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giovedì 22 marzo 2018

Mattoni

La voglia di scrivere mi ha preso mentre faccio un back up di un database per estrarre dati con SQL.

Questa è sostanzialmente la grande contraddizione di una vita merdosamente bugiarda. Relegare la voglia ad una fessura tra un mattone ed un altro. 
Finché qualche mattone non casca e ti frantuma l'alluce.

Da qualche parte tutto questo furore deve trovare una via d'uscita. Esisterà una illusione più duratura su cui poggiare la necessità di risparmiare se stessi all'atroce di destino di sentirsi un ingranaggio senza molta importanza sul cui capo poter pisciare senza alcuna coscienza?

Quando questa illusione era la voglia di pace, di stabilità e la rincorsa furente verso la normalità, questa epifanica rincorsa raccoglieva tutte le macerie facendone un ponte che si costruiva verso una direzione, una lotta, un senso per cui vivere.

Poi l'approdo. Poi il nulla.
Poi la gabbia senza serrature, spalancata, ma avvolgente, senza lati e pavimenti, senza soffitto, senza corridoi, senza spigoli a sancirne l'inizio e decretarne la fine.

Poi la telefonata che mi chiede di riaprire una piccola oasi verso quel mondo probabilmente e inconsciamente ripudiato dove le sbarre eterne che si perdono alla mia metalmeccanica vista, si ritravestono da rovi da insonnia permanente. Con la puzza dell'erbaccia selvaggia, con la merda di un'insoddisfazione che, cazzo, ci rendeva liberi e infiniti. E le pioggie di lacrime avare, di singhiozzi sotterrati che bruciavano dentro una camera dove adesso non riposa neanche una spiga di graminacea avariata.
Quelle notti senza tregua, con una rabbia che scavava dentro i condotti dell'inspiegabile che divorava i minuti rincorrendo e mandando a fanculo le alzatacce e i richiami di un mondo abissalmente distante e senza importanza.
Quando mancavi tu, e l'insignificante meravigliosa voragine che hai originato in questo animo senza riparo e senza sostanza.
Tu che rappresenti l'epilogo di ogni premessa che tenta di rabberciare l'esistenza in poche frasi che possano emanciparla dalla sua acclarata inutilità.
Tu che sei lo specchio nel quale vado a riprendere immagini di ponti e vallate, di arcobaleni e banchetti tra i profumi dei fiori, e le primavere senza solstizi a invertirne le rotte, e venti che solo accarezzano e non conoscon la furia, e parole spente, ed abbracci senza voglia di disciogliersi... e i soliti racconti di questo sentimento senza contorno, senza dichiarazione alcuna, libero da promesse e doveri, da resoconti e serrature dalla toppe polverose.
Così libero da isolarmi in questo silenzio da te che vivi in una lontananza che è il tuo mondo per me inaccessibile. 
Così libero da impreziosirsi di tante, tansissime cazzate asservite alla costruzione di un altro equilibrio tra la tua instancabile fuga, e la mia caparbia e silenziosa attesa di poterti incrociare in fondo a chissà quale vicolo di questa insondabile e incomprensibile vita.

E qualunque cosa scriverò saranno solo illusori mattoni di carta, gradini di struggente ansia infuocata, per costruire ponti protesi verso il nulla, dispersi verso direzioni sconosciute, alla sola ricerca di te.

martedì 9 gennaio 2018

Character

La paura. Ho in mente una sceneggiatura che parli di paura. Quella cosa che ti arresta ogni intento, che ti affanna in pianura, che trasforma la nebbia d'un gennaio umido in un muro senza dimensioni. Ogni punto d'aria sembra uno spigolo pronto a ferirti con urti e lividi senza colpa.

La paura che protegge, coccola, rassicura come una gabbia nella quale sentirsi sovrani.
La paura che ci assilla col suo smisurato vuoto che si fonde nelle ombre di ogni impegno massacrante con cui falcidiamo i nostri giorni senza un forse.

La paura che rafforza l'illusione di un equilibrio ritrovato che è solo un pensiero allontanato nello spazio e nel tempo di un sacco di angosce e promesse infrante a cui non abbiamo imparato a volgere uno sguardo pulito.

La paura di una scelta che irrompe a sciogliere i nodi dai nostri certi ormeggi, al riparo nella risacca della noia, svelando il volto banale e candido dell'inesorabile.

Inizia il nuovo anno con questa straripante voglia. Unico respiro di pace; una pace che sembrava possibile al realizzarsi di piccoli traguardi, e che si infrange non appena ogni méta si nasconde alle spalle della successiva.
E s'allontana.
Come te, che ogni giorno ti mascheri da questa angoscia, e in quella paura ti rifugi, al riparo da ogni possibile gioia.

martedì 25 agosto 2015

Rendez-vous avec la vie

Lo avevo chiesto a gran voce di star lontani dalla folla.

Ma non mi si è voluto dare ascolto, e per fortuna adesso ci troviamo qui, in un locale deserto. Ancora è mal di testa... è da questa mattina che non oso rivolgere le mie attenzioni impure e peccaminose alla volta della nimesulide che da sfoggio di sé accattivante e ammiccante, benevola e accondiscendente, disponibile a estinguere le fitte emicraniche; spiandomi come fosse inopinatamente distratta oltre il vetro della credenza, seduta dinanzi alla collezione dei bicchieri di cristallo. Accanto al termometro, alle pillole per la pressione alta, e ad argentei cimeli rimembranti ricorrenze più o meno rapprese nel loro plumbeo tenore teologico-mondano.

Cavare un'idea che abbia una larvata coerenza, ed indi si faccia carico di un qualsivoglia messaggio tale da rimestarsi proficuamente in una pagina, oggi è difficile, Monsieur.

Anche scrivere la parola "difficile" costa fatica. La fatica di un'affannosa spulciata nella semiotica della propria ontologica identità. Perché quella parola è imprecisa, e come tale bugiarda. E scrivere falsità è per me una violenza che si assomma già alle scenette grottesche che la penna celebra per riderci su. Di gusto, su ciò che sempre più appare come una fumettata vicenda non seria, questa lunga passeggiata che costeggia gli anni. 

Non è, in punta di verità, "difficile", è solo che non mi riesce più di manipolarli altrimenti questi pensieri. Forse è soltanto "diverso". Ma io non so più scrivere, non come mi piace. E di colpi ne sto perdendo parecchi ultimamente, Monsieur. Forse tu comprenderai cosa vuol dire ridursi ad incipit conservati per scrupolo come frammenti di storie che non saranno mai compiuti. Che quando l'istinto narrante viene pompato da un orgasmico impulso lo devi consumare in fretta, giungere al nucleo della fiamma che ha infervorato l'istante, afferrarvi con slancio i volti e le parole ed inchiodare il flusso nella teca di un racconto.
Ma finché redigi la cornice, la storia s'è già sgualcita e non ne vale più la pena.

Compunta ovviamente di parole inadeguate. Perché quelle giuste sono come limiti che tendono all'infinito. Quell'infinito a cui rende giustizia solamente il silenzio. Quello che rende le proprie parole straniere e allo stesso tempo talmente personali da potersene disfare pressappoco con indifferenza. A prescindere da quanto possano essere care a chi ti è caro. Non riuscire a liberarsene vuol dire essere incompleti. Essere incompleti non è un problema.

