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giovedì 22 marzo 2018

Mattoni

La voglia di scrivere mi ha preso mentre faccio un back up di un database per estrarre dati con SQL.

Questa è sostanzialmente la grande contraddizione di una vita merdosamente bugiarda. Relegare la voglia ad una fessura tra un mattone ed un altro. 
Finché qualche mattone non casca e ti frantuma l'alluce.

Da qualche parte tutto questo furore deve trovare una via d'uscita. Esisterà una illusione più duratura su cui poggiare la necessità di risparmiare se stessi all'atroce di destino di sentirsi un ingranaggio senza molta importanza sul cui capo poter pisciare senza alcuna coscienza?

Quando questa illusione era la voglia di pace, di stabilità e la rincorsa furente verso la normalità, questa epifanica rincorsa raccoglieva tutte le macerie facendone un ponte che si costruiva verso una direzione, una lotta, un senso per cui vivere.

Poi l'approdo. Poi il nulla.
Poi la gabbia senza serrature, spalancata, ma avvolgente, senza lati e pavimenti, senza soffitto, senza corridoi, senza spigoli a sancirne l'inizio e decretarne la fine.

Poi la telefonata che mi chiede di riaprire una piccola oasi verso quel mondo probabilmente e inconsciamente ripudiato dove le sbarre eterne che si perdono alla mia metalmeccanica vista, si ritravestono da rovi da insonnia permanente. Con la puzza dell'erbaccia selvaggia, con la merda di un'insoddisfazione che, cazzo, ci rendeva liberi e infiniti. E le pioggie di lacrime avare, di singhiozzi sotterrati che bruciavano dentro una camera dove adesso non riposa neanche una spiga di graminacea avariata.
Quelle notti senza tregua, con una rabbia che scavava dentro i condotti dell'inspiegabile che divorava i minuti rincorrendo e mandando a fanculo le alzatacce e i richiami di un mondo abissalmente distante e senza importanza.
Quando mancavi tu, e l'insignificante meravigliosa voragine che hai originato in questo animo senza riparo e senza sostanza.
Tu che rappresenti l'epilogo di ogni premessa che tenta di rabberciare l'esistenza in poche frasi che possano emanciparla dalla sua acclarata inutilità.
Tu che sei lo specchio nel quale vado a riprendere immagini di ponti e vallate, di arcobaleni e banchetti tra i profumi dei fiori, e le primavere senza solstizi a invertirne le rotte, e venti che solo accarezzano e non conoscon la furia, e parole spente, ed abbracci senza voglia di disciogliersi... e i soliti racconti di questo sentimento senza contorno, senza dichiarazione alcuna, libero da promesse e doveri, da resoconti e serrature dalla toppe polverose.
Così libero da isolarmi in questo silenzio da te che vivi in una lontananza che è il tuo mondo per me inaccessibile. 
Così libero da impreziosirsi di tante, tansissime cazzate asservite alla costruzione di un altro equilibrio tra la tua instancabile fuga, e la mia caparbia e silenziosa attesa di poterti incrociare in fondo a chissà quale vicolo di questa insondabile e incomprensibile vita.

E qualunque cosa scriverò saranno solo illusori mattoni di carta, gradini di struggente ansia infuocata, per costruire ponti protesi verso il nulla, dispersi verso direzioni sconosciute, alla sola ricerca di te.

domenica 17 dicembre 2017

Nascosti

- Credi che possano riconoscermi se indosso questo berretto?
- Forse..
- Non ho più dei capelli che restano impressi nella mente della gente. Sono corti ed anonimi.
- Son belli comunque. E non sono corti. Comunque no. Non rischiamo.
- Non rischiamo.
- Non rischiamo, potrebbero vederci. Lo sai che non sarebbe giusto.
- Le gente non bada noi.
- Non ne sono certa.
- Da chi ci stiamo nascondendo?
- Ci nascondiamo dalle chiacchiere che ci farebbero del male.
- Anche sottrarci alla luce ci fa del male.
- No, Alcor, no.
- Da chi ci stiamo nascondendo?
- Lo sai.
- Ci stiamo nascondendo da noi stessi. Ci stiamo mischiando alla polvere del tappeto che avvolge le mattonelle rotte delle nostre paure.
- Resta qui, in questa gabbia.
- Non parlo.
- Non parlare Alcor.
- Non voglio raccontarci.
- Non esistiamo se non nelle elucubrazioni della tua noia domenicale.
- Perché fuori fa freddo.
- Perché non sei ancora pronto per uscire, torna qui, nella gabbia.
- Non riesco a camminare sù per il bosco.
- Dormi qui, Alcor.

venerdì 24 novembre 2017

If I rise

Un giorno sono morto e non ricordo nulla. Non ricordo il perchè.

Tra i miei racconti preferiti si narrano gesta infinite che si concludono con morti epiche, che trasformano anime in stelle, storie in racconti eterni, rincorse in inseguimenti che non tramonteranno mai.

Io sono morto quattro giorni fa. Alle 8.15 del mattino è stata constatata l'ora del decesso. Mi piaceva molto Albert Camus. Raccontavo, coglionamente, che l'incidente stradale sarebbe stata la mia principale probabilità di decesso.

Non ricordo come ci sono arrivato, come è successo. Il volto di chi mi ha salvato in quel momento.
Non ricordo il mio volto, non credo di averlo mai visto.

Qualunque alba proietti il giorno nel mondo, quella luce aveva di nuovo il sapore della penna indolente che non s'addormenta sui crinali della noia.
E che persino la mia stessa morte mi è stata trasmessa in replica. Neanche lì ho potuto avvertire il dolore arrampicarsi dalle viscere fino all'attico della coscienza.

Me l'hanno raccontata coloro che l'hanno vissuta al mio posto, che l'hanno sofferta mentre io fingevo di emanciparmi dall'indifferenza interrotta da qualche mal di testa. 
Non l'ho vissuta, come quasi nulla di ciò che segna l'esperienza dell'esistere di una ghianda o di una pigna.

Non vivremo mai, saremo solo racconti traumatici che si perderanno nel tempo.
E allora, torniamo a raccontare questi giorni e le loro menzogne.

sabato 8 luglio 2017

Apocalypse Later

Ho osservato una lumaca strisciare lungo il filo di un rasoio, questo è il mio sogno, è il mio incubo: strisciare, scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere.

Non era questo l'attrezzo che avevi sempre desiderato impugnare? Guardalo bene, ha una comoda presa, non indurisce il palmo della mano, ed è leggero, pratico. Impari ad usarlo spontaneamente. Non ti ci devi applicare neanche.

Avanti, coraggio, non essere cauto, afferralo, è scarico. Non ti farà del male.

