruzione crea qualche scompenso, e malgrado la voglia di liberartene, di spegnere quella persona dalla propria vita, può essere faticoso rinunciare a quelle scopate garantite.

E allora magari ci torni, dopo un po', per l'ultima volta. Magari col pretesto di dare a quella dimensione una possibilità di resuscitazione, che non è altro che mero istantaneo usufrutto.
Tenendoti stretto un piacere vissuto con qualcuno e nessuno allo stesso tempo.

E stamane ci ho scopato 3 volte, con la mia sigaretta.

martedì 15 gennaio 2013

Strisce gialle

Il concetto di fondo è il seguente: traferire la libertà in un alveo esclusivamente introspettivo, amplificarne i recinti angusti, e le pareti strette. Pescare la forma dell'inesorabile dal secchiello in cui possiamo conservarla, e riscoprire la fuga come atto di presa di coscienza per dominare il mortifero inesorabile.

Ma la fuga non è intendersi unicamente come atto di ribellione e contravvenzione alle convenzioni (steccati) dell'umano persistere. La fuga è l'accendere la luce sul cammino, la fuga è una chiave interpretativa. La fuga è un confronto a doppio binario con se stessi e con gli altri. La fuga è voler misurare le distanze provocate dall'incursione di migliaia di variabili impazzite.

Una riscoperta in cui anche l'immobilismo appare dinamico su una traiettoria costante, sapendo che tutti i tragitti terminano "inesorabilemente" verso un muro. Si può decidere di correre o di restare immoti su un pianeta destinato a collassare.

Ok,  ho finito di recensire le idee di una notte insonne, insidiata dai malware della mente, a proposito di una storia che vorrei essere bravo a saper scrivere.

mercoledì 14 settembre 2011

Also spracht Alcor - la vita è uno stato mentale


Domani parto, again.

Tra la stasi esogena e la convalescenza che mi ha immobilizzato tutto ciò che esiste tra il mio basso ventre e le mie ginocchia, il mio pensiero corre e ricorre al racconto Infanzia di un capo, di Sartre. Quello del concetto della "immensa attesa", per intenderci. Omosessuali a parte (con tutto il rispetto), esistono parole che si attaccano alla pelle come elettrodi, e sembrano raccontare i picchi e i precipitati attraverso il diagramma che quotidianamente si tende ad arginare.

Uso l'impersonale, o un'anonima prima persona plurale, ma è di me che parlo, visto che il residuale tessuto di esseri terrestre mi è tuttora sconosciuto.

Dovremmo ripartire da alcune costanti: da Nietzsche, dal tonno con la maionese, dai cappelli ottocenteschi, dal nodo windsor alle cravatte, dal tiramisù, dai sudoku e dall'indifferenza imperatrix mundi.
Ricevo la telefonata di un caro amico che non ha del tutto perso la voglia di rantolare nel torbido. Del resto, perché biasimalo, ha solo 24 anni è assolutamente comprensibile che egli sia ancora in grado di invocare una solidarietà generazionale nell'erezione di un fronte battagliero contro questa manica di cialtroni che si proclama classe dirigente.

Mi veniva in mente che il porto vicino casa mia non riesce a sviluppare il suo potenziale di affari perché è poco profondo. Il pescaggio inferiore lo rende poco competitivo perché impedisce alle navi più grandi di poter attraccare.
Si potrebbe scavare. Si potrebbe, no?

Peccato che vi abbiano sversato tanta di quella merda, nel corso degli anni, che smuovere un sassolino dai fondali significherebbe mettere in circolo tossicità allo stato puro.
Ecco cosa accade quando si smuovono consolidati strati di schifo, per riconvertirsi e non crepare.


 








 

mercoledì 27 luglio 2011

Le invasioni barbariche


R. accese una sigaretta, chiuse la macchina e si diresse verso la porta di casa. Man mano che si avvicinava teneva la sigaretta il più possibile nascosta nel palmo della mano piegato a coppa, e con il braccio steso, tendente a celarsi dietro la schiena.

Tirava fumate rapide e frequenti. Se qualcuno l’avesse visto fumare non sarebbe successo nulla, ma lo sguardo riprovevole di suo padre, che di lì a poco sarebbe giunto anch’egli in prossimità del portone, era quanto di meno sopportabile vi potesse essere, soprattutto dopo una serata di indigestione da parenti.