Ne convieni? Considererei il silenzio come la più pura delle forme di comunicazione. Chiudere gli occhi e avvicinarsi, sentirsi adiacenti e restarsi accanto senza necessitare d'altro, e senza domandare oltre. Uno scambio che non depriva e non inganna.
Prendiamo qualcos'altro, Monsieur? Un'altra birra e qualche inezia recante in sé adipose conseguenze per accompagnare la discesa giù lungo l'esofago del biondo liquido amarognolo. Ricominciamo daccapo.
Anche se ho appena finito il solito drink, e ancora sto frantumando in bocca i piccoli cubetti di ghiaccio. 
Uno dei piccoli e irrinunciabili piaceri che fanno orripilare i detrattori dell'acqua corrente.
Con la lingua approfitto per dirigere un cubetto a coprire la gengiva sottostante il premolare inferiore collocato a destra del mio viso rispetto a chi mi guarda. Perché mi accorgo che duole un tantino, quando mi capita di pensarmi.

I miei dieci piccoli irrinunciabili piaceri: dei cubetti di ghiaccio s'è già accennato; giocare con i sacchetti di riso o di farina, affondando le dita in quella morbidezza elastica, tralasciando qui biasimabili similitudini; suonare come un automa l'arpeggio di Is there anybody out there?; fare gli origami con i biglietti già obliterati dell'autobus; conservare tutto il conservabile come testimonianza inoppugnabile che su questo pianeta ci ho davvero messo piede pure io; avere le mani umide e i capelli bagnati; gironzolare da solo e salutare le persone soltanto con un cenno del capo e sorridendo, per evitare di fare figure di merda nel non ricordare i nomi; scartare con evidente soddisfazione i pomodori da un mio qualunque piatto; avere la "finestra sempre aperta" anche fino a notte fonda; e infine gli indovinelli che capiscono in pochi, soprattutto quando si legge di corsa senza soffermarsi più di tanto.

Siamo venuti quaggiù in quattro, era come se fossimo in tre, e tali si è rimasti nonostante la successiva addizione di ulteriori vispi commensali. Monsieur che siedi alla mia destra, hai ordinato un piatto di patatine fritte che io di norma, non dovrei poter mangiare. Ne assaggio qualcuna ma non vi si cosparga il sale, sono comunque a dieta. Domattina so già che mi sveglierò tardi e non correrò. Ma la mia è solo una morbosa curiosità di testare la tenuta dei bronchioli carbonizzati durante le ultime due settimane, mi si consenta di preservarvi un'illusione ancora a riguardo.

L'altra sera dopo aver cenato fuori torno a casa in tutta fretta, sotto le gocce di pioggia che si perdevano nella moresca chioma spettinata anni '50, rinfrescandomi con la loro sorpresa posata, e fresca. Volevo comunque andare a letto presto.

Pensavo, Monsieur, che sto riscoprendo un particolare gusto per i liquori secchi.
I fulmini illuminavano il cielo a giorno, infiammando per improvvisi istanti i contorni delle nuvole che suturavano il cielo come un cranio sbriciolato ricostruito a botte di gesso e saratoga visto dall'interno. Era da molto tempo che non mi abbandonavo sul cuscino del letto con un libro che non presentasse figure simili agli effetti del tasso di cambio giapponese sulla delocalizzazione in Cina. 
E l'ho ritrovato dilettevole quella sera. 

Ma quando qualcuno vuole sfottere a denti stretti il quarto cazzone che ci portiamo insieme imbevendoci passivamente delle sue varicose vicende senza soluzione di continuità, e mi sussurra un decontestualizzato e canzonatorio "che culo...", mentre la mia mente scorrazza altrove, vien facile per me, nel rinsavire dal sonnambulismo incedente, esprimere un parere disgustato sul fondoschiena della signora in stato di pre-obesità che riempie il campo visivo a me innanzi. 
E scusami, cazzo, se poi ridestandomi dal sabbioso abbaglio, esterno con voce moderatamente media-udibile il mio punto di vista sul quid di cui sopra, tale da intercettare torvi sguardi sospettosi dal marito di questa che deve avere inteso qualche sciagurato decibel del mio sommesso proclama. 
Che tu parli per quel che hai in testa tu, ma io ti rispondo per quel che ho in testa io, per la miseria... 

Vale per tutti, più o meno consapevoli, che chi ci fa star bene e chi più o meno ci comprende non è  altro che la proiezione meglio riuscita di sè... guardare dentro al cuore  e avvicinarmi al suo mistero  non come quando io ragiono ma come quando respiro. Ma non diciamolo ogni volta, le espressioni reiterate ne rovinano il senso. Sarebbe bello scoprire una bella frase, tratteggiare un bel pensiero, e dimenticarlo dopo un po'. In quel momento avremo scoperto qualcosa di noi e l'avremmo consegnata all'eternità.

Mi prende una stranissima voglia di ballare come intorno ad un ripetuto picchiettare di un dito medio della mano sinistra sul MI bemolle di un pianoforte scordato. Battendo i passi al suolo come un bicchiere che si rompe comprensivo del contenuto, che non si è sorseggiato per incantarsi a guardare l'alone interno lasciato sul bicchiere da ogni oscillata nelle nostre mani inquiete e sincere. Più della calma dipinta come la ceramica intorno agli occhi.

Monsieur. Che cosa vuoi che ti racconti? Un'altra storia.

Stanotte ho sognato Adriana. Indossava una lunga veste bianca; avanzava lungo la spiaggia. Avevo come l'impressione che la mattina di quel giorno in sogno fosse venuto giù un acquazzone impietoso; io stavo seduto su una poltrona a sdraio e le ho fatto cenno col braccio. 
Ma lei ha continuato a camminare come se non si fosse accorta di me, guardando fissa in avanti, e quando mi è passata vicino mi ha investito una folata di aria gelida, come un alone che si portava dietro.

A volte una soluzione sembra plausibile solo sognando. Forse perchè la ragione è pavida, non riesce a riempire i vuoti tra le cose, a stabilire la completezza come un forma di semplicità.
Ma poi domani, o un altro giorno, sognerò che passerà di nuovo vicina al mare e acconsentirà al mio richiamo e si siederà vicino a me. Poserà le mani sulle gambe con un gesto lento e languido, pieno di sensi, e guardando il mare mi indicherà una vela o una nuvola, e riderà. Ed io continuerò a ridere, mentre la guarderò; rideremo insieme, come l'esserci trovati ad un appuntamento.

La vita è un appuntamento, lo so di dire una banalità, Monsieur. Solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove. Magari capita che il primo saluto avvenga per caso, ad esempio a  febbraio, e nel posto più sbagliato, ma che importa... 