Sei oltremodo esitante. Avevi perduto ogni speranza di ritrovarlo qui a tua disposizione? Quanto a lungo lo hai cercato... e il solo pensiero di potertene impossessare così semplicemente ti sembra profanare ogni sforzo compiuto invano per poterlo ritrovare con le tue sole forze.
Hai mai pensato al tempo che hai impiegato? Alle rinunce che mentalmente offrivi in pasto alla sorte affinché accorciasse la maturazione della tua conquista. Alle scommesse giocate con la tua anima affinché tu barattassi qualche frammento della tua anima per godere finalmente del tuo desiderio.
E ora quell'inutile commercio, quella frode della tua mente che aggirava il fuoco della tua realtà, evapora lasciando il sale bruciante di una vita non più avvolgibile al suo antico destino.

Persino le consolatorie esperienze sembrano palliativi che crollano al peso dell'inganno. Nessuna esperienza, nessuna crescita. Solo del bianco espanso sui peli della tua barba. Solo una pelle più ruvida e le mani più gonfie. 
Fai la tosse e annoveri dolori sparsi senza origine.
Ti stai estinguendo. Com'è naturale che s'estingue la vita.

Ricorderai a stento quelle mancanze, ti incatenerai presto al pensiero che sarà sfuggito via qualcosa dagli innumerevoli appelli lungo le file umane del rancio.
Hai cominciato a non ascoltare nemmeno il tuo nome.

Un giorno sparirà tutto, e nulla si collocherà al giusto posto. Non avrai alcuna spiegazione al tuo dubbio latente, non incontrerai quei volti che hanno scavato rughe sempre diverse sulla piana dei ricordi.
No ti resteranno altre che le ultime parole che hai saputo raccogliere nell'appendice finale delle tue rubriche umane.

Neanche ora, all'esplosione di questo magnifico nulla.

martedì 21 luglio 2015

L'uomo e la grotta

Abbiamo studiato, abbiamo viaggiato, abbiamo scritto, abbiamo filmato quello che abbiamo scritto, abbiamo amato, abbiamo detestato, abbiamo rilanciato, abbiamo avuto stenti, abbiamo subito la circoncisione, abbiamo conosciuto il potere, abbiamo persino vissuto, talvolta.

Abbiamo conosciuto luoghi che hanno segnato le nostre coscienze come una macchia di olio motore sui polpastrelli. La vita ci ha teso trappole come il venerabile Jorge arrapato da una commedia.

Sembrava che l'unica mèta geografica raggiungibile sarebbe stata la penisola del prossimo divano, in un salotto adornato di copie false di Munch e incensi all'oppio, con bottiglie di brandy lasciate a metà ad evaporare di inedia, e la collezione di piccoli Trudy a memoria delle tue ex come unici possibili trofei di caccia. 
Una vita avventurosa che ha conosciuto i suoi massimi sforzi solo quando chinata sull'ovale trono, protesa all'espulsione dei sottoprodotti dell'apparato più ginnico del proprio essere.

Ora sono qui, da solo. In un luogo dove la temperatura è costante, ed il tempo è scandito da uno stillicidio lontano su una parete di zolfo. Un tacito sussurro che fende il silenzio assoluto, e l'indifferenza del buio trasforma le palpebre in inutili lembi epidermici. Sento il mio odore, quello della stanchezza che segue allo sforzo di una risalita da un pozzo stretto e profondo una decina di metri. Pochissimi ma infiniti alla prova di chi fino a ieri sembrava non essermi mai mosso.
Il silenzio, il buio, una goccia d'acqua fredda, ed una corda da dieci millimetri impregnata di fango che ti salva la vita.
Quelle rocce sono lì da migliaia di anni, sono crollate quando il fiume si è ritirato in questo letto sotterraneo. E adesso ogni goccia scava queste pareti con la perseveranza dell'eternità. Ho attraversato meandri fangosi e strettoie che avrebbero fatto intimidire una mia sola gamba nei periodi di massima noia.
Sono stato appeso per quasi un'ora nel buio. La mia vita è stata affidata alla tenacia di uno spit infilato nella pietra ad un'altezza che non posso immaginare. Il moschettone ed il nodo che mi reggono sono fuori dalla portata della mia vista. Devo risparmiare il fiato, devo misurare la risposta d'acqua alla mia eterna sete, devo risparmiare le energie dosando con esattezza i movimenti delle mie caviglie e delle mie ginocchia, in un gioco di equilibri in un cappio in cui è infilato il mio piede. Ogni movimento sfasato, ogni scatto di rabbia che mi allontana dalla precisione con cui deve essere dosata la mia azione, mi allontana dalla resurrezione.
Le gambe si indolenziscono alla morsa delle fasce del mio imbrago, troppo a lungo sono state inermi, e bramano la riscoperta della vita per la quale il mio genoma le ha programmate.

Nessuno può tendermi una mano, o aiutarmi a sganciare la morsa bloccante che tiene ferma la corda al mio petto, consentendomi di restare appeso.
Sto usando muscoli che non credevo neanche di possedere, e per la prima volta nella mia vita mi impongo di non tremare, di non irrigidire la mia carne davanti all'ignoto, di non arrendermi e di avere fiducia. Un giorno quella fiducia saprà scorrere limpida e autonoma, dopo che il crollo delle mie paure e resistenze scaverà letti millenari che la raccoglieranno, e quelle gocce sapranno pazientemente zampillare in ogni atto della mia esistenza che sarà generato dal momento esatto in cui potrò consegnarmi al sole o alle stelle.
Perché io dovrò uscire prima che il freddo venga a prendermi. E dovrò uscirne da solo. Entrato per caso, uscirò con la volontà.

Avrò le ginocchia bruciate e le caviglie gonfie, non basteranno due giorni per smettere di dormire, camminerò sulla mia strada come mi avessero montato i piedi per la prima volta, e dopo aver conosciuto il buio, i miei occhi sapranno distinguere meglio i contorni ed i movimenti delle cose del mondo.

E quando guarderò a me stesso saprò che ho fatto parte dei moti millenari che hanno costruito questo universo, ricongiungendomi a quella polvere che ha generato le stelle, i pianeti, le rocce, la mia carne e tutti i miei sogni.

lunedì 6 luglio 2015

Speleo Alcor

Cronache di un week end underground nel vero senso della parola, a Verzino (KR)

I nostri eroi: Grossman, Bart, Alexander, Danny, Bechy, Alcor, Frank, Francys.

I nostri si ritrovano alla stazione di servizio ESSO nei pressi di Chiatona (TA) sulla s.s. 106. Dopo aver fatto colazione, rigorosamente offerta dai ritardatari in base allo statuto “grossiano”, alle ore 9.00 circa, e con un ritardo di circa 1 ora sulla tabella di marcia prestabilita, ci inoltriamo lungo la statale Jonica.

Una prima forzata sosta lungo il tragitto avviene approssimativamente all’altezza di Roseto Capospulico, quando un posto di blocco della Guardia di Finanza, insospettito, ritiene meritevole di approfondimento la vettura del Bart, probabilmente a causa della nota pericolosità degli individui ivi presenti.
Effettuata una seconda pausa caffè subito dopo Sibari, si è approfittato per chiedere ragguagli a gente autoctona a proposito del migliore e sicuro percorso per raggiungere Verzino.
Confidando illuministicamente nella modernità decidiamo di affidare i destini nostri, e delle auto, al navigatore Google del Bart, rassicurati dalla indicazione di un percorso attraverso la rassicurante voce “strada provinciale”.