Una volta s'era abbandonato ad uno sfogo nella cui requisitoria ricondusse, con deplorazione, le cause della sua irascibilità sociopatica  all’attrito vischioso con cui si sviluppavano le conversazioni apparentemente più innocue tra lui e i suoi vecchi.

Suo padre, che riteneva di essere invaso da una innata condizione di impunità, non riteneva plausibile l’ipotesi sostenuta dal figlio, secondo la quale  sarebbe stato lui l’induttore della condizione disadattante del proprio pargolo, e che l’incessante opera di messa in luce delle manchevolezze da parte di quest’ultimo rientrasse nel novero delle indispensabili competenze paterne, volte al progressivo ripristino della perfettibilità dei propri derivati cromosomici.

In virtù di questa missione egli sarebbe stato l’infallibile censore di ogni azione dei propri figli, nonché il vate pronto a svelare anzitempo le conseguenze di ogni loro proposito, facendosi beffe del simulacro ordinario dell’imprevedibilità degli eventi.
Era un rigido assertore della programmazione, e non riconosceva smentite, poiché negli anni aveva accumulato un forziere di giustificazioni applicabili a qualunque situazione.

Mentre R. indugiava con la sua sigaretta sotto il portone, osservava con una parvenza di invidia la leggerezza con cui gli avventori del bar lì vicino seguitavano  ad accumulare vuoti a rendere di birra, discutendo animatamente circa le modalità di conservazione della ‘nduja calabra, e dei processi di lavorazione dello champagne.
Parole distinguibili tra rombi di motociclette, palle di biliardo che rimbalzavano al suolo, bestemmie di ogni genere e risate accalorate.

La contemplazione di tale eldorado fu bruscamente interrotta dall’arrivo della macchina paterna. Il finestrino si abbassò e lo sguardo del padre conducente si fece più distinguibile.
Quei pochi secondi di silenzio sembrarono pesantissimi ad R., che senza alcun motivo,  sentì di dover giustificare l’indugio sotto il portone. Fece finta di frugare nelle tasche della sua giacca ed estrasse solo foglietti a caso.

-  Non trovo le chiavi di casa. Le ho lasciate in macchina. Spero ci sia qualcuno che possa aprire il portone.

Il padre non disse nulla e andò a parcheggiare il mezzo. R. suonò il campanello e rientrò a casa.

Sentì d’essere scosso dopo che s’era appena assopito dinanzi alla tv che trasmetteva la rassegna stampa del giorno dopo.

- Vai a recuperare le chiavi di casa dalla macchina. – Impose suo padre.

- Ci andrò domattina.

- Ci vai adesso, così impari a dire ad alta voce che le chiavi di casa tua sono in macchina, informando la platea dei probabili scassinatori che popola il bar, su come svaligiarci senza fare tanto rumore.

R., si convinse del pericolo, si rivestì e tornò verso la sua auto per recuperare le chiavi di casa. Aprì lo sportello e le chiavi non c’erano.
Cercò dappertutto ma delle chiavi di casa, in macchina, non vi era traccia.

Rientrò a casa e comunicò a suo padre l’esito negativo della missione, lasciando che fosse lui a far emergere le conseguenze di quello stato di cose.
E per suo padre non vi era alcun dubbio: gli scassinatori che popolavano il bar, appena furono edotti dell’ubicazione delle chiavi del loro appartamento, dalle avventate parole di quello scriteriato di suo figlio, cessarono immediatamente di conversare sui metodi di conservazione della ‘nduja calabra e avevano provveduto ad aprire la macchina di R. per impossessarsi delle chiavi in maniera pulita e senza lasciare traccia, riuscendo persino a richiuderla per non destare sospetto.

Egli sapeva benissimo quanto si fossero evolute le tecniche raffinatissime di scassinamento eseguite in maniera delicata e chirurgica.

Una volta il padre di R. sentì di scassinatori che usavano un particolare gas sedante che consente l’esecuzione notturna dei furti mentre le vittime sprofondavano in un sonno quasi comatoso.
Era sicuro che il loro appartamento prima o poi sarebbe finito in cima agli obiettivi sensibili delle bande che imperversavano in tutta la provincia.
Quell’idiota di suo figlio aveva agevolato la scalata nella top ten dei colpi “sicuri”.