Il diritto, il rovescio... l'estate. Non so se ci si trova in un punto perchè l'esperienza ti ha portato per mano fin lì, non so se è vero che dal passato si impara la lezione come un vaccino. A volte sì, lo penso e lo confermo, altre volte lo disprezzo insieme al fascio secco di tutti i princìpi fasulli; più sovente lo ignoro. 
E allora spesso uno pensa: se avessi detto questo anziché quello, se mi fossi svegliato un giorno prima, se non fossi mai andato a letto presto, se non avessi temuto, se mi fossi fidato di più... Forse sarebbe stato lo stesso. O forse non starei neanche qui a raccontare questa storia. E ogni tanto racconto di una certa soluzione che tuttavia ignoro a qualche amico, raramente, bevendo un bicchiere.

Un appuntamento e un viaggio, è la vita. Fatta di percorsi sulla crosta di questo pianeta, che a sua volta si muove, ma verso dove? Ti sembrerò maniaco, Monsieur. Però a quel tempo io ero fermo, un momento di stasi e il mio tempo ristagnava in un pozzo di accidia. Con quella tranquillità di quando non si è troppo giovani ma non si è ancora troppo adulti, e si aspetta semplicemente la vita.

Ed al posto della vita, venne Adriana.

Talvolta indifesa e interpretabile che pareva di leggerle in volto il carattere di tutti i suoi momenti. E poi era bella, certo, ma questa non era una sorpresa: ma quel giorno mi sembrò di una bellezza assoluta, perché lì capii che non esiste bellezza al mondo superiore alla bellezza di una donna, tu mi capisci Monsieur, e questo mi accese una specie di frenesia.

La strada dietro di me fuggiva, davanti a me si apriva, e io pensavo alla mia vita e alla mia accidia, e a tutto quello che mi era stato detto. Frasi più nitide man mano che si procede lontano alla radice dei ricordi, e stranamente più fragili e tremule nel risalire fino a quel momento. Quando le prima parole son cariche di mistero, di un voler spiare tra le fessure dei propri vissuti, sospinti da una curiosità che poi si evolve e scende giù portando alla luce i reperti più celati, confidenze meno infrangibili, sensazioni più acute. E sempre meno descrivibili con l'alfabeto.
Mentre le parole più prossime stentano ad aggrapparsi alla mensole della mente, e all'esigenza di lasciarsele propagare per giorni e giorni nella testa. Come se si comprendessero già senza il bisogno di doverle riprendere, rispolverare con cura e ricercarne tutti i sensi per star sicuri di essere davvero felici a giusta ragione. 

E sentii, quel giorno, una specie di vergogna per non aver mai provato niente di tutto questo fino ad allora. Fu proprio così, una specie di rimorso, come una consapevolezza di mediocrità o di codardia.
Come quando si ha la concreta sicurezza di aver sì corso per milioni di chilometri, ma in maniera lenta e accidiosa attraverso una strada lunga, e senza ricordare alcun paesaggio.

Ed ora viaggiavo, con questa vita, su un'altra strada che non importava dove mi avrebbe condotto, con la compagnia di una donna bella e distante che fuggiva non sapevo da cosa, o che evitava non sapevo cosa: era una corsa che mi vibrava dentro e intorno lungo una strada vuota in mezzo alla Francia.

Accostai la macchina e mi fermai. Mi volsi e stavo per dirglielo... Ma lei mi mise un dito sulle labbra, molto dolcemente, e mormorò: "non essere stupido". E restrinse le sue labbra in un bacio mai dato.

Nel luogo del nostro appuntamento c'era uno stabilimento balneare con una fila di poltrone a sdraio. Mi sedetti e mi misi a guardare il mare. Sentii il campanile che batteva le dieci, e poi le undici, e poi la mezzanotte, le ore si facevano giorni, i giorni si facevano mesi, ed i mesi diventavano tutta l'immensa attesa che non sarebbe mai bastata.

Ah, tu mi hai fatto bere troppo, Monsieur, però in quanto a bicchieri sei una buona compagnia. Non ho la giacca e fa freddo, e una sigaretta non riscalda. Sai, a volte, quando si è bevuto un po' la realtà si semplifica, non occorre sclerarsi a coniare nuovi idiomi per riconoscere quello che proviamo. Si saltano i vuoti fra le cose, tutto sembra combaciare e uno dice: "ci sono". Come nei sogni.

Attendere, quella vita che che non ha alcun appuntamento col dovere imperativo, e che tuttavia non scappa come un codardo che non lascia tracce di sè nel mondo intorno stimato come un magazzino immanente per saziare le proprie voglie, deprezzando e svuotando ogni senso. 
Come a non voler essere responsabili dei propri affetti, dei propri gesti, delle sensazioni e dei germogli che si innestano negli altrui cuori, indipendentemente dal più ignavo dei propositi. Salvaguardarsi non è essere egoisti, è viltà. L'egoismo naturale come un fiume è l'esserci sempre in svariate forme che non affollano l'esistenza di chi si attende, pur non essendole mai lontano. 
La retorica della viltà invece è merda.
Un ammutolito lungometraggio di incontri che a lungo andare assomiglia più che altro ad un reciproco masturbarsi. Una feroce razzìa al termine della quale sputarsi in faccia non suonerebbe neppure stonato.
Non sono né un santo né un moralista, detesto appena con una puntina di odio qualunque cosa renda la vita volgare, brutale e sporca. E che spogli la dignità del suo valore, lasciando qualche livido breve che porta ancora i segni della paura e dell'insensibilità.

Attendere, e ritornare ardentemente al mio sorriso che a tutto questo non vuol pensare.
Attendere, come un silenzio nelle notti di semi-veglia in controluce, con gli occhi stanchi e l'animo gioioso. Attendere, e percepire che anche il sonno è vita, e non riposo. Attendere, scagionando l'anima dalla paura di non meritare, di esservi capitati per un caso avulso dagli intenti. Attendere e non domandarsi alcun perché. 
Attendere, e sentire per chi non c'è, quasi una solitudine.

Andiamo a casa. Fa freddo, e mi gira la testa. La radio passa Aida di Rino Gaetano. Non c'entro assolutamente nulla con la maggior parte di questo teatrino di nuvolette. La sceneggiatura degli ultimi minuti appartiene già ad un film che non mi riguarda, i figuranti si predispongono per un ciak nel quale non siamo stati scritturati.
Scrivere... è una forma di presidio per i propri dilemmi e insieme l'esigenza di correre incontro. 
E devo andare a pisciare.

Ma a te interessano le storie altrui? Forse anche tu, Monsieur, devi essere incapace a riempire i vuoti fra le cose? Non ti sono sufficienti i propri sogni?

Adoro quando sorgono le amenità prodotte dai meandri della mia fulgida immaginazione.
Altresì spontaneamente da non esigere che si vada a sbirciarvi...
Ci vivo di questi scatti. 
Ma mi odio anche un po' per questa medesima ragione, quivi scanzonatamente narrata.

martedì 21 luglio 2015

L'uomo e la grotta

Abbiamo studiato, abbiamo viaggiato, abbiamo scritto, abbiamo filmato quello che abbiamo scritto, abbiamo amato, abbiamo detestato, abbiamo rilanciato, abbiamo avuto stenti, abbiamo subito la circoncisione, abbiamo conosciuto il potere, abbiamo persino vissuto, talvolta.