Intrapresa la via che ci avrebbe condotto a Verzino attraverso Umbriatico, troppo presto ci rendiamo conto del ruolo fallante dei navigatori satellitari, ancora non muniti di intelligenza propria, e cogliamo l’occasione per apprezzare le condizioni infrastrutturali calabresi, discettare di federalismo incompiuto, e constatare l’effetto franoso delle precipitazioni sulla viabilità del luogo. Il pensiero di tutti va alla vettura dell'Alexander, già particolarmente provata dalla precedente esperienza di Muro Lucano, e nuovamente costretta a cimentarsi tra buche, sterrati, cedimenti, e crolli di asfalto.
Infine giungiamo a Verzino intorno alle 13.00 dove ad attenderci vi erano Frank e Francys del locale gruppo speleo. I nostri amici ci conducono alla sede del gruppo dove abbiamo la possibilità di sistemare i nostri averi
.
Alle 14.00 circa perveniamo sul sito di Grave Grubbo e dopo aver proceduto alla vestizione, alle foto di rito, e ad una serie di rituali tipici del luogo (omissis), alle 15.00 circa siamo all’ingresso della grotta che si presenta subito molto caratteristica e scivolosa fin dalle rocce esterne prospicienti l’ingresso. Dopo esserci calati dal pozzo di 6 metri decidiamo di lasciare i nostri imbraghi e di proseguire liberi alla scoperta della grotta messiniana. Questa si esibisce pochissimo concrezionata ma molto spettacolare per le sue volte di gesso lamellate dallo scorrere millenario delle acque. Preziose le indicazioni geologiche fornite dal  Bart circa le origini della grotta e le caratteristiche della stessa, che ci accompagnano lungo il ramo della “Cenerentola” per un breve tratto. Meritevoli di menzione sono alcune curiose formazioni che lasciano liberamente immaginare il desco di un bar con bancone, utilizzate dai nostri per alcune prime dilettevoli fotografie coreografiche.
Successivamente ci imbattiamo in una parete caratterizzata dalla presenza di piccoli sbocchi d’acqua fredda, prontamente utilizzati dal Alcor per placare sul nascere la sua notoria sete. Infine, lungo questo tratto, il Frank ci mostra orgogliosamente la “perla della Calabria”, una concrezione stalagmitica che Dan Brown nel suo Codice Da Vinci avrebbe senza dubbio inserito nella sua ricostruzione fallocentrica della storia umana.

Ritornati alla biforcazione iniziale, ci apprestiamo ad affrontare il fiume, che ci cattura immediatamente con il suo fragore. Ci inoltriamo lungo un percorso di circa 3 km sino al laminatoio,  e man mano che ci addentriamo la presenza dello zolfo diventa sempre più evidente. Lo splendido scenario della grotta è reso ancor più peculiare  dal fiume che mette a dura prova  la capacità degli esploratori di non scivolare sulle rocce madide. Giunti nei pressi di una piscina naturale, alimentata da una piccola cascata, situata poco prima di arrivare al laminatoio, il gruppo fa una sosta per fotografare gli ambienti, ed l'Alcor ne approfitta per testare le potenzialità della sua muta subacquea trascorrendo qualche piacevole minuto in quelle “Chiare et fresche et dolci acque”.
Giunti alla fine del percorso stabilito, i nostri ripercorrono il loro tragitto al contrario per tornare all’uscita, non senza cimentarsi in cadute e scivolamenti per fortuna senza conseguenze.
I nostri escono dalla grotta alle ore 19.20 circa per fare ritorno alle auto.
Lì ad attenderci è un campione di prelibatezze locali gentilmente offerti dagli amici Verzinesi.

In serata, dopo aver provveduto al lavacro delle stanche membra, ci rechiamo a cena in un agriturismo. Il menù prevede pizze ai sapori tipici, orecchiette in bianco al daino nella duplice variante con panna e senza panna, penne al sugo di cinghiale e spezzatino di cinghiale in umido; birra, vino, grappa e digestivi.
Dopo cena, il meritato riposo.

La domenica mattina, dopo aver consumato la colazione con caffè offerto da una gentilissima signora residente nei pressi della sede del gruppo speleo, crostata con marmellata di amarene offerta dalla signorina Danny, e pasticcini offerti dal Frank, ci rechiamo in località Caccuri, dove possiamo apprezzare le proprietà terapeutiche dei fanghi dei laghetti di acqua sulfurea. Appena arrivati i nostri si imbattono in uno strano figuro dalla pelle grigia che a prima vista si palesa come l’apparizione del sacerdote Imothep nel film La Mummia. Sincerati sulla natura umana dell’individuo, e appresa la pratica di infangamento terapeutico, i  nostri decidono di infangarsi completamente a loro volta, fino all’essicazione completa del proprio epidermide, per poi immergersi del tutto nell’acqua purificatrice.
Con l’occasione la Bechy offre gratuitamente al gruppo una lezione di acqua gym che ne esalta le qualità di istruttrice.

In seguito gli speleologi si recano presso una limitrofa sorgente d’acqua sulfurea, a differenza del Grossman e del Alcor che restano presso i laghetti a discutere con una turista calabrese di eclatanti casi di malasanità, e vizi della pubblica amministrazione.
Alle ore 13.00 circa si consuma un piccolo pasto frugale a base di pane, prosciutto crudo calabrese, formaggi e salsiccia piccante, il tutto con del buon vino rosso locale, asprigno ma gradevole.


Giunti alla controra , sopraffatti dal caldo, i nostri, dopo essersi accomiatati dagli splendidi ed ospitali amici Verzinesi, non senza un tocco di malinconia, decidono di fare rientro in patria.

martedì 30 giugno 2015

28 - XX - 20XX

Hai sete? Ancora vino?

No, grazie.

Dimmi dove ti fa male.

Qui.

E adesso?

Ahi!

Adesso?

Va meglio.

Vado di là, ti lascio sola.

No, puoi restare.

Va bene, resto.

Che fai?

Perchè?

Sei lì fermo, quasi in attesa di qualcosa.

Inizio la mia veglia.

Veglia? Non dormi? Io sono molto stanca.

No, non saprei perché addormentarmi.

Non hai sonno?

Dormo molto poco da qualche tempo. Preferisco restare qui e vederti dormire come se stessi ammirando un'opera d'arte. Meraviglia e silenzio.

E non hai paura di addormentarti?

No. Ho paura di svegliarmi. E capire che tutto questo non è accaduto mai.

lunedì 11 maggio 2015

Il Conto del veterinario

Comunque il tuo cane è anziano, stavolta è andata bene, ma tieni in conto che può andarsene da un momento all’altro.

 Anzi, dovresti tenere in conto che anche io potrei andarmene da un momento all’altro.

