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domenica 25 febbraio 2018

Infrante

Non mi credo. No, non mi ascolto neppure.

Questo odore di tartufo non l'avevo mai sentito prima d'ora, sono anni che non sniffo più il gusto dell'aria, e tutto mi è così profondamente nuovo e irriconoscibile.
Non sono poi così certo di volerla questa linearità esistenziale così ordinatamente dipanata in via del tutto elusiva, senza aver posto il mio esplicito consenso.

Capisco quando mi parli di incomprensibili muri e di fessure ingestibili. 
Capisco quando mi giudichi indegno di capire e di esserci.

Quando cominci qualunque gioco quella partita resta aperta per sempre, oltre qualsiasi rinuncia, oltre qualsiasi subentro, oltre la coltre di affanni con cui raffreddiamo la febbre che ci divora inesorabilmente.
Come quell'ultima sigaretta che ho dedicato all'angoscia di non averti vista. Prima dello schianto con tutti i miei confusi trapassati che si accanivano a confondere le nevrosi delle notti insonni e senza alcuna pace.

E questa puzza. Di catrame e odio. Perchè anche se hai smesso, resti un fumatore nell'anima. E certe volte manca. Cazzo se manca.

Partite aperte, infinite. Infrante.

martedì 13 febbraio 2018

Rastrellando a zonzo

Appunti per personaggi di un libro che non sarà mai scritto. Lungo un viaggio che rielabora la coscienza per poi terminare in uno schianto.
E quando passerà la polvere sollevata dall'impatto brusco, non resterà che nulla. Tutto resterà immutato. 
Esistono forze inscalfibili.
Occorre un fortissimo senso di colpa, profondo e inestricabile, per poter ammettere e sopportare immensi dolori.
La colpa può essere la salvezza che dà un senso al futuro, perché adisce alla riabilitazione, auspica una riconciliazione col male. Attende di essere riempito, il vuoto della colpa.
E senza la colpa, una colpa qualsiasi che possiamo sempre attribuirci a caso, non si riuscirebbe a dare un senso a tanto dolore. Si potrebbe perfino impazzire. 
Perché non sono solo scelte sbagliate, non sono le rinunce e i sacrifici vanificate dal destino. No, sono solo conseguenze della nostra natura che, alla fine, sembrano quasi giustificate, accolte, benvenute. Protette gelosamente contro i guizzi improvvisi di felicità inappropriata.

Eppure ogni istante la mia mente ti osserva e ti racconta parole inesistenti e sconosciute all'alfabeto della colpa. 
Trascorrerà del tempo per dare un peso a questa rivoluzione piccola piccola. Dovrà raddoppiarsi il tempo e la durata di questa speranza per soverchiare il vuoto imposto da questa colpa.
Si aggiungerà un solo attimo in più per vincerela resistenza della tua colpa.
E poi mi ritroverai in fondo a questa lunga strada, con un pochino di affanno, a rivelarti che, in fondo, valeva sempre aspettarti, qualunque fosse la strada.

martedì 25 agosto 2015

Rendez-vous avec la vie

Lo avevo chiesto a gran voce di star lontani dalla folla.

Ma non mi si è voluto dare ascolto, e per fortuna adesso ci troviamo qui, in un locale deserto. Ancora è mal di testa... è da questa mattina che non oso rivolgere le mie attenzioni impure e peccaminose alla volta della nimesulide che da sfoggio di sé accattivante e ammiccante, benevola e accondiscendente, disponibile a estinguere le fitte emicraniche; spiandomi come fosse inopinatamente distratta oltre il vetro della credenza, seduta dinanzi alla collezione dei bicchieri di cristallo. Accanto al termometro, alle pillole per la pressione alta, e ad argentei cimeli rimembranti ricorrenze più o meno rapprese nel loro plumbeo tenore teologico-mondano.

Cavare un'idea che abbia una larvata coerenza, ed indi si faccia carico di un qualsivoglia messaggio tale da rimestarsi proficuamente in una pagina, oggi è difficile, Monsieur.

Anche scrivere la parola "difficile" costa fatica. La fatica di un'affannosa spulciata nella semiotica della propria ontologica identità. Perché quella parola è imprecisa, e come tale bugiarda. E scrivere falsità è per me una violenza che si assomma già alle scenette grottesche che la penna celebra per riderci su. Di gusto, su ciò che sempre più appare come una fumettata vicenda non seria, questa lunga passeggiata che costeggia gli anni. 

Non è, in punta di verità, "difficile", è solo che non mi riesce più di manipolarli altrimenti questi pensieri. Forse è soltanto "diverso". Ma io non so più scrivere, non come mi piace. E di colpi ne sto perdendo parecchi ultimamente, Monsieur. Forse tu comprenderai cosa vuol dire ridursi ad incipit conservati per scrupolo come frammenti di storie che non saranno mai compiuti. Che quando l'istinto narrante viene pompato da un orgasmico impulso lo devi consumare in fretta, giungere al nucleo della fiamma che ha infervorato l'istante, afferrarvi con slancio i volti e le parole ed inchiodare il flusso nella teca di un racconto.
Ma finché redigi la cornice, la storia s'è già sgualcita e non ne vale più la pena.

Compunta ovviamente di parole inadeguate. Perché quelle giuste sono come limiti che tendono all'infinito. Quell'infinito a cui rende giustizia solamente il silenzio. Quello che rende le proprie parole straniere e allo stesso tempo talmente personali da potersene disfare pressappoco con indifferenza. A prescindere da quanto possano essere care a chi ti è caro. Non riuscire a liberarsene vuol dire essere incompleti. Essere incompleti non è un problema.

Ne convieni? Considererei il silenzio come la più pura delle forme di comunicazione. Chiudere gli occhi e avvicinarsi, sentirsi adiacenti e restarsi accanto senza necessitare d'altro, e senza domandare oltre. Uno scambio che non depriva e non inganna.
Prendiamo qualcos'altro, Monsieur? Un'altra birra e qualche inezia recante in sé adipose conseguenze per accompagnare la discesa giù lungo l'esofago del biondo liquido amarognolo. Ricominciamo daccapo.
Anche se ho appena finito il solito drink, e ancora sto frantumando in bocca i piccoli cubetti di ghiaccio. 
Uno dei piccoli e irrinunciabili piaceri che fanno orripilare i detrattori dell'acqua corrente.
Con la lingua approfitto per dirigere un cubetto a coprire la gengiva sottostante il premolare inferiore collocato a destra del mio viso rispetto a chi mi guarda. Perché mi accorgo che duole un tantino, quando mi capita di pensarmi.

I miei dieci piccoli irrinunciabili piaceri: dei cubetti di ghiaccio s'è già accennato; giocare con i sacchetti di riso o di farina, affondando le dita in quella morbidezza elastica, tralasciando qui biasimabili similitudini; suonare come un automa l'arpeggio di Is there anybody out there?; fare gli origami con i biglietti già obliterati dell'autobus; conservare tutto il conservabile come testimonianza inoppugnabile che su questo pianeta ci ho davvero messo piede pure io; avere le mani umide e i capelli bagnati; gironzolare da solo e salutare le persone soltanto con un cenno del capo e sorridendo, per evitare di fare figure di merda nel non ricordare i nomi; scartare con evidente soddisfazione i pomodori da un mio qualunque piatto; avere la "finestra sempre aperta" anche fino a notte fonda; e infine gli indovinelli che capiscono in pochi, soprattutto quando si legge di corsa senza soffermarsi più di tanto.