Abbiamo conosciuto luoghi che hanno segnato le nostre coscienze come una macchia di olio motore sui polpastrelli. La vita ci ha teso trappole come il venerabile Jorge arrapato da una commedia.

Sembrava che l'unica mèta geografica raggiungibile sarebbe stata la penisola del prossimo divano, in un salotto adornato di copie false di Munch e incensi all'oppio, con bottiglie di brandy lasciate a metà ad evaporare di inedia, e la collezione di piccoli Trudy a memoria delle tue ex come unici possibili trofei di caccia. 
Una vita avventurosa che ha conosciuto i suoi massimi sforzi solo quando chinata sull'ovale trono, protesa all'espulsione dei sottoprodotti dell'apparato più ginnico del proprio essere.

Ora sono qui, da solo. In un luogo dove la temperatura è costante, ed il tempo è scandito da uno stillicidio lontano su una parete di zolfo. Un tacito sussurro che fende il silenzio assoluto, e l'indifferenza del buio trasforma le palpebre in inutili lembi epidermici. Sento il mio odore, quello della stanchezza che segue allo sforzo di una risalita da un pozzo stretto e profondo una decina di metri. Pochissimi ma infiniti alla prova di chi fino a ieri sembrava non essermi mai mosso.
Il silenzio, il buio, una goccia d'acqua fredda, ed una corda da dieci millimetri impregnata di fango che ti salva la vita.
Quelle rocce sono lì da migliaia di anni, sono crollate quando il fiume si è ritirato in questo letto sotterraneo. E adesso ogni goccia scava queste pareti con la perseveranza dell'eternità. Ho attraversato meandri fangosi e strettoie che avrebbero fatto intimidire una mia sola gamba nei periodi di massima noia.
Sono stato appeso per quasi un'ora nel buio. La mia vita è stata affidata alla tenacia di uno spit infilato nella pietra ad un'altezza che non posso immaginare. Il moschettone ed il nodo che mi reggono sono fuori dalla portata della mia vista. Devo risparmiare il fiato, devo misurare la risposta d'acqua alla mia eterna sete, devo risparmiare le energie dosando con esattezza i movimenti delle mie caviglie e delle mie ginocchia, in un gioco di equilibri in un cappio in cui è infilato il mio piede. Ogni movimento sfasato, ogni scatto di rabbia che mi allontana dalla precisione con cui deve essere dosata la mia azione, mi allontana dalla resurrezione.
Le gambe si indolenziscono alla morsa delle fasce del mio imbrago, troppo a lungo sono state inermi, e bramano la riscoperta della vita per la quale il mio genoma le ha programmate.

Nessuno può tendermi una mano, o aiutarmi a sganciare la morsa bloccante che tiene ferma la corda al mio petto, consentendomi di restare appeso.
Sto usando muscoli che non credevo neanche di possedere, e per la prima volta nella mia vita mi impongo di non tremare, di non irrigidire la mia carne davanti all'ignoto, di non arrendermi e di avere fiducia. Un giorno quella fiducia saprà scorrere limpida e autonoma, dopo che il crollo delle mie paure e resistenze scaverà letti millenari che la raccoglieranno, e quelle gocce sapranno pazientemente zampillare in ogni atto della mia esistenza che sarà generato dal momento esatto in cui potrò consegnarmi al sole o alle stelle.
Perché io dovrò uscire prima che il freddo venga a prendermi. E dovrò uscirne da solo. Entrato per caso, uscirò con la volontà.

Avrò le ginocchia bruciate e le caviglie gonfie, non basteranno due giorni per smettere di dormire, camminerò sulla mia strada come mi avessero montato i piedi per la prima volta, e dopo aver conosciuto il buio, i miei occhi sapranno distinguere meglio i contorni ed i movimenti delle cose del mondo.

E quando guarderò a me stesso saprò che ho fatto parte dei moti millenari che hanno costruito questo universo, ricongiungendomi a quella polvere che ha generato le stelle, i pianeti, le rocce, la mia carne e tutti i miei sogni.

giovedì 23 aprile 2015

Che fai?

- Be' che hai?

- No, niente.

- Ma come niente? Stai lì, non dici niente, non bevi, hai la cenere della sigaretta tra le dita. Che hai?

- No, è che pensavo che...

- Che cosa pensavi, Alcor?

- Che noi, noi non stiamo poi così tanto bene insieme.

- E perchè?

- No... perché, insomma, non mi dici nulla di quello che fai, di ciò che ti succede. Mi accenni qualcosa che  poi dovrei ricordare come fossero cose complete? Ma chi sei tu?

- Ah, ti interessa quello che faccio, Alcor? E da quando?

- Da sempre. Mi interessa quello che fai, il tuo lavoro. Davvero. Dimmi ad esempio di quella nuova associazione di cui mi parli spesso, come si chiama....?

- Non è un'associazione, è team di lavoro.

- Ah, sì, il team di lavoro...

- Se ti interessa davvero quello che faccio, potresti anche chiedermi qualche volta come vanno le cose. Potresti farmi delle domande, darmi l'impressione che davvero vuoi sapere qualcosa. Invece no, niente, stai lì, col tuo sguardo fisso verso gli alberi. E non ti importa di nessuno, neanche di me. Ti preoccupi solo di te stesso.

- E invece no! Io voglio sapere tutto. Voglio che tu mi racconti spontaneamente, non voglio farti domande.

- Ma come faccio a raccontarti la mia vita se ogni volta che ci provo il tuo sguardo si piega verso il basso. Me ne accorgo quando non te ne frega niente, quando respingi le parole degli altri come se stessi passando uno straccio per levar via la polvere dalla tua concentrazione sui tuoi problemi.

- Ma no, io voglio sapere tutto, conoscere, esserci.

- Ah, tu vuoi sapere tutto, vuoi conoscere? Tu non vuoi sapere nulla, tu vuoi solo assicurarti che quello che faccio e che penso sia di tuo gradimento. Non ti interessa nulla delle mie cose.

- Cosa hai fatto oggi?

- Quanto sei indegno, davvero! E tu invece, perché tu non mi racconti mai nulla di te, delle tue cose, delle tue belle riunioni. Che cosa stai facendo della tua vita? Della nostra?

- Ma... veramente a me non capita nulla di importante, va sempre tutto in maniera uguale, non cambia niente, non succede niente... che cosa vuoi sapere?

- Ah, vuoi che io ti faccia domande, mentre tu vuoi ricevere confessioni spontanee? Ma non ti sei sempre rivolto in maniera scontrosa agli interrogativi? Non hai sempre detto che sembravano indagini inopportune, che sembravano "odiosi visti di conformità da parte di estranei", quelle domande sul "che hai fatto oggi", o "come è andata la tua giornata"? E tutte quelle volte che ci permettiamo di commentare, ci aggredisci facendoci credere un lusso l'aver appreso una qualunque notizia sul tuo conto, un lusso estremo che non può spingersi fino al commento per non eccedere nella grazia sociale di considerarti uno di noi...

- Va bene. Ho capito. Non mi importa nulla di quello che hai fatto oggi. Da me cosa vuoi?