Quella notte non dormì, perché prima o poi sarebbero giunti e avrebbero aperto facilmente il portone con le chiavi di R., avrebbero liberato il gas, e lui al suo risveglio non avrebbe trovato neanche  i cessi del bagno.
Ogni minimo rumore lo insospettiva e gli imponeva di alzarsi da letto per controllare che non vi fosse nessuno in casa. Girava per le stanze da letto, e giungendo nella stanza di R. lo vide dormire tranquillo, digrignando come sempre, e sprofondato nel suo sonno indifferente alla perniciosa sorte che di lì a poco sarebbe capitata per causa sua.
Avvertì un senso di frustrazione e rabbia per la mancanza di condivisione del dramma, proprio da parte del suo principale responsabile.

Ma la notte trascorse senza alcun tentativo di scasso. Il padre di R. asserì che era prevedibile, che una banda di professionisti non avrebbe agito immediatamente, perché si sarebbero aspettati delle contromisure immediate che notte dopo notte sarebbero state allentate da una falsa rassicurazione.
Egli non sarebbe stato gabbato, a differenza di quello che i malfattori pensavano.

Ogni notte avrebbe vigilato per controllare l’origine di ogni minimo scostamento d’aria in casa. Ovviamente non si fidava minimamente della collaborazione di moglie e figli, soprattutto quando la causa di quell’imminente sventura  era stata proprio la noncuranza  di uno di questi.
Era cosciente che avrebbe dovuto compiere quell’eroico salvataggio da solo. Non dormì per giorni divenendo sempre più intrattabile e severo, intollerante e iroso.

Dopo una settimana molto complicata R. decise che avrebbe dovuto porre fine a quel tormento da lui cagionato e che si ripercuoteva sulla tenuta mentale del padre, minando la consistenza stessa della sua famiglia.
Approfittando di una passeggiata investigativa del suo vecchio, decise di agire autonomamente, per dimostrare che anche lui era in grado di fare la sua parte per tutelare l’integrità dei suoi cari.
Fece cambiare la serratura della porta di casa, in maniera tale che anche se gli scassinatori fossero giunti non avrebbero potuto utilizzare le chiavi che egli aveva incautamente dimenticato in macchina.

Si sentì soddisfatto perché per la prima volta aveva posto rimedio ad un danno gigantesco derivato dalla sua insicurezza insanabile, ed alla quale s’era ormai rassegnato. Quel gesto riparatore lo avrebbe riabilitato al severo giudizio del padre e gli avrebbe infuso la tranquillità di non essere una merda di  livelli irrecuperabili.
Per la prima volta attese il ritorno del padre per giovarsi del meritato premio al coraggio.

Il padre tentò di aprire la porta di casa con le sue chiavi e non ci riuscì, così, sospettoso, suonò il campanello. R. corse ad aprire.

- Che è successo qui?

- Perché?

- Le mie chiavi non funzionano, e cos’è tutta questa polvere intorno all’uscio?

- Papà ho fatto cambiare la serratura, per stare più tranquilli. Adesso non c’è più da preoccuparsi. – Pronunciò quelle parole con insolita fierezza.

- Sei un coglione, R. 

- Perché papà?

- Una volta giunti sull’uscio di casa, annusata la preda, pensi che si fermeranno dinanzi ad una contromisura così scontata? Possedere le tue chiavi, stronzo, li avrà talmente allettati che una serratura nuova non basterà a farli desistere. Scassineranno la porta, ecco che cosa faranno! E magari diventeranno anche violenti se qualcuno dovesse tentare di intervenire per via del rumore che saranno costretti a fare. Potrebbe scapparci il morto, imbecille, capisci!!! Tua madre o tuo padre potrebbero morire perché un cazzone come te ha dimenticato le chiavi di casa in macchina, e lo ha urlato ai quattro venti.

- Ma io pensavo che….

- No! Tu non devi pensare! Dov’è la vecchia serratura?

- Nel ripostiglio.

- Vai a riprenderla.

- Vuoi rimontare la vecchia serratura?

- Certo, imbecille, continueremo le ronde. Anzi, TU continuerai le ronde.

Dopo qualche giorno, la madre di R. lavando la giacca di R. vi frugò nelle tasche, e vi trovò le chiavi che si pensava fossero state trafugate dagli scassinatori.

- È un cazzone, lo sapevo io. – Sentenziò il padre di R.

martedì 5 aprile 2011

Quattro mesi


Quattro mesi sono solo una stagione e un pezzo, abiti diversi, suole di scarpe consumate.

Mi sarò fatto la barba più o meno 6 volte.