Siamo venuti quaggiù in quattro, era come se fossimo in tre, e tali si è rimasti nonostante la successiva addizione di ulteriori vispi commensali. Monsieur che siedi alla mia destra, hai ordinato un piatto di patatine fritte che io di norma, non dovrei poter mangiare. Ne assaggio qualcuna ma non vi si cosparga il sale, sono comunque a dieta. Domattina so già che mi sveglierò tardi e non correrò. Ma la mia è solo una morbosa curiosità di testare la tenuta dei bronchioli carbonizzati durante le ultime due settimane, mi si consenta di preservarvi un'illusione ancora a riguardo.

L'altra sera dopo aver cenato fuori torno a casa in tutta fretta, sotto le gocce di pioggia che si perdevano nella moresca chioma spettinata anni '50, rinfrescandomi con la loro sorpresa posata, e fresca. Volevo comunque andare a letto presto.

Pensavo, Monsieur, che sto riscoprendo un particolare gusto per i liquori secchi.
I fulmini illuminavano il cielo a giorno, infiammando per improvvisi istanti i contorni delle nuvole che suturavano il cielo come un cranio sbriciolato ricostruito a botte di gesso e saratoga visto dall'interno. Era da molto tempo che non mi abbandonavo sul cuscino del letto con un libro che non presentasse figure simili agli effetti del tasso di cambio giapponese sulla delocalizzazione in Cina. 
E l'ho ritrovato dilettevole quella sera. 

Ma quando qualcuno vuole sfottere a denti stretti il quarto cazzone che ci portiamo insieme imbevendoci passivamente delle sue varicose vicende senza soluzione di continuità, e mi sussurra un decontestualizzato e canzonatorio "che culo...", mentre la mia mente scorrazza altrove, vien facile per me, nel rinsavire dal sonnambulismo incedente, esprimere un parere disgustato sul fondoschiena della signora in stato di pre-obesità che riempie il campo visivo a me innanzi. 
E scusami, cazzo, se poi ridestandomi dal sabbioso abbaglio, esterno con voce moderatamente media-udibile il mio punto di vista sul quid di cui sopra, tale da intercettare torvi sguardi sospettosi dal marito di questa che deve avere inteso qualche sciagurato decibel del mio sommesso proclama. 
Che tu parli per quel che hai in testa tu, ma io ti rispondo per quel che ho in testa io, per la miseria... 

Vale per tutti, più o meno consapevoli, che chi ci fa star bene e chi più o meno ci comprende non è  altro che la proiezione meglio riuscita di sè... guardare dentro al cuore  e avvicinarmi al suo mistero  non come quando io ragiono ma come quando respiro. Ma non diciamolo ogni volta, le espressioni reiterate ne rovinano il senso. Sarebbe bello scoprire una bella frase, tratteggiare un bel pensiero, e dimenticarlo dopo un po'. In quel momento avremo scoperto qualcosa di noi e l'avremmo consegnata all'eternità.

Mi prende una stranissima voglia di ballare come intorno ad un ripetuto picchiettare di un dito medio della mano sinistra sul MI bemolle di un pianoforte scordato. Battendo i passi al suolo come un bicchiere che si rompe comprensivo del contenuto, che non si è sorseggiato per incantarsi a guardare l'alone interno lasciato sul bicchiere da ogni oscillata nelle nostre mani inquiete e sincere. Più della calma dipinta come la ceramica intorno agli occhi.

Monsieur. Che cosa vuoi che ti racconti? Un'altra storia.

Stanotte ho sognato Adriana. Indossava una lunga veste bianca; avanzava lungo la spiaggia. Avevo come l'impressione che la mattina di quel giorno in sogno fosse venuto giù un acquazzone impietoso; io stavo seduto su una poltrona a sdraio e le ho fatto cenno col braccio. 
Ma lei ha continuato a camminare come se non si fosse accorta di me, guardando fissa in avanti, e quando mi è passata vicino mi ha investito una folata di aria gelida, come un alone che si portava dietro.

A volte una soluzione sembra plausibile solo sognando. Forse perchè la ragione è pavida, non riesce a riempire i vuoti tra le cose, a stabilire la completezza come un forma di semplicità.
Ma poi domani, o un altro giorno, sognerò che passerà di nuovo vicina al mare e acconsentirà al mio richiamo e si siederà vicino a me. Poserà le mani sulle gambe con un gesto lento e languido, pieno di sensi, e guardando il mare mi indicherà una vela o una nuvola, e riderà. Ed io continuerò a ridere, mentre la guarderò; rideremo insieme, come l'esserci trovati ad un appuntamento.

La vita è un appuntamento, lo so di dire una banalità, Monsieur. Solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove. Magari capita che il primo saluto avvenga per caso, ad esempio a  febbraio, e nel posto più sbagliato, ma che importa... 

Il diritto, il rovescio... l'estate. Non so se ci si trova in un punto perchè l'esperienza ti ha portato per mano fin lì, non so se è vero che dal passato si impara la lezione come un vaccino. A volte sì, lo penso e lo confermo, altre volte lo disprezzo insieme al fascio secco di tutti i princìpi fasulli; più sovente lo ignoro. 
E allora spesso uno pensa: se avessi detto questo anziché quello, se mi fossi svegliato un giorno prima, se non fossi mai andato a letto presto, se non avessi temuto, se mi fossi fidato di più... Forse sarebbe stato lo stesso. O forse non starei neanche qui a raccontare questa storia. E ogni tanto racconto di una certa soluzione che tuttavia ignoro a qualche amico, raramente, bevendo un bicchiere.

Un appuntamento e un viaggio, è la vita. Fatta di percorsi sulla crosta di questo pianeta, che a sua volta si muove, ma verso dove? Ti sembrerò maniaco, Monsieur. Però a quel tempo io ero fermo, un momento di stasi e il mio tempo ristagnava in un pozzo di accidia. Con quella tranquillità di quando non si è troppo giovani ma non si è ancora troppo adulti, e si aspetta semplicemente la vita.

Ed al posto della vita, venne Adriana.

Talvolta indifesa e interpretabile che pareva di leggerle in volto il carattere di tutti i suoi momenti. E poi era bella, certo, ma questa non era una sorpresa: ma quel giorno mi sembrò di una bellezza assoluta, perché lì capii che non esiste bellezza al mondo superiore alla bellezza di una donna, tu mi capisci Monsieur, e questo mi accese una specie di frenesia.

La strada dietro di me fuggiva, davanti a me si apriva, e io pensavo alla mia vita e alla mia accidia, e a tutto quello che mi era stato detto. Frasi più nitide man mano che si procede lontano alla radice dei ricordi, e stranamente più fragili e tremule nel risalire fino a quel momento. Quando le prima parole son cariche di mistero, di un voler spiare tra le fessure dei propri vissuti, sospinti da una curiosità che poi si evolve e scende giù portando alla luce i reperti più celati, confidenze meno infrangibili, sensazioni più acute. E sempre meno descrivibili con l'alfabeto.
Mentre le parole più prossime stentano ad aggrapparsi alla mensole della mente, e all'esigenza di lasciarsele propagare per giorni e giorni nella testa. Come se si comprendessero già senza il bisogno di doverle riprendere, rispolverare con cura e ricercarne tutti i sensi per star sicuri di essere davvero felici a giusta ragione. 

E sentii, quel giorno, una specie di vergogna per non aver mai provato niente di tutto questo fino ad allora. Fu proprio così, una specie di rimorso, come una consapevolezza di mediocrità o di codardia.
Come quando si ha la concreta sicurezza di aver sì corso per milioni di chilometri, ma in maniera lenta e accidiosa attraverso una strada lunga, e senza ricordare alcun paesaggio.

Ed ora viaggiavo, con questa vita, su un'altra strada che non importava dove mi avrebbe condotto, con la compagnia di una donna bella e distante che fuggiva non sapevo da cosa, o che evitava non sapevo cosa: era una corsa che mi vibrava dentro e intorno lungo una strada vuota in mezzo alla Francia.