- Che cosa c'è in quel tuo "niente"?

- Niente. Forse.

giovedì 27 febbraio 2014

domenica 9 febbraio 2014

Il socio ACI

Ci ridi con distacco, ti sembra che quella tessera ACI numero 917655 barra UT non potrà mai entrare nel tuo portadocumenti che tua moglie dimenticherà in preda all'esaurimento e agli psicofarmaci.

Una pittoresca galassia di parodistico stupore.

Poi un giorno ti capita di telefonare ad un meccanico per prenotare una visita medica alla vettura attualmente a disposizione in comodato d'uso gratuito.

- Buongiorno, chiamo per una vettura in gestione della società X, volevo chiederle se siete nelle condizioni di fare il tagliando?

- Sì...

- ... Controllo delle pastiglie dei freni?

- Sì...

- ... Sostituzione di una luce di posizione fulminata?

- Sì...

- ... Cambio di olio e filtri?

- Sì...

- ... Pulizia dei filtri del condizionatore?

- Sì...

- ... Rimozione degli adesivi aziendali dalla carrozzeria?

- Sì...

- Però presumo che essendo un intervento fuori dalla manutenzione ordinaria, la rimozione degli adesivi aziendali presupponga che dobbiate giustificare l'intervento sotto forma diversa, perché molto probabilmente la società di leasing non contempla nelle condizioni contrattuali che si faccia carico delle spese dovute ad un'operazione che attiene un atto compiuto dalla società cliente e non da quella fornitrice che pure è tenuta a garantire la massima efficienza del mezzo fornito...

- Ce-ce-certo... Sì...

- Bene, mi dica quando posso portarle la macchina per la manutenzione.

- La chiamiamo noi.

- Perfetto. Ah! Mi scusi ancora un minuto, ma quando porto la macchina siete in grado di fare gli intervento in poco tempo? Perché altrimenti dovrei farmi accompagnare presso la vostra officina per non restare ad  aspettare a lungo...

Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu 


- Pronto? Pronto? Che strano, deve essere caduta la linea.

E a quel punto rifletti, e comprendi che la tessera ACI si materializza nel tuo portadocumenti nell'esatto momento in cui smetti di avere fiducia negli uomini, e nella loro autonomia di comportamento, e ti senti costretto a raccontare loro i passi da compiere per vivere e operare in nome di un mondo che non te lo mette nel culo, mascherando la mossa con la benda dell'insufficienza di prove, o di una buonafede smorfiosa e bugiarda.

domenica 23 settembre 2012

I trapezisti spezzati


Ogni volta, dopo l'ennesimo tentativo di chiamata abortita, si trasportava inconsapevolmente agli argini dove i sassi incontravano la sabbia sottile.

Maggie, ormai, non voleva più saperne, e s'era convinto anch'egli che ne aveva le giuste ragioni.

Non era il calore delle sue avare carezze a mancargli, no. Nemmeno le cantilene notturne. Il vero baratro consisteva nel non potersi più afferrare come se fossero trapezisti in volo attraverso il dissestato tragitto dell'esistenza. 
L'assenza era fatta di assenza di risposte a interrogativi che da soli non si era in grado neppure di esplorare, di assenza di comprensione a stati di disfatta in guerre ancora da dichiarare. Di incontri sempre puntuali perché la felicità non richiede appuntamenti concordati.
Di queste miserie si nutre il famelico verme della mancanza, non di altre grevi inadempienze.

Ed R. prese dunque a raccontarsi le sfumature di un'agonia talmente lancinante da non fargli provare alcun dolore, che piuttosto si vestiva di una quiete amara interrotta di frequente da fragorose risate di rigetto.
Nelle sue storie i volti degli umoni perdevano ogni connotato: si riempivano le fosse oculari, si asciugavano le labbra, si levigavano i nasi. Una comune tragedia si riconoscerebbe sulle pallide fronti di  ciascun uomo, senza sprecar sguardi ad individuarne i motivi dei volti e delle disillusioni.
 Le uniche sfumature che rendono speciale il dramma di ogni uomo, è la porta d'accesso da cui questo si presenta.

Allora occorrerebbe tenersi stretti, senza neppure riuscirsi a sfiorare, come trapezisti integri che si riconoscono senza neppure chiamarsi, volteggianti e certi che all'acme del proprio volo, al cambio di rotta che introduce al precipizio, ci sono le mani dell'altro.
Il sogno di questa straordinaria empatia l'aveva del tutto abbandonato. Maggie se ne era andata, e non rispondeva più. Lei era tornata ai luoghi verso cui sentiva il suo richiamo.
Investigare sulle ragioni di quel fato infelice avrebbe significato rinnegare la tragedia alla base dell'inconciliabilità tra gli esseri, e di riflesso, ripudiare quei volteggi di profondo amore che aveva vissuto lassù con lei, sul trapezio, prima che questo si spezzasse.

Semplicemente, senza plasmare i connotati della vittima, o del carnefice, durava nei suoi giorni in attesa che una smentita epocale facesse crollare il circo delle verità svuotate che aveva allestito intorno alla propria gabbia di pelle e parole.
Una sera, mentre assaporava un cognac, incontrò Hanna, sua vecchia conoscenza. A lei piacevano le sue espressioni marmoree e dure, che sembravano scolpite da un senso di forte controllo sulla realtà.
La trovò ingrassata e provata, e con le coscie scoperte.

Hanna lo guardava, e lui si lasciò sedurre, come se la cosa non lo riguardasse. A casa di Hanna c'era una cucina ordinata e un corridoio tappezzato di foto, quelle pareti trasudavano dalla voglia di convincere chi le abitava che un'identità propria è raggiungibile anche a buon mecato. Basta pagare con una buona memoria.
Hanna, spogliata, urlava appoggiata contro il muro, mentre R. spingeva con forza da dietro, e lei, piccola,  sembrava piegarsi a quell'irruenza, quasi strozzata. R. non cercò di capire quanto piacere ci fosse nelle urla di Hanna, sembrava quasi immune da ogni ascolto, e fece presto.
Appena ebbe finito, R., ancora nudo, si versò del vino bianco e si preparò per andarsene. Hanna, nel letto, imprecava  avverso la sua nota indifferenza, ancora singhiozzando.  Ma fu completamente ignorata.

Hanna, umiliata, tentò di richiamarlo a sé, e cominciò ad insultare il nome di Maggie.

R. non rivolse immediatamente i suoi pensieri a Maggie, né a quanto l'aveva amata. Pensò a quella volta in cui lei lo tradì. Stavano insieme da poco e lui occultò il fatto dalle sue conversazioni con lei spazzandolo lontano con scialbe citazioni nichiliste. Pensava che gli servisse da monito, per ricordargli che nulla mai sarebbe stato scontato.
R. aveva ancora il sigaro in bocca. La raggiunse e la guardò mentre si azzittiva e si copriva le nudità con terrorizzato pudore.
Per un attimò gli sembrò anche bella adornata da un'aurea di sottomissione e vergogna.
Hanna cominciò a piangere. Un pianto infatile nutrito da un desiderio malriposto, un pianto che manifestava lo strazio di non poterlo rapire per sempre, e tenerlo con sè. Un pianto che aveva il gusto della maledizione agognante un possesso illeggitmo che R. non seppe sopportare.