Ok. Anche tu potresti andartene da un momento all’altro.

sabato 2 maggio 2015

Un apatico

Mercier uscì di casa perché non riusciva a dormire. Entrò nel nuovo bistrot nella piazzetta della cattedrale, e dalla popolazione che si palesò ai suoi occhi riuscì a comprendere quale sarebbe stato il destino di quel posto. 
La proprietaria gli venne incontro con rumorosissimi passi, e Mercier fece una smorfia di disappunto con il rintoccare di quei tacchi se sembravano volerlo assalire. Ordinò dello scotch e fissò per un attimo un tavolo poco più in fondo, dove un uomo molto alto e ben vestito stava urlando qualcosa ad una ragazzetta che a stento tratteneva le lacrime. In giro calò uno strano silenzio, e tutti parvero coinvolti nella lite tra i due, ma Mercier concentrò i suoi occhi sul suo bicchiere, e con la punta delle dite della mano destra spostava avanti e dietro un quadrato di cioccolato bianco.

La proprietaria rimbrottò qualcosa di riprovevole sull'uomo più in fondo, e in generale sembrava avercela con tutti i presenti di quella serata, per lo più ubriachi. Mercier distoglieva lo sguardo dal suo bicchiere ogni volta che la donna appuntava nei suoi discorsi un nuovo individuo; Mercier lo guardava un attimo, e poi rientrava sulla sua rigida posa.
La donna si fermò all'improvviso, e prese a fissarlo silente. Mercier s'accorse di quello sguardo dopo qualche minuto. S'accorse del suo sguardo languido, e del viso ammiccante. La donna tornò sul retro, e andando via sfiorò il braccio di Mercier che ancora reggeva il bicchiere vuoto. Lasciò la porta socchiusa, rivolgendogli un ultimo sguardo.
Mercier girò dietro il bancone e la raggiunse. La donna era piegata a sistemare dei barili di olio. Mercier le si avvicinò e la prese dai fianchi. La donna gemette, e tentò di baciarlo, ma Mercier allontanò la sua bocca, spingendola con forza contro un bancone. Le sollevò la gonna e la prese da dietro.
Fece presto.
Prese uno straccio e si ripulì le mani. Si sistemò i pantaloni e fece per allontanarsi.
- Ehi! Tu! - Gli urlò la donna.
Mercier si fermò davanti la porta, ma non si voltò a guardarla, ne sentiva lentamente allontanarsi le urla e le maledizioni. Poi uscì verso la notte.

La Luna illuminava il cielo ad est, a pochi centimetri dalla costellazione della Vergine. Mercier accusò un leggero brivido, poi proseguì il suo cammino alternando i propri passi sulla colorazione a scacchi delle chianche sul viottolo.
Pensò a sua madre, e al dolore che avrebbe provato nel ricevere la notizia. Pensò a quella vita che sfioriva come in preda ad un interminabile inverno. Pensò a quelle combinazioni cosmiche che tornavano a mescolarsi nel caos, alla chiamata di una nuova vita a cui non si sentiva pronto di garantire una rigenerata presenza.
Pensò a come sarebbe stata la sua morte, alla gente che avrebbe condizionato, agli eventi che avrebbe messo in moto. Pensò ai pochi giorni dall'imprecisato numero che lo avrebbero ancora visto sulla scena del mondo a recitare ruoli comprimari. Si ricordò di una donna amata anni addietro. Della debolezza con cui aveva avvilito col tempo quei giorni dal sapore dolce e ricco di speranza. Dell'abbandono lento cui s'era condannato non riuscendo a nutrire un senso alcuno ai suoi giorni, e a quella serenità così scomoda.
Da lì a poco quel ricordo si sarebbe affastellato ai tanti racconti incompiuti che hanno ricopiato nei secoli le bozze del mondo, avrebbe avuto volti di vite mai nate.
Ricordò la profondità di quei giorni che pure gli furono sottratti con violenza. Pensò che, in fondo, in quello stretto recinto in cui s'era confinata la sua possibilità di scegliere non provava alcuna paura.
Quando lei se ne andò Mercier pensava che avrebbe dovuto fermarla, che avrebbe dovuto riprendersela. Che avrebbe dovuto forzare lo scorrere inevitabile delle cose piegando la vita alla sua volontà.
Come l'uomo nel bistrot che urlava contro la ragazza, avrebbe dovuto imporre al suo stesso mondo delle regole rigide e dei contorni precisi.
Pensò che racchiudere quei sogni condivisi in un solitario epitaffio coi tempi al passato l'avrebbe assolto per l'eternità. Quell'eternità che stava per giungere a compimento di lì a breve.
Mercier osservò che in quel momento tutti i suoi dubbi stavano per disperdersi. Anche la Luna, apparentemente costante ed infinita, avrebbe fatto a meno di lui. Così nulla al mondo ne avrebbe mai reclamato la presenza o aborrito le intemperanze. 
Si sedette su un improvvisato giaciglio ai piedi di un pino avvolto nella notte. Respirò l'odore della pece che veniva rafforzato dal suono tenue del vento tra quei rami. Si sentì chiamare un'ultima volta.
Sapeva che il  momento stava per arrivare, ma non lo avrebbe mai afferrato fino in fondo. Si sentiva impotente, come tutte le volte che la vita gli era sfuggita di mano.
Ma in quel sibilo tra i rami ascoltò il canto della sua resa al tempo, e nella sua mente rivolse delle ultime parole a sua madre.
Le disse che non valeva la pena aspettarlo a pranzo. Le disse che aveva perso l'illusione di poter governare il vascello della sua propria esistenza, e che nell'inevitabilità del naufragio ogni condanna risultava inefficace.
Attese che quell'attimo anarchico lo cogliesse. Non aveva idea di quando avrebbe potuto coglierlo. Un'ora o un mese, che differenza avrebbe fatto?
Mercier lo attendeva, e si addormentò.
    

lunedì 28 gennaio 2013

Il peso del fumo

Avevo smesso circa un mese fa. Niente più monete da introdurre in quelle maledette macchinette self service delle stazioni di servizio.

Niente più mal di gola appena svegli. Qualche scrocco qua e là. Persino la voglia di tornare a correre e darmi un tono.

Stamane invece ci sono tornato, da lei, dalla mia sigaretta..Ci sono tornato tre volte. Complici un paio di notizie incoraggianti da dover immediatamente condividere con qualcuno e allo stesso tempo con nessuno. 

Perché è questo, in fondo, una sigaretta. Lasciarsi andare a qualcuno e nessuno allo stesso tempo, arginando ogni intento di cedevole donazione.

Ci sta, dopo una separazione recente. Come quando molli da poco una che ha condiviso una buona parte del tempo della tua vita. Dopo un po' vien voglia di tornare per brevi isolati istanti, per appagarsi un po' mediante essa. Perchè la brusca interruzione crea qualche scompenso, e malgrado la voglia di liberartene, di spegnere quella persona dalla propria vita, può essere faticoso rinunciare a quelle scopate garantite.