Accostai la macchina e mi fermai. Mi volsi e stavo per dirglielo... Ma lei mi mise un dito sulle labbra, molto dolcemente, e mormorò: "non essere stupido". E restrinse le sue labbra in un bacio mai dato.

Nel luogo del nostro appuntamento c'era uno stabilimento balneare con una fila di poltrone a sdraio. Mi sedetti e mi misi a guardare il mare. Sentii il campanile che batteva le dieci, e poi le undici, e poi la mezzanotte, le ore si facevano giorni, i giorni si facevano mesi, ed i mesi diventavano tutta l'immensa attesa che non sarebbe mai bastata.

Ah, tu mi hai fatto bere troppo, Monsieur, però in quanto a bicchieri sei una buona compagnia. Non ho la giacca e fa freddo, e una sigaretta non riscalda. Sai, a volte, quando si è bevuto un po' la realtà si semplifica, non occorre sclerarsi a coniare nuovi idiomi per riconoscere quello che proviamo. Si saltano i vuoti fra le cose, tutto sembra combaciare e uno dice: "ci sono". Come nei sogni.

Attendere, quella vita che che non ha alcun appuntamento col dovere imperativo, e che tuttavia non scappa come un codardo che non lascia tracce di sè nel mondo intorno stimato come un magazzino immanente per saziare le proprie voglie, deprezzando e svuotando ogni senso. 
Come a non voler essere responsabili dei propri affetti, dei propri gesti, delle sensazioni e dei germogli che si innestano negli altrui cuori, indipendentemente dal più ignavo dei propositi. Salvaguardarsi non è essere egoisti, è viltà. L'egoismo naturale come un fiume è l'esserci sempre in svariate forme che non affollano l'esistenza di chi si attende, pur non essendole mai lontano. 
La retorica della viltà invece è merda.
Un ammutolito lungometraggio di incontri che a lungo andare assomiglia più che altro ad un reciproco masturbarsi. Una feroce razzìa al termine della quale sputarsi in faccia non suonerebbe neppure stonato.
Non sono né un santo né un moralista, detesto appena con una puntina di odio qualunque cosa renda la vita volgare, brutale e sporca. E che spogli la dignità del suo valore, lasciando qualche livido breve che porta ancora i segni della paura e dell'insensibilità.

Attendere, e ritornare ardentemente al mio sorriso che a tutto questo non vuol pensare.
Attendere, come un silenzio nelle notti di semi-veglia in controluce, con gli occhi stanchi e l'animo gioioso. Attendere, e percepire che anche il sonno è vita, e non riposo. Attendere, scagionando l'anima dalla paura di non meritare, di esservi capitati per un caso avulso dagli intenti. Attendere e non domandarsi alcun perché. 
Attendere, e sentire per chi non c'è, quasi una solitudine.

Andiamo a casa. Fa freddo, e mi gira la testa. La radio passa Aida di Rino Gaetano. Non c'entro assolutamente nulla con la maggior parte di questo teatrino di nuvolette. La sceneggiatura degli ultimi minuti appartiene già ad un film che non mi riguarda, i figuranti si predispongono per un ciak nel quale non siamo stati scritturati.
Scrivere... è una forma di presidio per i propri dilemmi e insieme l'esigenza di correre incontro. 
E devo andare a pisciare.

Ma a te interessano le storie altrui? Forse anche tu, Monsieur, devi essere incapace a riempire i vuoti fra le cose? Non ti sono sufficienti i propri sogni?

Adoro quando sorgono le amenità prodotte dai meandri della mia fulgida immaginazione.
Altresì spontaneamente da non esigere che si vada a sbirciarvi...
Ci vivo di questi scatti. 
Ma mi odio anche un po' per questa medesima ragione, quivi scanzonatamente narrata.

lunedì 11 maggio 2015

As Alonso

Ora, se io andassi in giro a bordo di McLaren Honda capace di stritolarmi il cervello con una scarica elettrica da 600V, potrei anche io perdere la memoria per una settimana e ritrovarmi di colpo proiettato indietro di 20 anni.

 – Buongiorno Alcor, sei sveglio?

– E chi è Alcor?

– Sei tu.

– Come scusi? Dove mi trovo, chi siete voi?

– Stai tranquillo, va tutto bene.

– Dov’è Artù, il mio gatto? Che cosa è successo, e cosa sono tutti questi peli? Ma guarda… e qui? Che fine ha fatto il mio prepuzio???

– Cosa ricordi Alcor?

– Tra un mese devo cominciare il liceo, ho già cominciato a studiare latino, spero che non abbiano trovato i giornaletti porno che ho nello zaino. I miei amici hanno cominciato a fumare... Coglioni…. è già estate? Bene! Vado a vedere la costellazione dello Scorpione e voglio trovare anche M3 nel Bootes. Un giorno farò l’astronomo. Che bella quella camicia nera, anche io sono fascista,  lo sa? Metti un cd dei Queen, per piacere,  voglio sentire Radio Ga Ga.

– Hai altro da aggiungere alla tua giovinezza di merda, Alcor?

sabato 6 agosto 2011

L'officina


Io me le ricordo quelle chiavi inglesi, e quei bulloni pieni di grasso.  Mio padre aveva attaccato un pannello di legno compensato alla parete dietro il bancone. I ferri erano tutti appesi ordinatamente a dei chiodi sul pannello.



 



Ne arrivavano di ogni genere, ciascuna con ogni tipo di guasto. Da un irrecuperabile cedimento della testata, alle sospensioni scariche, alle marmitte bucate, sino a graffi e ammaccature superficiali che sembravano immediatamente rimediabili.



Ché a furia di tenerle dentro, a strisciarvisi sotto, ad elevarle sui ponti, esse prendevano il tanfo dell'umido dell'officina, dell'olio; nei casi più disperati, credo prendessero persino l'odore del mio fiato.

Ad alcune di esse ci si affezionava, ricordo quella Fiat Ritmo dell'88, anno di deliranti feste in campagna. Sembrava non volesse guarire pur di restare. Ad un certo punto davano l'impressione di sentirsi a casa, tra quei ferri.


Oh, alcune ci son restate, per incuria dei proprietari, per la gravità dei loro difetti. Altre invece son passate solo per un pomeriggio, un paio di giorni, un saluto e nient'altro.


Rinascevano sotto gli interventi delle mie mani e della mia esperienza, e poi correvano via. Qualche volta tornavano, come no... Mio padre diceva sempre che un'auto si adatta allo stile di guida del proprio padrone. Alcuni stili dovevan essere proprio inguardabili, perché loro tornavano e avevano bisogno di essere rimesse a posto.

Qualcosa resta sempre, anche solo impronte su carcasse all'ultima corsa. Tracce di un passaggio, appunti sul taccuino che reclamavano il cambio di olio e filtri.

E poi, rimesse a nuovo, autonome, sicure, dovevano correre da sole, sapendo che è sempre possibile ammaccarsi, ma che è sempre possibile riprendere la strada.

Quando ne mandavo via qualcuna, sembrava che mi guardassero con disprezzo. Forse pensavano che volessi negare loro la mia assistenza.

Ma una carrozza trainata prima o poi dimentica come è fatto l'asfalto e non sa tenere le curve. Faglielo capire.

 

mercoledì 13 luglio 2011

Sussidiari illustrati di errori futuri


L'alfabeto è la chiave, non un susseguirsi annoiato di segni convenzionali. Una conquista del codice con cui attutire i colpi di maglio slanciati per scalfire il marmo e sancire una forma che non ammette errori. Perché se il colpo ferente è troppo brusco, le scaglie avvizzite non torneranno al loro posto. L'intera sagoma sarà ridiscussa, riconcepita, o al più tardi abbandonata.