Allungò le sue braccia dure contro la donna in lacrime, e le strinse la gola tra le mani finchè un'espressione di morte non gli raccontò in pochi istanti di che sapore era stata la vita che lì cessava.

Il volto di Hanna sembrava aver acquisito dei contorni. Adesso aveva dei nuovi occhi, una bocca socchiusa che reclamavi baci onesti e labbra da non scassinare con prepotenza, ma da assoporare con delicatezza. R. la guardò e la vide emergere da un anonimato tragico ed equo che si scioglie nel rito dell'addio.
Lo stesso che accompagnava Maggie, quella sera in cui gli comunicò gelidamente che sarebbe partita.

- Puttana.

R. non si scompose, prese il suo sigaro e scomparve. 

domenica 29 luglio 2012

Three Dark Knights

Mentre si recava, come ogni giorno alle ore 15.30, presso il suo tabaccaio di fiducia, l'unico che avesse il self-service sempre funzionante, avvertiva la moneta sparpagliata nella sua tasca, tra le chiavi di casa e l'accendino, zavorrare le sue bermuda tendenti allo scivolamento sotto il culo per via del congruo carico.

Accendeva così la sigaretta antelucana, quando un conoscente gli si accostò.

- Com'è? Hai messo in fuga una banda di scassinatori! 
- Sì.
- Mi hanno detto che stavano tentando di forzare le grate del bar sotto le finestre di casa tua.
- Sì.
- Mi hanno detto che stavi rincasando in tarda notte quando hai notato delle strane ombre nel cortile, che ti sei accostato alla ringhiera e che hai intimato loro di andar via con aria minacciosa.
- Erano molto scaltri, sì, vestiti di nero si confondevano nella notte. Per fortuno ho uno sguardo attento, io.
- Che coraggio! Ma quanti erano?
- Ah... erano in 3...
- Cazzo! Ma ci pensi che se fossero stati armati, avrebbero potuto spararti?
- Eh... ma dovevo intervenire, non potevo lasciarli fare.
- Erano sicuramente mascherati...
- Sì, avevano il passamontagna.
- Ti è andata di culo... di sicuro erano stranieri.
- Slavi, certamente erano slavi, l'ho colto da come scavalcavano la ringhiera.
- Va be', ciao.
 - Ciao.

Le ore che precedettero quell'eroico atto furono trascorse nella rosticceria del centro, dove il segretario della sezione del Partito Comunistra gli offrì due panzerotti fritti, appena emersi dalla friggitrice, con il fumo che gonfiava il ripieno di salsa e mozzarella.
Egli, per sdebitarsi e per agevolare il transito intestinale di entrambi, offrì al compagno generoso un paio di birre vendute a saldo nella vicina sede del Partito Democratico. 
Bevute fresche tra un sigaretta e un discorrere sulle prospettive di rilancio urbanistico.

Tornato abbastanza presto a casa, il nostro eroe decise che dopo la tappa evacuativa in bagno, sarebbe stato meglio adagiarsi sul letto, perché l'indomani mattina avrebbe dovuto svegliarsi presto per preparare il suo consueto viaggio verso il nord italia.

Purtroppo il programma notturno non procedette come da schema. Suo fratello, infatti, ritenne indispensabile persistere con la luce accesa fino alle 2.30 perché non poteva assolutamente sottrarsi dall'intrattenersi in chat con qualcuna delle sue anelanti pie donne. Ed ovviamente non sarebbe stato accettabile per costui vivere dignitosamente il senso più profondo di quelle conversazioni, senza il sottofondo di musica porno-pomiciante da imboscamento maniacale.

Il contesto avverso gli impedì pertanto di crollare nel sonno, allorchè il furbo consanguineo, eseguiti i doveri notturni in omaggio alle sue amanti virtuali, sostituì al delicato sottofondo sonoro di cui sopra, un ronfar beato e appassionato, degno d'un lamento di bue impedito forzosamente dall'accesso alla sua greppia.

Assuefattosi presto a quel tumulto sonoro, ecco affacciarsi meschinamente il più arcigno degli ostacoli frapposti fra la sua persona stanca e l'agognato riposo: una austera e turgida erezione.

Intere settimane di astinenza sia di tipo condiviso che autonomo, si produssero, durante quella notte sfortunata, in una ribellione ormonale a cui la sua attesa paziente non seppe porre risoluzione. Il richiamo testosteronico, al contrario, s'andò via via intensificando, e cominciò a risalire i canali dell'animo per giungere a stringere d'assedio la mente, impegnata  a mantenere a favore dell'insonnia la prerogativa ipotecaria sui desideri notturni.

Il crepuscolo ante r.e.m. formattò i suoi pensieri a guisa di postriboli a cielo aperto, dove volteggianti sagome venivano scolpite da tale improvvisa intemperanza notturna, impresse da rintocchi di metallo regolari ed echeggianti.

Rintocchi che presto calamitarono la  sua attenzione, manifestandosi come urti soffocati su superficie metallica, simile all'opera di un fabbro. Ma alle 3.00 di notte, quale mai potrebbe essere l'opera umana così come percepita? Scavò nella sua mente confusa tra le bramosie disattese e non vi trovò alcuna ragione adeguata a giustificare la persistenza di quei rumori.

Allorchè comprese che qualcosa di oscuro era al lavoro, forse un erede di Efesto, forse uno di quegli spiriti da indigestione di cui sono pieni i racconti dei trisavoli. S'alzò, e scalzo con l'erezione tutt'altro che sopita, si diresse verso la sua finestra e provò a muovere le tapparelle.
Il livello di ansia irrobustiva l'intensità di quei rumori che sembravano adesso riempire lo spazio della sua stanza, e quasi rimbombare per tutta la casa. 
Possibile che questi suoni colpissero solo le sue orecchie e non anche quelle del fratello russante, o dei vicini chiacchieroni, o delle gatte in calore che colonizzavano il quartiere?

Possibile che la notte non riuscisse a produrre adeguati anticorpi naturali a quel dirompente agente esterno che stravolgeva il copione di una agitata notte di inizio estate?

S'alzò nuovamente nell'oscurità, e prestando attenzione a non urtare con gli alluci contro i muri, e a tenere largo il pigiama inferiore per mascherare l'origine dei suoi turbamenti, si diresse verso la seconda fonte di ronfamento della casa: la camera di suo padre.

- Papà!
- Eh! Che c'è? Che vuoi? - rispose allarmato
- Sento degli strani rumori metallici provenire dal cortile, vieni a sentirli anche tu.

Entrambi scalzi e ansiosi si diressero verso il finestrone che s'affacciava sul cortile malefico dove gli spiriti maligni stavano presumibilmente gozzovigliando. I rumori s'erano fatti più tenui e attenti, ma evidentemente esistevano anche al di fuori del suo cervello pervaso da "istinti tipo Natural Geographic, dvd n.5 - l'accoppiamento all'epoca dell'homo erectus".