E allora magari ci torni, dopo un po', per l'ultima volta. Magari col pretesto di dare a quella dimensione una possibilità di resuscitazione, che non è altro che mero istantaneo usufrutto.
Tenendoti stretto un piacere vissuto con qualcuno e nessuno allo stesso tempo.

E stamane ci ho scopato 3 volte, con la mia sigaretta.

domenica 29 luglio 2012

Three Dark Knights

Mentre si recava, come ogni giorno alle ore 15.30, presso il suo tabaccaio di fiducia, l'unico che avesse il self-service sempre funzionante, avvertiva la moneta sparpagliata nella sua tasca, tra le chiavi di casa e l'accendino, zavorrare le sue bermuda tendenti allo scivolamento sotto il culo per via del congruo carico.

Accendeva così la sigaretta antelucana, quando un conoscente gli si accostò.

- Com'è? Hai messo in fuga una banda di scassinatori! 
- Sì.
- Mi hanno detto che stavano tentando di forzare le grate del bar sotto le finestre di casa tua.
- Sì.
- Mi hanno detto che stavi rincasando in tarda notte quando hai notato delle strane ombre nel cortile, che ti sei accostato alla ringhiera e che hai intimato loro di andar via con aria minacciosa.
- Erano molto scaltri, sì, vestiti di nero si confondevano nella notte. Per fortuno ho uno sguardo attento, io.
- Che coraggio! Ma quanti erano?
- Ah... erano in 3...
- Cazzo! Ma ci pensi che se fossero stati armati, avrebbero potuto spararti?
- Eh... ma dovevo intervenire, non potevo lasciarli fare.
- Erano sicuramente mascherati...
- Sì, avevano il passamontagna.
- Ti è andata di culo... di sicuro erano stranieri.
- Slavi, certamente erano slavi, l'ho colto da come scavalcavano la ringhiera.
- Va be', ciao.
 - Ciao.

Le ore che precedettero quell'eroico atto furono trascorse nella rosticceria del centro, dove il segretario della sezione del Partito Comunistra gli offrì due panzerotti fritti, appena emersi dalla friggitrice, con il fumo che gonfiava il ripieno di salsa e mozzarella.
Egli, per sdebitarsi e per agevolare il transito intestinale di entrambi, offrì al compagno generoso un paio di birre vendute a saldo nella vicina sede del Partito Democratico. 
Bevute fresche tra un sigaretta e un discorrere sulle prospettive di rilancio urbanistico.

Tornato abbastanza presto a casa, il nostro eroe decise che dopo la tappa evacuativa in bagno, sarebbe stato meglio adagiarsi sul letto, perché l'indomani mattina avrebbe dovuto svegliarsi presto per preparare il suo consueto viaggio verso il nord italia.

Purtroppo il programma notturno non procedette come da schema. Suo fratello, infatti, ritenne indispensabile persistere con la luce accesa fino alle 2.30 perché non poteva assolutamente sottrarsi dall'intrattenersi in chat con qualcuna delle sue anelanti pie donne. Ed ovviamente non sarebbe stato accettabile per costui vivere dignitosamente il senso più profondo di quelle conversazioni, senza il sottofondo di musica porno-pomiciante da imboscamento maniacale.

Il contesto avverso gli impedì pertanto di crollare nel sonno, allorchè il furbo consanguineo, eseguiti i doveri notturni in omaggio alle sue amanti virtuali, sostituì al delicato sottofondo sonoro di cui sopra, un ronfar beato e appassionato, degno d'un lamento di bue impedito forzosamente dall'accesso alla sua greppia.

Assuefattosi presto a quel tumulto sonoro, ecco affacciarsi meschinamente il più arcigno degli ostacoli frapposti fra la sua persona stanca e l'agognato riposo: una austera e turgida erezione.

Intere settimane di astinenza sia di tipo condiviso che autonomo, si produssero, durante quella notte sfortunata, in una ribellione ormonale a cui la sua attesa paziente non seppe porre risoluzione. Il richiamo testosteronico, al contrario, s'andò via via intensificando, e cominciò a risalire i canali dell'animo per giungere a stringere d'assedio la mente, impegnata  a mantenere a favore dell'insonnia la prerogativa ipotecaria sui desideri notturni.

Il crepuscolo ante r.e.m. formattò i suoi pensieri a guisa di postriboli a cielo aperto, dove volteggianti sagome venivano scolpite da tale improvvisa intemperanza notturna, impresse da rintocchi di metallo regolari ed echeggianti.

Rintocchi che presto calamitarono la  sua attenzione, manifestandosi come urti soffocati su superficie metallica, simile all'opera di un fabbro. Ma alle 3.00 di notte, quale mai potrebbe essere l'opera umana così come percepita? Scavò nella sua mente confusa tra le bramosie disattese e non vi trovò alcuna ragione adeguata a giustificare la persistenza di quei rumori.

Allorchè comprese che qualcosa di oscuro era al lavoro, forse un erede di Efesto, forse uno di quegli spiriti da indigestione di cui sono pieni i racconti dei trisavoli. S'alzò, e scalzo con l'erezione tutt'altro che sopita, si diresse verso la sua finestra e provò a muovere le tapparelle.
Il livello di ansia irrobustiva l'intensità di quei rumori che sembravano adesso riempire lo spazio della sua stanza, e quasi rimbombare per tutta la casa. 
Possibile che questi suoni colpissero solo le sue orecchie e non anche quelle del fratello russante, o dei vicini chiacchieroni, o delle gatte in calore che colonizzavano il quartiere?

Possibile che la notte non riuscisse a produrre adeguati anticorpi naturali a quel dirompente agente esterno che stravolgeva il copione di una agitata notte di inizio estate?

S'alzò nuovamente nell'oscurità, e prestando attenzione a non urtare con gli alluci contro i muri, e a tenere largo il pigiama inferiore per mascherare l'origine dei suoi turbamenti, si diresse verso la seconda fonte di ronfamento della casa: la camera di suo padre.

- Papà!
- Eh! Che c'è? Che vuoi? - rispose allarmato
- Sento degli strani rumori metallici provenire dal cortile, vieni a sentirli anche tu.

Entrambi scalzi e ansiosi si diressero verso il finestrone che s'affacciava sul cortile malefico dove gli spiriti maligni stavano presumibilmente gozzovigliando. I rumori s'erano fatti più tenui e attenti, ma evidentemente esistevano anche al di fuori del suo cervello pervaso da "istinti tipo Natural Geographic, dvd n.5 - l'accoppiamento all'epoca dell'homo erectus".

Suo padre indugiò con la mano sulla maniglia della finestra, mentre lui gli era accanto, contento di aver constatato di avere ancora un barlume di lucidità. 
Il padre avvertì un rumore brusco di urto metallico. Decise. Aprì la finestra.

I due s'affacciarono sul cortile e la notte apparve loro pulita e disabitata.
D'un tratto, ai loro sguardi annebbiati,  si materializzò innanzi una scala, appoggiata alla parete del cortile. I due s'affacciarono meglio e a pochi passi da loro individuarno le sagome dei cattivi.