Solo qualche graffio sugli stinchi, la stampella l'ho rifiutata finanche quando strisciavo.

Leggere è scegliere di appropriarsi, prestarsi al racconto è un deponente farsi scegliere da soppessare con immensa fiducia.

Mamma, doveva essere così alto il muro? Perché io da qui non vedo nulla. Questo è l'orario dei battelli, ne salpa una tra tre ore, e per ora l'imbarcadero è deserto, la battigia restituisce scorie di porti distanti. Forse mi sono sbagliato. Non salperà nessun battello. Nessuno se ne cura, nessuno avverte il gocciolare lento dei momenti che si approssimano agli orari scritti sulla tabella in mio possesso.

Controllo la data, ma i giorni sono uguali, non ci sono stagioni, solo settimane composte da numeri neri e numeri rossi. È troppo presto, dici, mamma? Ma io sono andato via, e sei un'estranea per me questa sera. Ascoltarti non rende questa attesa meno normale di altre.

Il mio libro nero è un puzzle di alfabeti stranieri che non so più interpretare. Le ultime pagine mi ricordano quanto è importante spazzolarsi i denti prima di andare a letto.
Non provare a baciarmi, puzzo di fumo dalle dita fino alle labbra.

Mi perdo spesso, ma una direzione non l'ho mai cercata. La volta celeste gira su se stessa ed il cielo non cambia mai. Il suo moto millenario sfugge alla percezione che una inutile vita abbozzata dai carboncini del caso può ponderare.

Quando smisero di perquisirmi controllarono un'ultima volta l'immagine sul mio documento. Non capivo il loro linguaggio rapido e convinto. Mi condussero in una sala piena di monitor su cui sfogliavano li profili dei figli degli uomini. Ci misero un bel po' a capire chi fossi, ed io a ricordarmi di me.
Nelle mie tasche vi era un foglio di carta con scritto un'indirizzo e due numeri di telefono, un biglietto di autobus usato, un pacchetto di sigarette e un accendino.

L'accendino mi fu requisito da un agente sorridente. Poi mi lasciarono andare, e mi mancò l'algida freschezza di quelle stanze bianche e refrigerate dai climatizzatori.

Avevo la percezione che la vita facesse schifo, e che fosse terribilmente breve. Fuori c'era un'afa diluente, ed in quelle stanze occorreva una giacca ben stretta sui fianchi.
Sui giornali la notizia di un poveraccio che si era trasformato in un rogo per accorciare gli effetti della fame e della miseria.

Mamma non c'è nessuno questa volta, e mancano solo poche ore al mio battello. Nessuno si cura di questa partenza, forse restermo qui, e non incontreremo nulla al di fuori del perimetro pisciato dalle nostre anime.

Non mi hai salutato per non disturbarmi.



 

domenica 10 gennaio 2010

2036

Lo lessi su Repubblica qualche giorno fa, ed il corso di queste settimane si è inconcludentemente arenato. Come un calcolo nell'uretere che vanifica l'indegna opera dei reni.
Tra 26 anni l'asteroide 99942 Apophis urterà il nostro pianeta in un punto qualsiasi.

La noiosa notte di Capodanno da me trascorsa mi ha cagionato una tale ventata di pessimismo da prendere in considerazione l'ipotesi che, fra tutti i
5,100 656 × 1014  metri  quadrati della superficie terrestre, i 320 metri quadrati di questo matto sassolino riuscirebbero a coprire benissimo lo spazio che devo farmi a piedi da casa mia per raggiungere il posto in cui sono stato costretto a parcheggiare la macchina.
Qualcuno mi obietterà che sono troppo pessimista: perché quei 320 metri quadri di pietra cosmica dovrebbero proprio cadermi in testa? No, noi riformisti sappiamo accettare le sventure in nome del bene comune, la logica antagonista e no-global del "not in my garden" che frena lo sviluppo capitalistico non ci riguarda...

Il pessimismo sta nel fatto che mi sono immaginato nel 2036, a 54 anni suonati, ancora qui nel luogo natìo senza alcuna evoluzione: ad uscire dalla casa paterna, ed ogni volta indugiare per qualche minuto a cercare di ricordarmi se la macchina l'avevo lasciata 320 metri a nord, piuttosto che a sud... e non è un particolare di poco conto se consideriamo che tra nord e sud vi è una pendenza del 20%, e vi è una probabilità di maltempo pari all'80%.
Sì, insomma, Apophis avrebbe tutto il tempo di prendere la mira.
E non sarà certo il mio piccolo ombrellino automatico che pagai 9.00 dollari nella pharmacy sulla Avenue P a tutelarmi.

Oh... e pensare che stavo riuscendo a guarire la mia mente affosandola nell'affannosa ricerca di una soluzione che renda il socialismo marxista ancora compatibile con le caratteristiche salienti della società contemporanea. Ero talmente entusiasta da farmi venire orgasmi automatici dinanzi a possibili soluzioni che contemplassero una visione neo-internazionalistica che attraversasse per forza di cose l'orizzonte della costruzione dell'Europa politica e la formazione dell'esercito europeo.
Ero certo che l'impostazione dialettica reggesse in un impianto che sostituisce la lotta individuale alla lotta di classe. Devo ancora lavorarci, conosco la meta ma devo trovare un percoso logico-teoretico per raggiungerla, che non sia qualche visione indotta da intrugli di erbe al limite della legalità.

E invece no! Di nuovo scomodi pensieri  cagionati da articoli su certa stampa, deviata e comunista, che ci costringono a fare i conti con quell'amara evidenza che rende inutile ogni sforzo terreno, persino la dieta a base di cereali in bianco: la dipartita che attende ogni essere vivente al varco.
E pensare che ero riuscito a tenere a freno la mia passione sfrenata per il trash evitando di andare al cinema a vedere 2012... Una delle rare volte in cui una cazzata cinematografica riesce a far tirare un sospiro di sollievo, perchè è impossibile che gli autori di una così immane scemenza possano indovinarci. Basterebbe questo per annullare ogni timore e ogni sospetto che Voyager tenta di infonderci.
Secondo me era una strategia dei Maya per vendere più calendari. Un po' come Vanna Marchi. Almeno noi post-moderni per vendere calendari abbiamo pensato di esporre fiche, migliorando di gran lunga i servizi da offrire per combattere la solitudine e la malinconia.

Certo, è vero, si obietterà che il "limite" contribuisca a rendere ogni cosa più apprezzabile, ma esistono indubbi risvolti deprimenti in tutto questo... pensateci. Operare nel mondo come un'ape laboriosa per poi sentirsi lo sguattero di qualcuno che verrà a cuccarsi i frutti al posto tuo, quando tu sarai ormai diventato il concime dei cachi che lui si mangerà ad ottobre.

Ora capisco perchè quelli della prima repubblica ci hanno lasciato il debito pubblico, chiamali fessi. Devo assolutamente rivedere le mie posizioni su Craxi e sull'ipotesi che gli dedichino una via o una piazzetta a Milano.
Proporrò subito una petizione per l'abolizione del patto di stabilità e di crescita previsto dal Trattato di Maastricht, è ingiusto ai sensi dell'edonismo a cui la mia generazione ha diritto, cazzo.

A me non interessa un futuro migliore per i miei figli, anche perchè la sola idea di avere dei figli mi fa dilatare il colesterolo. E non perché sono un tipo irresponsabile, nossignore, diversi testimoni sarebbero pronti a deporre innanzi il tribunale di L'Aja che sarei un bravo padre. È che l'idea di qualcosa di regolare e predeterminato come la famiglia, le paghette ai marmocchi, la fila al patronato per la dichiarazione dei redditi, e i litigi coniugali sulla contrattazione dei menu settimanali, proprio non riuscirei a viverli.
Una galera per tutte quelle idolatrate arcadie che magari non esistono, ma che fa bene pensare in un punto X del mondo ancora da esplorare.
Meglio Apophis a quel punto, e non una noia mostruosa di fare tutto come un canovaccio goldoniano.