Suo padre indugiò con la mano sulla maniglia della finestra, mentre lui gli era accanto, contento di aver constatato di avere ancora un barlume di lucidità. 
Il padre avvertì un rumore brusco di urto metallico. Decise. Aprì la finestra.

I due s'affacciarono sul cortile e la notte apparve loro pulita e disabitata.
D'un tratto, ai loro sguardi annebbiati,  si materializzò innanzi una scala, appoggiata alla parete del cortile. I due s'affacciarono meglio e a pochi passi da loro individuarno le sagome dei cattivi.

- Ehi! Disgraziato! - Urlò suo padre alla vista di quei manigoldi. E tre snelli esemplari di scassinatori di serie B in tuta metalmeccanica, passamontagna, dotati di picconi, tenaglie, e piede di porco, balzarono spaventati alla vista dei due nottambuli. 
Stavano tentando di divellere, in maniera molto discreta e con la delicatezza di una  ferramenta in fase di crollo, le grate delle prese d'aria dei cessi del bar sottostante la finestra da cui i buoni li avevano colti in flagranza.

A due metri di distanza, si fronteggiavano il bene e il male.

- Noi ce ne andiamo. Ma voi non chiamate nessuno. Non sono affari vostri. - Esclamò il leader degli "Ocean's three" degli sfigati, esprimendosi con un perfetto accento estremamente locale.

- Be', dai, andatevene, ché vi abbiamo riconosciuto. - Bleffarono astutamente i due paladini della giustizia in pigiama, in quanto l'unica cosa riuscita a quei tre deficienti era giustappunto il travestimento da palombari del deserto di ghiaccio venusiano.

- Anche noi vi abbiamo riconosciuto. Non chiamate nessuno. - Rispose il capo spedizione con aria di minaccia molto più  concreta. 
Mentre i tre scavalcavano il muro e la ringhiera del cortile per darsi alla fuga, rinuciando al loro ingente bottino costituito dall'incasso giornaliero di una macchinetta videopoker, la cassetta dei gettoni per il biliardo, e un paio di flipper, le menti dei due paladini della giustizia si rivolsero ai pneumatici delle loro rispettive autovetture, o alle fiancate delle stesse.
E nello sguardo del padre che incrociava simultaneamente quello del figlio si sarebbero potute leggere queste parole:

- La mia macchina è al sicuro in garage. La tua no. Tié.

Ma affinché un tentativo di violazione della legge di quella gravità fosse punito fino in fondo, era necessario agire anche attraverso la leva pedagogica e redentrice. Conscio di questo, il padre si rivolse nuovamente allo sconfitto leader dei tre ladri fuggiaschi:

- Ehi tu! 
- Che c'è?
- Quella scala è vostra?
- Ah, sì!
- Toglietela da lì, portatevela via, ché dà fastidio.

Ed ulteriormente umiliato nella sua professionalità da scassinatore, il leader del gruppo tornò sui suoi passi per riprendersi la scala che stava dimenticando sul luogo del delitto.

- L'ordine prima di tutto. - Disse il padre al figlio, mentre spiegava l'accaduto al resto della famiglia destato dal vociare inconsueto, e prima di allertare le forze dell'ordine.
Intanto, l'insonne figlio provò a ri-adagiarsi sul suo letto. Ma comprese immediatamente che avrebbe dovuto porre rimedio alle sue turbe ormonali che gli impedivano un riposo ancor più meritato dopo il suo gesto eroico. 
Si recò in bagno, e s'abbassò i boxer affrontando direttamente il suo detrattore del sonno, ancora in ottima e vispa forma. 
Pensò che grazie a quell'erezione invincibile, quella notte, un crimine non ebbe modo di compiersi.
Trionfante d'orgoglio, prese piena coscienza della portata dell'evento, masturbandosi nell'accesa libido amplificata dall'autoesaltazione eroica.

Finalmente l'ormone s'acquietò. 
E tutti e tre gli eroi trovarono pace in quella notte in cui i criminali avrebbero dovuto temere più d'ogni vigilanza notturna, più di una ronda leghista della brianza, più di robocop, la benigna minaccia di un cavaliere oscuro, sempre vigile e attento nei boxer di un insonne.

L'indomani mattina il proprietario fortunato del bar era nel cortile a raccogliere le testimonianze dei testimoni oculari. 

- Grazie - disse il barista ai due giustizieri della notte.
- Grazie al "cazzo" - rispose il figlio, che cominciò a fantasticare in che maniera la leggenda si sarebbe diffusa tra le chiacchiere della città.

domenica 4 settembre 2011

Ad ognuno il suo cattivo gusto


- Ma insomma! Ti sembra giusto?

- Coerente.


- Se non ce lo diceva la tua ragazza di questo "coso" dove scrivi, non avremmo mai letto un messaggio, un biglietto, un qualcosa!

- Che cazzo vuoi, oh?

- Come, "che cazzo vuoi"? Ti sei suicidato!

- Non si chiama "coso", è un blog. E comunque ve l'avevo detto, e con un lessico abbastanza comprensibile per il vostro basso profilo scolastico.

- Ma quando ce l'avresti detto?

- Ma a pranzo, cretino, poco fa.

- Ma quando?

- Mentre mangiavi il polpettone e ti accusavo di non aver mai voluto riporre un centimetro di fiducia nei miei confronti, lasciando che io stesso mi convincessi che non ne valeva la pena.

- Mi hai detto queste cose? Ma io non ricordo!

- Certo che non ricordi, te le ho dette parlando ad esempi, a parabole... avresti dovuto capirtlo, da solo, senza disegnino.

- Potevi essere più chiaro però!

- Ma dove cazzo hai sentito mai di uno che si suicida dopo aver ponderato la cosa in un dibattito luculliano... sei scemo?

La vita interiore


- Ma lei è un giocatore di rugby?

- No, pratico attività più tranquille, come la briscola.

- Fuma?

- Sì, ho un'insana propensione al carsismo polmonare.

- Diamo una controllata alla prostata?

- No! Sono diventato obiettore di coscienza pur di non far visitare la mia prostata! La prego...

- Ma giunti alla sua età un controllo sarebbe opportuno, suvvia, non faccia il bambino, si volti.

- Le ho detto di no! E comunque sono ancora giovane per badare alla mia prostata!

- Lei "giovane"? Ma sta scherzando, vero?

- Perchè?

- Lei crede davvero di essere ancora giovane?

- Ma... è scritto qui, legga, sui miei documenti.

- Quali documenti?

- Ecco, questi... ma.... che cosa è successo alla mia immagine?

- Che cos'ha la sua foto?

- Sembra essersi ingiallita, all'improvviso, e il mio nome è sbiadito, la mia altezza dimezzata, che scherzi sono questi?

- Tenga, si guardi allo specchio.

- Ma, chi è questo vecchio canuto?

- Come chi è? È lei, non si riconosce?

- Ma non  posso essere io! Avevo il viso tondo e i capelli neri quando sono venuto qui.

- Quanto tempo crede che sia trascorso da quel momento?

- Come sarebbe, quanto tempo... Un'ora al massimo...

- Un'ora al massimo, dice? Lei ci sta lasciando lentamente, figliolo. Su, si giri, dobbiamo controllare la prostata, è necessario.