- Ehi! Disgraziato! - Urlò suo padre alla vista di quei manigoldi. E tre snelli esemplari di scassinatori di serie B in tuta metalmeccanica, passamontagna, dotati di picconi, tenaglie, e piede di porco, balzarono spaventati alla vista dei due nottambuli. 
Stavano tentando di divellere, in maniera molto discreta e con la delicatezza di una  ferramenta in fase di crollo, le grate delle prese d'aria dei cessi del bar sottostante la finestra da cui i buoni li avevano colti in flagranza.

A due metri di distanza, si fronteggiavano il bene e il male.

- Noi ce ne andiamo. Ma voi non chiamate nessuno. Non sono affari vostri. - Esclamò il leader degli "Ocean's three" degli sfigati, esprimendosi con un perfetto accento estremamente locale.

- Be', dai, andatevene, ché vi abbiamo riconosciuto. - Bleffarono astutamente i due paladini della giustizia in pigiama, in quanto l'unica cosa riuscita a quei tre deficienti era giustappunto il travestimento da palombari del deserto di ghiaccio venusiano.

- Anche noi vi abbiamo riconosciuto. Non chiamate nessuno. - Rispose il capo spedizione con aria di minaccia molto più  concreta. 
Mentre i tre scavalcavano il muro e la ringhiera del cortile per darsi alla fuga, rinuciando al loro ingente bottino costituito dall'incasso giornaliero di una macchinetta videopoker, la cassetta dei gettoni per il biliardo, e un paio di flipper, le menti dei due paladini della giustizia si rivolsero ai pneumatici delle loro rispettive autovetture, o alle fiancate delle stesse.
E nello sguardo del padre che incrociava simultaneamente quello del figlio si sarebbero potute leggere queste parole:

- La mia macchina è al sicuro in garage. La tua no. Tié.

Ma affinché un tentativo di violazione della legge di quella gravità fosse punito fino in fondo, era necessario agire anche attraverso la leva pedagogica e redentrice. Conscio di questo, il padre si rivolse nuovamente allo sconfitto leader dei tre ladri fuggiaschi:

- Ehi tu! 
- Che c'è?
- Quella scala è vostra?
- Ah, sì!
- Toglietela da lì, portatevela via, ché dà fastidio.

Ed ulteriormente umiliato nella sua professionalità da scassinatore, il leader del gruppo tornò sui suoi passi per riprendersi la scala che stava dimenticando sul luogo del delitto.

- L'ordine prima di tutto. - Disse il padre al figlio, mentre spiegava l'accaduto al resto della famiglia destato dal vociare inconsueto, e prima di allertare le forze dell'ordine.
Intanto, l'insonne figlio provò a ri-adagiarsi sul suo letto. Ma comprese immediatamente che avrebbe dovuto porre rimedio alle sue turbe ormonali che gli impedivano un riposo ancor più meritato dopo il suo gesto eroico. 
Si recò in bagno, e s'abbassò i boxer affrontando direttamente il suo detrattore del sonno, ancora in ottima e vispa forma. 
Pensò che grazie a quell'erezione invincibile, quella notte, un crimine non ebbe modo di compiersi.
Trionfante d'orgoglio, prese piena coscienza della portata dell'evento, masturbandosi nell'accesa libido amplificata dall'autoesaltazione eroica.

Finalmente l'ormone s'acquietò. 
E tutti e tre gli eroi trovarono pace in quella notte in cui i criminali avrebbero dovuto temere più d'ogni vigilanza notturna, più di una ronda leghista della brianza, più di robocop, la benigna minaccia di un cavaliere oscuro, sempre vigile e attento nei boxer di un insonne.

L'indomani mattina il proprietario fortunato del bar era nel cortile a raccogliere le testimonianze dei testimoni oculari. 

- Grazie - disse il barista ai due giustizieri della notte.
- Grazie al "cazzo" - rispose il figlio, che cominciò a fantasticare in che maniera la leggenda si sarebbe diffusa tra le chiacchiere della città.

domenica 15 luglio 2012

Explosion in the sky

C'era uno strato di carne molto spesso che aderiva alle pareti interne dell'uovo che mi ha conservato. Non riuscivo ad assorbire i rumori esterni, e così ho cominciato a coltivare una lingua propria per far vivere nella mia mente gli oggetti che percepivo. 

Ricerca assillante di un guizzo sconosciuto a cui prestare un nome per poche ore. Il tempo necessario a perforare l'indolente membrana che atterrisce gli stimoli di polpastrelli feriti, che scappano inseguiti dai feroci bombardamenti dei secondini contaminati.

Gli impulsi si celavano tra i codici delle conversazioni intercorse con la maschera bianca, durante le vane attese di un senso che potesse germogliare inseguito dall'alba, alle 4.15 del mattino.
Molto poco saggia fu la scelta di andare senza portare con sè le provviste della memoria e una traccia del proprio tragitto, che potessero almeno sottoporre all'attenzione del sonno una meta da raggiungere a colpi di rinculi di cannoni, ruggenti nell'opposto senso avverso gli avamposti di unua stonata sopportazione silente.

Questa pozza nel terreno non mi è nuova. Ci ho pisciato dentro innumerevoli volte. Mentre attendevo l'esplosione del cielo, e i nani bianchi schiudersi in una pioggia di biglietti di benvenuto nel creato, dove apporre una firma elettronica in calce al decalogo delle spiegazioni esemplificatrici di tutta quella massa condensata nel tuorlo delle vocazioni condensate.

E non ci sarà bisogno di nessuna casa, perché torneremo ad ascoltare del blues, fottendocene del colore delle nostre scarpe, dell'accento dei nostri liquori, dei vessilli rappresentativi di ordini imperfetti e dei metri che avranno raggiunto le nostre barbe.
Cadranno gocce di sudore nelle vaschette di questa colla che tiene elasticamente aggregati gli umani.

Vado a farmi una passeggiata tra i corridoi del bosone di Higgs. Porto con me una penna per prendere nota, e un gesso per disegnare sui muri della materia oscura, versi cianotici inneggianti decapitazioni di dei strafottenti.

- Che ti prende, Alcor?

- "Alcor", hai detto?

- Sì. Che magnifici suoni, ricordi?

- Di fogli nel temporale, di lettere nella tempesta, di marmellate scadute sganciate dal cielo per ingannarci.

giovedì 9 febbraio 2012

Padre Platone

La nuova frontiera del relativismo occidentale:

- Non fa assolutamente freddo, è che stai seduto e non fai movimento.

Ogni tanto ci ripenso all'eventualità di ricominciare a scrivere, ma poi mi chiedo se vi sono spazi della vita di un quasi trentenne che meritano di essere raccontati. Occorre, a tal proposito, ricordare che io odio la categoria dei trentenni, indi attualmente sono pervaso da un brivido latente di quasi-odio verso l'universo tutto incluso.