Oh, sono talmente attaccato alle cose... una voglia di trattenere il tempo e l'esistenza qui in una continua ebollizione di contemporaenità che non si estingue, cosparsa di cimeli, ricordi impagliati in qualche simpatico oggetto epigrafico. Persino le cicatrici fisiche hanno un senso, gli infortuni permanenti... la scottatura che mi prese entrambi i pollici mentre preparavo il caffè per una cazzona che non meritava manco un infuso alle alghe di Mururoa, l'alluce fracassato a New York che ancora mi avverte dei cambiamenti di correnti d'aria, il polso sinistro frantumatosi giocando a calcio in seconda media, e che scricchiola ancora quando mi produco in sforzi impropri.
Anche la mandibola malconcia retaggio di un incidente d'auto fatto da bambino.

Al contempo però che scatole la vita eterna... non c'è deterrente peggiore per i cattolici, nella loro opera di evangelizzazione, che promettere 'sta cazzo di vita eterna che può accattivare solo gli idioti che non sanno di quanto si annoierebbero. E con chi diavolo la dovrei condividere questa vita eterna, con dei babbei? Per piacere, ce ne stanno fin troppi nella vita a tempo determinato...

L'idea di una vita a progetto non mi dispiacerebbe, un po' meno quella a chiamata intermittente, di sicuro non part-time. Sarei favorevole al job-sharing esistenziale, ma con chi dico io.
Niente articolo 18, niente sindacati. Ichino forever.

Qualasiasi soluzione presa risulta sbagliata. Un po' come la faccenda della candidatura a presidente della Regione Puglia per la sinistra, o centrosinistra, o centrocentrosinistra.

Verrà la morte, e avrà gli occhi della maestra d'asilo che mi ha riempito la coscienza di simpatici traumi infantili.
Finirà, forse prima ancora che io diventi un vecchio zoppo che va a fare la spesa guardando male gli immigrati e maledicendo il governo per la pensione; non avrò mai girato un film vero, e le mie pubblicazioni saranno talmente insignificanti da potersi scaricare gratuitamente da internet.

Resterà questo inutile blog che mi ha rovinato gli ultimi tre anni, anonimo, e di autore ignoto.
E resteranno quelle pagine stupide, figlie di una dolcezza che mi hanno scippato. E non ho sporto denuncia perché in fondo coltivare l'ingiustizia è una forma di eredità che lasciamo ai posteri. L'eredità del socialismo, che ha un senso in quanto argine all'ingiustizia. Se vi lottiamo e la sconfiggiamo avremo un mondo dove il socialismo non esisterebbe.
E le mie elaborazioni sarebbero, appunto, inutili. E ritorniamo al punto di partenza.

Dio, che pensiero deprimente...

venerdì 23 ottobre 2009

La corsa al seggio

Le sette di sera di una serata piena di nebbia. Le votazioni sarebbero state dichiarate concluse alle ore 20. Quelli della presunta minoranza paventavano già ricorsi per sospetti brogli, e avevano ragione. Strane e patetiche liste di proscrizione spuntavano dalle tasche di vistose giacche di velluto marrone.
Gli scrutatori boccheggiavano alla fame e alla noia. Qualcuno riempiva i propri polmoni di fuliggine.

Il presidente aveva mangiato involtini di melanzane con mortadella e formaggio, era già al quinto caffè, ma non c'era verso: la stitichezza non sembrava avvertire le inondazioni di grappa e bicarbonato.

Qualcuno inveiva sullo spreco di denaro in manifesti, qualcun altro poneva in risalto la contraddizione insanabile del nostro secolo: definirsi democratici ed eleggere assemblee con le liste bloccate.
Si chiudeva un occhio sui troppi fac-simile che riempivano il seggio.

Il dibattito più acceso si concentrava sulla possibilità di attendere il termine della funzione in chiesa madre, per consentire ai cattolici di poter esercitare il proprio diritto, in conformità al Patto Gentiloni del 1913.

Qualcuno, accigliato, controllava il quadrante del proprio orologio con il cinturino di pelle nera, sfoderandolo sotto l'orlo del proprio maglioncino verde padano. Qualcun altro tardava ad arrivare, facendo aggravare a suo carico il macigno delle accuse di disimpegno.

La troppa gente ad osservare, e la mancanza di una serratura alla porta del bagno rappresentavano per il presidente minacce che stimolavano ulteriormente il suo desiderio di sbrigarsi.

E fu così che i tanto paventati brogli, e un'insperata avvisaglia di brusco risveglio del suo retto, rimpinguarono la solerzia con cui contava e ricontava i nomi apposti nell'albo degli elettori.

Ma lo scrutinio incombeva in tutta la sua sconcertante lentezza.

- Che cazzo di fine hai fatto? Non hai ancora votato! - contestò un astante ad un baffuto signorotto appena giunto.

- Perdonami, ho dovuto dormire. Stanotte non ho chiuso occhio. S. mi ha telefonato alle 3.00 di notte per farmi precipitare a casa sua ad uccidere un ragno formato King Kong che si annidava nella doccia. Queste son cose che destabilizzano.

Pochi minuti alle 20.00. Lo scrutinio era alle porte. E finalmente il presidente dichiarò concluse le operazioni di voto, destando le nevrosi dei candidati, e mobilitando i sederi degli scrutatori che si scossero sui lignei sedili.

In quel momento egli avvertì una spruzzata di acido gastrico e un tonfo in fondo all'addome. Il momento sembrava essere finalmente giunto.
All'atto della chiusura del voto per le primarie, il suo intestino rimboschito di enterogermina aveva lanciato il sengnale: stitichezza interrotta, il tempo della leggerezza dell'essere poteva compiersi secondo le scritture.

Incurante della natura del miracolo, se fosse stato chimico farmacologico, o adrenalinico per l'alta responsabilità di dover dirigere il contributo di duecento individui alla causa congressuale del partito, poco importanva.
Di certo una sola cosa agitava la sua mente, e la sua pancia: la breccia che si era spalancata nel suo intimo mistero doloroso.

Una scheda dopo l'altra... e benedette furono le liste bloccate così parche nel richiedere zelanti verifiche! L'attimo del bing bang era preceduto da fughe benigne che egli tendeva a rendere il meno percettibili possibili, sebbene avrebbe voluto giubilare come un volpino festante dinanzi al padrone che mostra il guinzaglio per la passeggiata urinatoria.

Nessuna protesta, la conta dei voti galoppava a ritmo felino. Gli altri segnavano, smorfiosi, a volte stupiti, in ultimo sospettosi.
Qualcuno aveva preso una decina di voti non previsti. E gli occhi correvano alla ricerca di qualche ghigno rivelatore del franco tiratore da mettere alla berlina.

Ma il presidente non temeva. L'uscita del tunnel si faceva più chiara. E mancava poco, solo le firme sui registi, affidando a qualcun altro il compito di inviare il messaggio alla federazione provinciale sull'esito delle urne democraticamente protette.

Perché a lui non interessava commentare, a lui premeva l'ansia e l'impazienza della sua libertà.
Si fiondò via.

Raggiunse la sua abitazione a piano terra. La moglie gli chiese se necessitava della sua solita tisana, ma lui rifiutò gaudente dicendo che quella sera, finalmente, non ne avrebbe avuto bisogno.

Ecco il suo seggio. La tazza a forma di conchiglia adriatica era pronto ad accoglierlo come un padre che perdona il figliol prodigo, o il culo avaro.

Si calò le brache avvertendo già il count-down di Houston.