Avrò pagato 4 mesi di affitto, e litigato almeno 3 volte con un gestore di telefonia mobile particolarmente avvezzo a fottere i clienti fessi.
Avrò ricevuto altrettante 3 raccomandate per indurmi al pagamento delle fatture telefoniche da una società di recupero crediti che ha sede in Sicilia, la qual cosa non caldeggia alcun ottimismo sulle possibilità che io rivendichi i miei diritti da consumatore circuìto.
Si ottiene molto di più con  un "per piacere" e una pistola, che con un "per piacere" e basta.

Sarà uscito nelle sale il film di Nanni Moretti, che comunque avrei visto da solo, e sarà passata senza far male la campagna elettorale per le amministrative.

Avrò fumato due sacche di tabacco danese per pipa, una decina di churchill, e una sessantina di pacchetti di Marlboro. La mia speranza di vita si sarà contratta in proporzione di circa una mezz'oretta.
Significa che mi sarà tolto del tempo utile per risolvere un sudoku di livello very hard. Incontenibile rimpianto per un'occasione perduta per ribadire quanto son bravo a risolvere i sudoku.

Forse avrò imparato a sentire il vuoto d'aria all'altezza dello stomaco.

Sarò tornato ad infilarmi nel vestito nero senza chiedere consulenza ad un fachiro.

L'aspirapolveri del lavagista di frodo avrà rimosso i capelli biondi che s'attaccavano rampicanti sul poggiatesta del sedile destro della mia macchina. Nostalgiche traccie di timide serate strozzate.

Forse non consentirò lo spargimento di altro DNA, rendendo vana l'assunzione a cornucopie di succhi d'ananas con pezzetti, che dovrebbero mitigare i nefasti effetti della nicotina sulla degustabilità del mio sperma.

Forse mi ritroverò a dare un passaggio ad un tunisino che percorre a piedi la statale Appia di notte.

Forse sarò consegnato ad un Centro Richiedenti Asilo gestito da un santo barbuto con un grosso mazzo di chiavi appeso alla cintura.

venerdì 25 febbraio 2011

Mancato abuso di potere


L'alunna bona che ebbe l'ardire di contattarmi su facebook ---> scoprire che è follemente innamorata di una sottospecie di fustino incelophanato---> auspicare che costei abbia un adeguato livello di troiaggine interna---> essere però conscio che le troie non mi garbano---> tornare a fantasticare di profanare una giovane suora.  

lunedì 30 agosto 2010

Magre soddisfazioni

Al rientro in ufficio.

- Cazzo, Alcor, sei in gran forma. Sei dimagrito, capello allungato, viso disteso. Avrai di sicuro trascorso delle vacanze divertenti. Hai trombato abbastanza? Meglio così, ci attendono un sacco di cose da fare.

Non mi stava prendendo per il culo.
Ecco, un classico esempio di come il tema della deduzione logica teorizzato da Conan Doyle se ne va splendidamente a puttane.

venerdì 20 agosto 2010

This isn't a pipe

La fiducia costa una grande fatica. Attendere il momento cruciale che congiunge e spezza realtà giustapposte, staffetta tra vite possibili.

Così, nei giorni della dipartita di Cossiga, dell'ennesimo tonfo di Wall street, della Cina che sorpassa il Giappone, nell'ansiosa veglia che ci prepara a vivere la caduta del governo, noi qui si attende il momento cruciale.

Un altro.

La sinapsi esistenziale che rimette in circolazione i traffici di speranza in questa botola dove sembrano sguazzino girini destinati a non essere mai rane. Anfibi sospesi nell'umido di crepuscoli congelati che resistono alla notte e non trovano il coraggio di riaffacciarsi alla luce.

L'ennesimo momento cruciale, attende al vestibolo dell'autunno. Occorre tanta fiducia per accettare di ritrovarsi in un punto che abbia gli stessi vasti panorami di Gibilterra, di Panama, di Suez, di Bering.

Occorre tanta fiducia per credere che queste case avranno stucchi differenti. Una scimmia ha bisogno di credere che ci sia un ramo dall'altro lato dello slancio.

Stanotte ho sognato i black blocs che mi devastavano l'ufficio. Li ho lasciati fare.

domenica 1 agosto 2010

III RePubic

Apprendiamo con sgomento che in Italia la destra è costretta a fare sia da maggioranza che da opposizione.

Ti piace vincere facile?

(parte la musichetta)

mercoledì 28 luglio 2010

Core business

Un'attività economica di sicuro successo potrebbe essere quella di correttore di bozze dei testi delle canzoni di Vasco Rossi.