Le iperboli felici me le tengo strette dentro, le schifezze pure, la mediocrità che invade nel mezzo dei due estremi è sintetizzabile nel mal di stomaco che anticipa la sveglia ogni mattina.

- Guarda che scempio quel palazzo anni '60.

- Sono stati anni che hanno distrutto il concetto di arte.

- Quello che chiami progresso è la corsa dell'essere umano verso l'autodistruzione.

Però quando parlo coi clienti il mondo diventa automaticamente meraviglioso e la speranza spadroneggia col suo motofurgone preso in leasing dalla Menzogna Spa.

domenica 27 novembre 2011

Focolari

Sua madre era decisamente convinta che fosse stato lui a svuotare quella vecchia bottiglia di Johnnie Walker che teneva esposta nella libreria davanti alla trilogia di Samuel Beckett.

Come prima contromisura decise di requisire la bottiglia incriminata, e di utilizzarne il contenuto come ingrediente segreto nella marmellata di prugne, a guisa di conservante.

Successivamente avrebbe tentato di andare a fondo alle ragioni sciagurato vizio che aveva arruolato suo figlio nel plotone dei dementi.

Cominciò a chiedergli insistentemente dove andasse il pomeriggio, e perché aveva ricominciato a mangiare formaggi dopo due anni di astinenza.

Perché non tagliava i capelli, perché avesse smesso di uscire il sabato sera in concomitanza con l'autunno.

Cominciò a segnare sul calendario la ciclicità delle sue emicranie e a tentare una correlazione con le previsioni dell’oroscopo, e le lezioni apprese dai palinsesti pomeridiani dell'emittente pubblica.

La scoperta che la velocità della luce può essere superata, inoltre, riduceva enormente le residue certezze a cui un uomo moderno può devolvere la propria vita. Ormai ci si poteva affidare solo alla pubblicità e all’aumento dello spread.

La sua curiosità si fece insopportabile e trasformava anche una richiesta di condimento nell’insalata in un fosco interrogatorio.

Qualunque atto sospetto ed insolito che apparentemente s’ammantava di essere un portatore insano di infelicità e abbandono, lei, madre, l’avrebbe indagato per salvare suo figlio dal degrado.

Un solo interrogativo restò fuori dal recinto delle sue inchieste: “ma una volta aperta una bottiglia di whisky, il suo contenuto evapora?"

lunedì 19 settembre 2011

La casa in collina


R. è nato vicino al mare, ma non sa nuotare. Si dimena nervosamente come un mastino abbandonato nell'oceano di una vasca da bagno, con la paura di affogare.



Ha dei vecchi scarponi da montagna che gli regalò uno zio di sua madre che aveva la passione per i funghi, ed ha vissuto diversi anni in una casa circondata da boschi di quercia che ora son più bassi lui.
Lui i funghi li apprezza, e sa riconoscerli solo se messi a contorno di una bistecca al sangue; se fossero posti ai piedi di un tronco non saprebbe come individuarli e sarebbero del tutto inosservati.
Ama la montagna perché, dicono, vi è aria fresca e poco inquinamento luminoso, e la sera è necessario coprirsi bene perché il freddo passa sulla pelle come un rullo. Ma in montagna non c'è mai andato, perché la montagna è troppo lontana.

La collina è tutta suddivisa in parallelogrammi irregolari, tutta tappezzata di ulivi e vigneti che ogni anno restituiscono lo stesso frutto, la stessa polpa, lo stesso odore. Piove poco e d'estate si soffoca al mattino e si rabbrividice dopo il tramonto.

In collina, R. va in giro con gli scarponi ed il costume da bagno. Non sapendo nuotare e non sapendo raccogliere i fungi.
La collina sta al centro e non sta da nessuna parte.

La collina è un limbo con poche storie da raccontare, e tanta vita che scorre senza consapevolezza. La collina è troppo alta per chi dal mare approda alla terra ferma, ed è troppo bassa per gli amanti  della vertigine e dei grandi panorami.
La collina sta lì a cercare di ritagliarsi un ruolo che non è sancito in nessuna sceneggiatura orologica e idrogeografica. La collina è a metà strada, ed ogni cosa non è abbastanza vicina da poterla distinguere chiaramente, né abbastanza lontana per offrire un riparo ed un rifugio nascosto.

La collina ha pochi connotati. La collina non esiste.

giovedì 8 settembre 2011

Two seconds, XL*


Alcor non trascorreva le vacanze solo con la propria ragazza da poco meno di 29 anni. E la cosa  deve aver avuto un effetto positivo sul suo organismo, perché, nonostante la pressoché invariata determinazione nel non praticare alcun atto finalizzato all'estinzione dell'adipe in eccesso, i suoi alunni l'han ritrovato più in forma e più giovanile (mah!).

Discrezione e buone prassi sulla tenuta della diplomazia familiare, quando vi è una particolare dedizione alla lettura, consiglierebbero di omettere dalla cronaca la pedissequa narrazione della vita di coppia vacanziera, nei suoi aspetti più intimi e appassionanti.

Ergo, escludendo dalla celebrazione di quei venti giorni, tali estasiatici dettagli....

... ... ...

...Racconto completato.






* il titolo del post non allude ai tempi di reazione di Alcor nei riguardi della massima espressione di bellezza in circolazione nel sistema solare, bensì ad un particolare equipaggiamento da campeggio.

martedì 6 settembre 2011

Spread


In questi giorni tutti gli investitoi fuggono come la peste dai listini europei, alla ricerca di rifugi sicuri.



Questa mattina la Banca Centrale Svizzera ha deciso di bloccare il cambio con l'euro, fissando un tetto massimo per limitare l'apprezzamento della valuta elvetica.



Risultato di tutto questo, tutti si rifugiano nell'oro: 1.920 dollari l'oncia e a 1.362 euro l'oncia.



Cala persino il Brent, presumibilmente a causa del crollo dei consumi.



In ogni caso mi torna in mente quella cazzona che mi restituì gli aurei regali da me evasi in suo favore, e le dico: grazie.

domenica 4 settembre 2011

La vita interiore


- Ma lei è un giocatore di rugby?

- No, pratico attività più tranquille, come la briscola.

- Fuma?

- Sì, ho un'insana propensione al carsismo polmonare.

- Diamo una controllata alla prostata?

- No! Sono diventato obiettore di coscienza pur di non far visitare la mia prostata! La prego...

- Ma giunti alla sua età un controllo sarebbe opportuno, suvvia, non faccia il bambino, si volti.

- Le ho detto di no! E comunque sono ancora giovane per badare alla mia prostata!

- Lei "giovane"? Ma sta scherzando, vero?

- Perchè?

- Lei crede davvero di essere ancora giovane?

- Ma... è scritto qui, legga, sui miei documenti.

- Quali documenti?

- Ecco, questi... ma.... che cosa è successo alla mia immagine?

- Che cos'ha la sua foto?

- Sembra essersi ingiallita, all'improvviso, e il mio nome è sbiadito, la mia altezza dimezzata, che scherzi sono questi?