Si sedette, sospirando, e poi gemendo, strizzando gli occhi e mettendo in tensione ogni nervo del suo corpo, pronto per sganciare...

Ancora qualche istante di tensione per rendere più glorioso il momento...

Ancora un attimo...

Dai, che ce la puoi fare... il bidet sarà il palliativo di ristoro dopo tanta corsa...

Uno sforzo...

Un altro...

Niente. Il suo ano non produsse nulla.

Guardava consternatamente in mezzo alle sue gambe il fondo del gabinetto immune da ogni traccia di cacca.
E allentò tutto nell'ennesima, sciocca pisciata in femminile posa.

Tirò lo sciacquone e si riallacciò con dignità la cinta. La vergogna si riparò alle spalle del nodo alla cravatta che strinse con vigore e fierezza.

Non bevette la tisana della moglie obesa. Spense la TV che parlava delle centinaia di migliaia di votanti al congresso.
Andò a dormire come ogni sera, tra stitiche nevrosi ed emorroidi.

giovedì 24 settembre 2009

Faccio schifo

Burro, 150 g.
Cioccolato fondente, 180 g.
Farina, 150 g.
Zucchero, 150 g.
Uova, 5.
Sale, un pizzico.
Vanillina, una bustina.

Per la copertura:
Acqua, 50 ml.
Cioccolato fondente, 150 g.
Zucchero, 150 gr.

Marmellata di albicocche, 6 cucchiai.


Ricordate che la temperatura ottimale per conservare la sacher torte è tra i 16° e i 18°.

mercoledì 26 agosto 2009

Night voice

Un urlo.

Pare una gracchiante voce di donna che ha lanciato nel buio notturno una parola incomprensibile che iniziava per G.

No... non era mia madre... se fosse stata la sua voce che mi chiamava, avrei dovuto distinguere un appellativo prima della G., tipo: "maledetto G.", "maleducato G.", "buono a nulla G."

La voce di mia madre, non mi manca. Non più del cantino della mia acustica.

Un giorno la voce di mia madre non si sentirà più nell'aria. Io sarò lì, con la barba bagnata dalle lacrime e le braccia poggiate sul bordo della bara. Avrà ancora i capelli castani intatti, mia madre, come il suo bel viso che non sfiorisce mai al punto da camuffarsi da probabile mia ragazza quando capita che usciamo insieme.

Sulla mia cravatta non ci sarà la macchia del sugo che sarebbe schizzata dai suoi spaghetti, insipidi per via della pressione alta che da lei ho ereditato insieme allo sguardo, e alle vertigini.

Quante volte me ne sono andato e l'ho lasciata in lacrime, restando di pietra senza dirle mai una parola. Senza mai trasformare il mio braccio in un cordone ombelicale adulto e peloso che le restituisse l'amore incomprensibile che ha per me.

Tanto incomprensibile quanto inaccettabile.

Lei sarà la pietra fredda e sorridente che se ne andrà, ed io piangerò questa volta. Penserò a tutte le volte che ho voltato le spalle ad ogni tipo di sentimento. Il mio corpo sempre freddo e strafottente sarà coccolato e accalorato dal dolore facendo il paio con una cacchina fumante.

Ora esco e ammazzo quel gatto di merda che latra nella notte.

domenica 2 agosto 2009

Since I've been loving me

Mi capita di mandare gente affanculo.

Dopo qualche settimana me ne pento.

Dopo qualche istante mi pento di essermene pentito.

Il baseball resterà per sempre un grande mistero per me. Insieme alla constatazione della progressiva riduzione della volumetria delle maniglie dell'amore, ed all'opposta (ma nociva) maturata autoconsapevolezza tra i fornelli, è il massimo della conquista giornaliera.

Ho scoperto che il mio piccolo cellulare stelle-striscie T-mobile annovera il sudoku tra i giochi incorporati.
Avevo deciso di interrompere il mio limitatissimo rapporto con il mondo dei giochi 15 giorni fa. Quando giocando al "chi vuol essere milionario" nell'entertainment dell'airbus, nel perdere ad una domanda cazzosa su una capitale di uno stato africano, mi è montata una rabbia modello talebano invasato.

Ma questa scoperta ha aggiunto una nuova opzione alle cose da fare mentre raggiungo l'Herald Square con la metro: oltre all'attività di spionaggio uditivo dei cazzi degli altri, e alla lettura del NY Times.
Sono cose che consentono alla vita di tornare momentaneamente gradevole.

martedì 30 giugno 2009

Lame Alcor

Ad un processo per amore
baciò le bocche dei giurati
e ai loro sguardi imbarazzati
rispose "Adesso è più normale
adesso è meglio, adesso è giusto, giusto, è giusto
che io vada "
ed i giurati lo seguirono

a bocca aperta lo seguirono

sulla sua cattiva strada...


E quando poi sparì del tutto
a chi diceva "È stato un male"
a chi diceva "È stato un bene "
raccomandò "Non vi conviene
venir con me dovunque vada,
ma c'è amore un po' per tutti
e tutti quanti hanno un amore

sulla cattiva strada...

Ah... le gabbie delle strutture sociali... quanti danni...
Un po' sceme come la paura, un po' bislacche come un capriccio, o come una nostalgia.
Il copione fa cacare. Come le prugne.

sabato 27 giugno 2009

ESTA status Update

Ritengo giusto dichiarare guerra agli Stati Uniti.


Come i giapponesi, resisto.


Non vedevo una partita dell'under 21 da quando ero un under 21.


Come cacarsi il cazzo a Roma. Ne sono capace.


mercoledì 3 giugno 2009

Il Sorpasso

"Amici, dobbiamo riaffermare con fermezza che la giustezza di un'opzione politica non ha nulla a che vedere con il grado di popolarità dei leader che la propongono. La nostra credibilità ha uno scoglio irto da sormontare: la populistica visione secondo la quale la verità e la ragione stiano sempre e comunque dalla parte del consenso. Non è così. Una soluzione può essere sì largamente maggioritaria, ma non per questo diventare automaticamente positiva.

Per questa ragione dobbiamo affrontare con lucidità la complessità e le articolazioni del mondo intorno a noi, indirizzare i processi mediante un protagonismo ritrovato della politica. Combattere senza ipocrisie coloro che parlano in maniera superficiale direttamente alla pancia delle persone.

Fermo restante che, da quel che emerge con le candidature di veline e sciacquette, non si parla più nemmeno alla pancia della gente.
Ora si scava nelle frustrazione più recondite dell'animo umano.
Si parla direttamente al cazzo delle persone..."


Finisce l'assemblea. L'uditorio si spopola tra qualche risata, i cellulari si riaccendono, qualcun altro resta ancora per sistemare le sedie, spegnere i microfoni.
Accende una sigaretta, strappa i foglietti su cui aveva frettolosamente appuntato qualche battuta, e guarda il telefono. Nessuno.
Stringe una mano ed elenca le prossime disponibilità, le prossime volte. Prima della partenza, quando calerà un massiccio spot con la scritta "Intervallo" su tutta la sua esistenza.
Sua madre è in ansia per le notizie che giungono dalla caduta del volo Air France. "Tranquilla, stai tranquilla", le diceva. Statisticamente me la sono scampata, anche se fa un certo effetto.
Be' in ogni caso ci potrebbe essere la soddisfazione di vedersi intitolata la federazione provinciale, non è mica roba da buttare.

- Vieni con noi?

- Aspetta. Forse vale la pena che io vada a salutare una persona...

Le si avvicina. Non è molto cambiata, in effetti. Non deve accarezzarla, è una questione di regolamentazione della vita umana. Un gioco di barriere all'entrata, come sempre.

- Come stai?

- Bene. Che fine hai fatto? Sei schivo.

- Conseguenze.