- Tenga, si guardi allo specchio.

- Ma, chi è questo vecchio canuto?

- Come chi è? È lei, non si riconosce?

- Ma non  posso essere io! Avevo il viso tondo e i capelli neri quando sono venuto qui.

- Quanto tempo crede che sia trascorso da quel momento?

- Come sarebbe, quanto tempo... Un'ora al massimo...

- Un'ora al massimo, dice? Lei ci sta lasciando lentamente, figliolo. Su, si giri, dobbiamo controllare la prostata, è necessario.

- Ma vuole darmi una spiagazione? Che cosa c'era in quel bicchiere che mi ha offerto?

- Dei drenanti naturali.

- E cosa significa tutto questo? Perché sento le gambe cedenti e un forte mal di schiena?

- Che lei deve svegliarsi, giovanotto. Che lei deve necessariamente svegliarsi  e andarsene da qui.




Le scelte sono gli angoli in cui si depositano le scorie della solitudine in cui è confinato ogni uomo. Ai bordi del pavimento, lungo i muri delle stanze, basta una passata di un panno umido per ristabile una parvenza di chiarezza. Agli angoli, invece, resta sempre qualcosa che si deposita col tempo. Lì, dove i contorni si fanno irregolari, dove è obbligatorio svoltare per non andare a sbattere contro un percorso nottambulo, e dove fa più male se ci si rovina contro.

Dopo aver fatto i gargarismi col suo colluttorio rosso, e avendo avuto cura di riporre il suo deodorante ascellare nel bagaglio, andò incontro a suo padre che lo aspettava battendo la pianta del piede.

Allargò il nodo della cravatta per non lasciare che l'ansia lo strozzasse. Qualche felpa per la sera l'aveva portata con sè. Doveva ancora interpretare gli adattamenti del suo corpo ad un clima diverso a quello a cui era abituato. Ogni tanto si schiariva la voce con un grugnito silenzioso per modulare meglio le sue parole. Aveva capito che plasmando bene le parole avrebbe potuto rendere meno infettivo il suo accento marcatamente distintivo.

Durante il volo provava a intavolare discorsi con se stesso per saggiare i suoi progressi nel tenere  a freno le mani, per controllare meglio gli effetti dell'ansia.
Che avrebbe avuto a disposizione poche altre occasioni lo sapeva bene. Non si è giovani per sempre. E la resa dei conti inesorabilmente è depositata sempre là, all'angolo della stanza.

Avrebbe sciorinato ancora una volta il novero delle sue esperienze. Una ad una, come un susseguirsi di stazioni deraglianti che non avrebbero mai conosciuto un approdo. Avrebbe provato ad offrire alla commissione una rilettura di quegli eventi che fosse meno ufficiale. Avrebbe tracciato il filo conduttore di quella rincorsa alla normalità affrontata con tanto coraggio ma con pochi apprezzabili impronte nel corso evolutivo della specie umana.

Giunto a destinazione lei lo venne a prendere, e lo abbracciò. Per un attimo ebbe il sospetto che vi fosse una larga pozzanghera che separasse la realtà monolitica e immutabile dall'idea che costei in quel momento stava stringendo tra le sue braccia piene di ardore.

Ogni minuto che da allora trascorse assomigliava al campanello del giudice istruttore che freddamente enucleava le ragioni di una speranza malriposta.

(I vincenti li riconosci subito, riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di te? Io avrei puntato tutto su di te, Noodles. E avresti perso.)

Lei le offrì una granita all'anice, preparata come solo sua madre sapeva fare. Era diventata consuetudine da un po' di anni. Egli guardava il suo bicchiere di granita nel quale giaceva l'ultimo sorso. Pensò che non aveva sempre bevuto granite. Che per larga parte della sua vita le granite erano fluite in maniera indifferente senza che gli venisse mai venuta voglia di berne un bicchiere. Tanti anni erano trascorsi senza che le granite fossero mai esistite.

Un giorno, invece, s'accorse che faceva caldo e che non aveva fame, e che una granita gli sarebbe bastata per restare in compagnia di persone a cui avrebbe poi voluto bene.

Pensò che questa volta non sarebbe stato necessario avvisare a casa che il viaggio era andato bene.

Per anni gli avevano insegnato ad aspettare, a rinunciare, a restringere il ventaglio delle scelte. Si presentava al mondo dei vivi ricolmo di un amore che recava in dote miriadi di capitoli incompiuti. Storie affogate nel cesso al primo apostrofo erroneamente collocato.
Come quelle vecchie macchine da scrivere che andavano con i nastri di inchiestro nero. Bastava un dito un po' più disconnesso a rendere inaccettabili discorsi interminabili.

Infilò il suo pigiama invernale, e respirò a fondo il calore che da quell'abbraccio ancora s'infondeva. Una lacrima si addensò alla cornice del suo occhio sinistro, come un vetro rotto da cui penetrava la pioggia.
Sentiva il peso di tutta quell'inadeguatezza a cui aveva lasciato ampi metri di vantaggio, e che proseguiva lenta, lentissima, e lo precedeva nella risoluzione dei suoi algoritmi quotidiani.
Anche con il passo di Achille non l'avrebbe mai raggiunta, perchè essa conservava sempre una precedenza assoluta che le proporzioni dello spazio tempo avrebbero reso incolmabile.
Si nasce tartaruga, o si nasce Achille.
Si nasce compiuti, o si nasce appena.

Sul giornale dell'altro ieri vi era la consacrazione dell'incompiutezza come stagno nel quale la forza creatrice del linguaggio si edulcorava di arazzi pregiati nei riguardi di una cenciosa e scontata banalità a tratti quasi ripugnante.
L'irrequietezza è l'impeto ventoso che schiaffeggia l'insenatura al riparo del mare. Una conca aperta da cui la vita avrebbe lanciato affondi che un lago cheto e descrivibile non avrebbe mai appreso nelle sue computabili rive.
Una forma estrema di annegamento che ha come contorno incompleto la colpa, e come sbocco inevitabile la distruzione di ogni cosa.

Sentiva tutto il peso dell'umidità di un cielo in cui la sera non si rintracciano stelle.

A lei dedicò quei pensieri che si rivelarono gli ultimi. Pensieri che non sarebbe stato capace di replicare su carta per non lasciarsene privo. Ché scrivere è un impoverirsi senza ricevuta fiscale.
L'arte, un condono sull'inconcludenza.

E la smise all'improvviso, calpestato tra i binari di una metropolitana.


 

lunedì 20 giugno 2011

L'anestesia


Molto lentamente si consuma e si dirada questo tanfo di legno bagnato.

Lascia riaffiorare il sapore insito nello sbattere la porta e andarsene, nella cognizione completa circa la natura dei gesti. Riemerge un volitivo prurito sotto i talloni laddove avanzavano duroni da stasi.

Sgorga finanche l'ansia dai nervi raffermi, e ripropone il suo sapore eretico che sa di anima umana.
E si lascia bere.