- Vedo che dopo tutto questo tempo la tua carriera ha fatto progressi. Io lo dicevo sempre.

- La meglio gioventù. Era splendido parlare con te, anche di tutto questo. Ho continuato da solo.

- Sei contento di tutto questo?

- Direi di sì, darling.

- Lo sapevo.

- Io non lo sapevo. Ora? Che ne pensi?

- Sinistra. Un po' più in là di te.

- Davvero?

- Sì.

- Perché?

- Sono delusa.

- Ah...

- Ma che fai?

- Me ne vado.

- Perché?

- Fammi un favore: non mi guardare neppure.

Il bar era la solita meta; pioveva. La tenda prendeva solo metà del tavolo con le gambe di vimini. Una chiamata. Chiuso. Spento.
Ordinava un Montenegro e depennava, da un foglio piegato in otto, impegni ottemperati ed altri indesiderati.
Giunto il cameriere con il suo bicchiere, lo guarda dal di sotto del mento.

- Lo sai, è come essere guardato. Non sei del tutto solo. Non vuol dire essere controllato, o schiavizzato, la libertà c'è, è protetta, esaltata. Esiste, però, una specie di ringhiera che accompagna la tua strada. Ragazzo, qualche volta i talloni si gonfiano. Nonostante tu abbia i polpacci pesanti, e lì che devi appoggiarti. Non puoi fare altro.
La vedi quella persona? Posso invitarla a bere qualcosa con me, farla attigere alla ciotola dei miei arachidi e poi farmi sorridere. Credi che in quei momenti io sia rimasto mai solo con quella persona lì? No, mai stato.

C'è un abbraccio verso il quale, con l'andare del tempo, non avverti più una nostalgia che si diluisce nelle incombenze del tempo. Resta un'autentica impronta alla quale ti abbandoni inconsapevolmente, alla quale cingi a rimorchio il decorso dei giorni. Alla quale affidi senza volerlo il transito pigro e la maniera con cui deviare gli ostacoli.
Come una risposta nascosta che fa deviare la decisione sospesa tra due diverse ed eguali opzioni. Pesa pochissimo, come una piuma di rondine.
Ma è quel soffio minimo, alla fine, che ti fa pendere un piatto da un lato anziché da un altro. E quella sottile e madida infiltrazione di vita diventa più dirompente di un grave che blocca l'obbligatoria via di fuga dell'accontentarsi.

Ogni rotta è segnata da questo tipo di incontri, ragazzo. Forse lo sarà anche per te. Te ne accorgi quando tutto questo, che si crea innanzi a te, crolla.
Hai capito, figliolo? Sinistra estrema... e le rette parallele divergono inesorabilmente.
Quel sedimento di certezze ti precipita addosso smascherando tutta l'intemperanza della tua mente. Quando pensi di vivere costellato di taluni immodificabili dati che sfuggono al tuo controllo quando non è la realtà a ponderarli. Bensì l'attesa.

Non si può attendere in eterno, figliolo, sappilo.
Primo poi dovrai lasciarti andare. Però oggi sono particolarmente stanco e scosso, caro ragazzo. Questo fedele bicchiere, oggi, non ci voleva.
Perché è tarda notte e devo tornare a casa.

C'è un amico che sostiene che faccio sorpassi azzardati, un po' al limite. Io rispondo che questa strada la percorro tutti i giorni quasi a memoria, quasi ad occhi chiusi. Ed è più pericoloso che le staristiche degli Airbus precipitati in fondo all'Atlantico.
Lo so.

Penso al mio appannamento in fondo alla sera, a capo di ogni casino e di ogni condivisione.
Penso al pericolo del non mantenere la distanza di sicurezza. Per arrivare presto a casa, attendere vigile il nuovo giorno e capire se qualcuno vi si affaccerà.
Come raramente accade, ma a quella finestra resto sempre inamovibile come una roccia, un po' scazzata. Erosa. Ma roccia.

Per questo ad ogni rischioso sorpasso sembra che ad esserne uscito vivo possa essere stato solo il mio spirito, o la mia volontà frammista. Punti un po' più forti di un'entità corporea perdibile nell'imprevedibilità di un incidente.
La materia imprevedibile e fragile, la volontà indeterminatamente decisa a proseguire indomita.

Ma non posso morire, no. Perché se lei domani dovesse svegliarsi io potrei avere ancora voglia di dirle qualcosa, e lei lasciarsi ascoltare.

Dopo la ciclica rottura di palle, ne riparliamo. Fanculo alle lampade votive, non servono a un cazzo. Diteglielo a quello stronzo nell'ufficio tecnico.
Puah.

martedì 5 maggio 2009

Il conto al tavolino

"Ogni sera vado a letto e penso a quello che ho fatto durante il giorno, e poi mi addormento."

Ora, se io ho provassi a fare davvero questa pratica delittuosa, stasera uscirebbe qualcosa di questo tipo:

Ore 7.00  - suona la sveglia. Ore 7.01 - prima infrazione: bestemmia. Perché tutto questo? Perché dormito male, come al solito.

Ore 7.03 - comincia a squillare il telefono, le ragioni sono le più disparate, le più insulse, le più intollerabili.

Indecente routine fatta di colazione e colluttorio.

Lavoro in proprio fino alle 9.30. Consegna delle cartelle commissionatemi. Esco.
Ore 9.32 - Ennesima contravvenzione al "vietato fumare" della mia lercia esistenza.

Prosieguo di indecente routine: barbiere, rassegna stampa, commissioni.

Ore 13.30 - rientro a casa: trovo il macello.

Il resto della giornata: fare un migliaio di cose con quel macello che nitrisce nel mio cervello.

Giungere alle 2.28 e pensare all'ennesimo giorno trascorso a perdere tempo nell'inutile intento filantropico.
Ad aver fatto discorsi vuoti e ripetitivi ad una piccola porzione di umanità.

A non aver portato a casa nemmeno un contributo utile alla pensione.

Ai 5 caffè, alle 3,00 euro di parcheggio, ai 2 baci ricevuti.

Al rimugino continuo. Alla coscienza pulita, ma con la sensazione di vedervi sopra i tratti salienti delle rinunce e delle ribellioni, come la Sindone.

Alle incomprensioni che non si decristallizzano.

Al perché non ci si vuole comprendere.

Agli errori.

All'inconscio malefico che giace in fondo al desiderio di odiare e farsi odiare.

Alla  ricerca della maniera giusta per saper prendere le cose della vita:
In culo.

venerdì 1 maggio 2009

Atom Heart Alcor





Se fossi un cigno, me ne andrei.
Se fossi un treno, sarei in ritardo.
E se fossi un brav'uomo,
parlerei con te
più spesso di quanto faccio.



Se dormissi, potrei sognare.
Se avessi paura, potrei nascondermi.
Se impazzisco, per favore, non ficcatemi
I vostri cavi nel cervello.



Se fossi la luna, sarei freddo.
Se comandassi, vi sottometterei.
Se fossi un brav'uomo, capirei
Le distanze tra gli amici.



Se fossi solo, piangerei.
E se fossi con te sarei a casa, all'asciutto.
E se impazzisco,
Mi farete ancora partecipare al gioco?


Se fossi un cigno, me ne sarei andato.
Se fossi un treno, sarei di nuovo in ritardo.
E se fossi un brav'uomo,
parlerei con te
più spesso di quanto faccio.

lunedì 13 aprile 2009

mercoledì 1 aprile 2009

Le luci della città

L'ultima volta che ho indossato il pigiama alle 20.30 ora illegale, avevo 8 anni. Avevo trascorso il pomeriggio a giocare a nascondino in un territorio vasto quanto un intero comparto di Piano Regolatore; l'area di verde pubblico con pineta era un rifugio sicuro per non essere scovato, ed il gioco lo prendevo talmente sul serio da rotolarmi sull'erba madida e nel fango, pur di scamparmela.
Peccato che anziché rotolarmi con gli anfibi e la mimetica, ero vestito come si conviene ad un ragazzino che raccontava ai suoi di recarsi devotamente alla parrocchia.
Non avevo ancora ben chiaro, nell'età dell'incoscienza, il trade off tra la vittoria a nascondino e le percosse paterne che mi attendevano precise, senza errabondi imprevisti, nel guadagnare l'uscio di casa con gli abiti lerci come una balla di fieno trainata da buoi con la diarrea.

Era il novembre palloso, ed io solevo così menare il giorno.
Fanculo ai flashback.

Compresi la necessità di asportare l'austerità e l'impegno al di fuori dai ludici meccanismi vitali, quando, quella sera, sacrificai in nome di quella gogliardica competizione tra scalmanati, un paio di bellissimi stivaletti di pelle di camoscio, chiari, con appena due di giorni di vita.
Fui sollevato di forza dagli avambracci pelosi di mio padre, trasportato nei pressi della vasca da bagno, denudato, e utilizzato come cavia per sperimentare il principio di Archimede, sviluppando l'attitudine all'apnea.
Ma quello era niente se paragonato al rito dell'asciugatura dei capelli.
Con il beccuccio dell'asciugacapelli che veniva fatto strisciare come  una rovente  aspirapolvere  ai raggi UVA sul mio cuoio capelluto, per garantire un'arsura tale da carbonizzare il cuscino nottetempo.
Avevo la classica riga a lato, propria di ogni bravo ragazzo taciturno.
Per questo Raffaele Fitto mi sta ampiamente sui maroni. Mica perché fa inviare gli ispettori di Angelino Alfano (che assomiglia al pupazzetto del castoro mentadent che mi fu regalato dal dentista quella prima volta che osarono profanarmi la bocca) nel tribunale presso il quale procede l'inchiesta sulle sue tangenti.

Giocavo con la forbice e mi ritoccavo la curvatura delle unghia delle dita dei piedi.
Quelli sì che erano bei tempi. Ed ogni cazzata è buona per ricordarli.
Meglio cogliere un piccolo insignificante gesto di una normale giornata e utilizzarlo come ponte verso un ricordo lieto e sorridente, che associarvi gli stucchevoli rimandi che ingiungono quando le briglie sono sciolte.

Devo ammettere che, da quando ho lasciato la ricerca, i caffè del pomeriggio hanno un sapore più piacevole, perchè alleggeriti dal fardello del senso di colpa.
Ancora meglio se penso a quel piccolo plico che giace sulla mensola della libreria; contiene un passaporto e due biglietti. Perché purtroppo è previsto il ritorno.
Mi ha divertito leggere un dispaccio inviatomi da un caro amico che si sta adoperando a trovarmi un giaciglio là dove andrò. Ha attivato i suoi benigni canali religiosi, e nella mail che ha inviato ai suoi confratelli, egli ha scritto: "non è un credente, ma è un bravo ragazzo".
Mi dispiace davvero di offrire questa tediosa immagine di me.

Altro lato comico è la incalzante insofferenza del genitore che si impegna a contrassegnare ogni ora con una sciocca domanda circa la sorte che mi attende dall'altra parte dell'oceano.
Ho comprato un'armonica diatonica, e credo di non abbisognare di altro.

Potrei, ad esempio, vagabondare. Come il tramp!
E nella mia erranza, imbattermi ad un angolino della metropoli con una persona di quelle che non ti accorgi che esistono. Perché le persone giacciono in questa specie di guscio che le ignora. Invisibile.

Quell'angolino mi pare d'averlo già visto in un pomeriggio della primavera dello scorso anno. Stavo da solo in un posto dove non capivo un accidenti di quello che la gente diceva con quella R moscia.
Vabbe' che di muretti bianchi nel mondo ce ne sono un bordello. Ma questa persona?
Potrei darle un nome francese, ma comincio ad averne le palle rigonfie al punto da farmi indurire le cisti di 'sti nomi.

Toh, ma è cieca! Provo a toccarla, a sfiorarla, ma lei non riconosce la direzione delle mie mani. Ne sente il calore, forse, altrimenti oltre ad essere cieca è pure 'na cretina. Vende dei fiori, ma più che altro, mendica.
Mi viene in mente di invitarla ad un concerto. Almeno sente qualosa, visto che sugli occhi non facciamo affidamento.
La recidività danza senza sospetto tra il peccato e la virtù.
Disegno il giudizio universale che mi garba, a seconda del piacere che accarezzo; che mi potrebbe fluire ovunque al pensiero di una notte trascorsa con le mie dita intrecciate alla sua mano. Che quella mano è il ponte tra la sua cecità, il suo silenzio, e questo rumore cacacazzo che fa la polveriera della mia coscienza.

La invito, sì. Sono un po' impacciato per la verità.
Perché
non dormo, io ho gli occhi aperti... Guardo fuori e guardo intorno. Com'è gonfia la strada di polvere e vento nel viale del ritorno...

Lei non c'ha un quattrino. Ha un mazzo di garofani chiari e margherite profumate. Non ha nemmeno il tempo per venire al concerto, c'ha da fare. Così dice. Del resto, gli impegni sono impegni.

Probabilmente deve dormire tutto il giorno. Ed è giusto, vivere stanca, lo diceva persino Pavese: arriva un giorno in cui si accumula talmente tanta fatica... ed è preferibile riposarsi tutto il giorno.
Non insisterò, volterò l'angolo dopo averla sfiorata, e me ne andrò.

Io poi combino le mie autonome cazzate quotidiane. Tipo andarmi ad ubriacare qua e là quando capita, e a fare i conti simpaticamente con la volubilità.
Però sarà la sfiga, ma io in questa cieca venditrice di fiori mi ci imbatto.
Che poi io lo faccio un po' capitare di passare per quell'angolino. Magari mi invento qualche verosimile ragione che mi conduce, guarda caso, a dover passar di là.

La venditrice di fiori è cieca. Le chiedo di accompagnarla a casa, e lei si mette sottobraccio. Vorrei abbracciarla, ma forse oso troppo. Si sgancia.

Vabbuò è cieca, c'aggia fa? Confonde le persone perché nate a pochi chilometri di distanza, ma forse confonde pure se stessa e le consone reazioni. Boh.
Però vale la pena farsi riempire di pugni, anche solo per celebrare un temporaneo fanculo alle cui spalle aggrapparsi.
La scena del pugile è bellissima.

Come finisce? Io creperò di caldo.
Al tramp finisce così:





domenica 22 marzo 2009

Seaspotting

Le uniche forme di vita eravamo noi, e i minuscoli eucarioti che facevano manbassa con mezzo limone accostato al marciapiede.

Una specie di zanzariera molle a maglie larghe ricopriva le dune per bloccare le folate di sabbia. Efficiente come un frullatore da bancarella filippina alle prese coi cubetti di quarzo, temeraria quanto la dogana mentale che isso a tutela dell'autarchia dei miei pensieri.

Solo un interrogativo poteva abusivamente filtrare dal mondo entro quel silenzio: "Pronto?" - "Pronto?" - Hanno riattaccato.
Hanno pure il culo di farmi le chiamate anonime alle 4.30 del mattino nell'unico giorno in cui ho il telefono acceso fino a quest'ora.

- Hai sbagliato le percentuali nel tuo discorso sui disvalori contemporanei, Alcor. Hai detto che secondo te: al 10% da bambino non capivi un cazzo, al 20% che sei sfigato, al 70% che è il mondo ad andare a puttane.

- Forse hai ragione: tuttora non ho capito un cazzo, la sfiga è solo un pretesto e sarebbe opportuno che a puttane ci andassi io.