- Ma vuole darmi una spiagazione? Che cosa c'era in quel bicchiere che mi ha offerto?

- Dei drenanti naturali.

- E cosa significa tutto questo? Perché sento le gambe cedenti e un forte mal di schiena?

- Che lei deve svegliarsi, giovanotto. Che lei deve necessariamente svegliarsi  e andarsene da qui.




Le scelte sono gli angoli in cui si depositano le scorie della solitudine in cui è confinato ogni uomo. Ai bordi del pavimento, lungo i muri delle stanze, basta una passata di un panno umido per ristabile una parvenza di chiarezza. Agli angoli, invece, resta sempre qualcosa che si deposita col tempo. Lì, dove i contorni si fanno irregolari, dove è obbligatorio svoltare per non andare a sbattere contro un percorso nottambulo, e dove fa più male se ci si rovina contro.

Dopo aver fatto i gargarismi col suo colluttorio rosso, e avendo avuto cura di riporre il suo deodorante ascellare nel bagaglio, andò incontro a suo padre che lo aspettava battendo la pianta del piede.

Allargò il nodo della cravatta per non lasciare che l'ansia lo strozzasse. Qualche felpa per la sera l'aveva portata con sè. Doveva ancora interpretare gli adattamenti del suo corpo ad un clima diverso a quello a cui era abituato. Ogni tanto si schiariva la voce con un grugnito silenzioso per modulare meglio le sue parole. Aveva capito che plasmando bene le parole avrebbe potuto rendere meno infettivo il suo accento marcatamente distintivo.

Durante il volo provava a intavolare discorsi con se stesso per saggiare i suoi progressi nel tenere  a freno le mani, per controllare meglio gli effetti dell'ansia.
Che avrebbe avuto a disposizione poche altre occasioni lo sapeva bene. Non si è giovani per sempre. E la resa dei conti inesorabilmente è depositata sempre là, all'angolo della stanza.

Avrebbe sciorinato ancora una volta il novero delle sue esperienze. Una ad una, come un susseguirsi di stazioni deraglianti che non avrebbero mai conosciuto un approdo. Avrebbe provato ad offrire alla commissione una rilettura di quegli eventi che fosse meno ufficiale. Avrebbe tracciato il filo conduttore di quella rincorsa alla normalità affrontata con tanto coraggio ma con pochi apprezzabili impronte nel corso evolutivo della specie umana.

Giunto a destinazione lei lo venne a prendere, e lo abbracciò. Per un attimo ebbe il sospetto che vi fosse una larga pozzanghera che separasse la realtà monolitica e immutabile dall'idea che costei in quel momento stava stringendo tra le sue braccia piene di ardore.

Ogni minuto che da allora trascorse assomigliava al campanello del giudice istruttore che freddamente enucleava le ragioni di una speranza malriposta.

(I vincenti li riconosci subito, riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di te? Io avrei puntato tutto su di te, Noodles. E avresti perso.)

Lei le offrì una granita all'anice, preparata come solo sua madre sapeva fare. Era diventata consuetudine da un po' di anni. Egli guardava il suo bicchiere di granita nel quale giaceva l'ultimo sorso. Pensò che non aveva sempre bevuto granite. Che per larga parte della sua vita le granite erano fluite in maniera indifferente senza che gli venisse mai venuta voglia di berne un bicchiere. Tanti anni erano trascorsi senza che le granite fossero mai esistite.

Un giorno, invece, s'accorse che faceva caldo e che non aveva fame, e che una granita gli sarebbe bastata per restare in compagnia di persone a cui avrebbe poi voluto bene.

Pensò che questa volta non sarebbe stato necessario avvisare a casa che il viaggio era andato bene.

Per anni gli avevano insegnato ad aspettare, a rinunciare, a restringere il ventaglio delle scelte. Si presentava al mondo dei vivi ricolmo di un amore che recava in dote miriadi di capitoli incompiuti. Storie affogate nel cesso al primo apostrofo erroneamente collocato.
Come quelle vecchie macchine da scrivere che andavano con i nastri di inchiestro nero. Bastava un dito un po' più disconnesso a rendere inaccettabili discorsi interminabili.

Infilò il suo pigiama invernale, e respirò a fondo il calore che da quell'abbraccio ancora s'infondeva. Una lacrima si addensò alla cornice del suo occhio sinistro, come un vetro rotto da cui penetrava la pioggia.
Sentiva il peso di tutta quell'inadeguatezza a cui aveva lasciato ampi metri di vantaggio, e che proseguiva lenta, lentissima, e lo precedeva nella risoluzione dei suoi algoritmi quotidiani.
Anche con il passo di Achille non l'avrebbe mai raggiunta, perchè essa conservava sempre una precedenza assoluta che le proporzioni dello spazio tempo avrebbero reso incolmabile.
Si nasce tartaruga, o si nasce Achille.
Si nasce compiuti, o si nasce appena.

Sul giornale dell'altro ieri vi era la consacrazione dell'incompiutezza come stagno nel quale la forza creatrice del linguaggio si edulcorava di arazzi pregiati nei riguardi di una cenciosa e scontata banalità a tratti quasi ripugnante.
L'irrequietezza è l'impeto ventoso che schiaffeggia l'insenatura al riparo del mare. Una conca aperta da cui la vita avrebbe lanciato affondi che un lago cheto e descrivibile non avrebbe mai appreso nelle sue computabili rive.
Una forma estrema di annegamento che ha come contorno incompleto la colpa, e come sbocco inevitabile la distruzione di ogni cosa.

Sentiva tutto il peso dell'umidità di un cielo in cui la sera non si rintracciano stelle.

A lei dedicò quei pensieri che si rivelarono gli ultimi. Pensieri che non sarebbe stato capace di replicare su carta per non lasciarsene privo. Ché scrivere è un impoverirsi senza ricevuta fiscale.
L'arte, un condono sull'inconcludenza.

E la smise all'improvviso, calpestato tra i binari di una metropolitana.


 

venerdì 22 luglio 2011

Babilonia


[Gesù in un locale di Drag Queen - si ringrazia ChuckIrvine]



- Che ti do?

- Ho voglia di un calice di Brunello, di quello buono. Oh, cavolo, dopo tutti questi millenni avete ancora nervi per ascoltare la musica a questo volume?

- Non ce l'abbiamo il vino, tesoro. Solo miscele infernali. E se non ti piace la musica puoi accomodarti nel dormitoio in fondo alla strada. Conciato da pezzente, con quegli stracci, forse ti lasciano entrare. Ma non fare accattonaggio sul sagrato della chiesa, rischi un verbale dal vescovo.

- Ahia, una fitta, ho ancora il costato infiammato. Orsù, dammi un calice con dell'acqua naturale,  ché ci penso io.

- Tu non sei di queste parti. Qual'è il tuo nome?

- Uhm, chiamami pure Emmanuel.

- Dimmi un po', Emmanuel, ma chi è il tuo parrucchiere, Jeffrey Lebowski?

- Ah-Ah-Ah.... Simpatica. Stronza.

- Eccoti l'acqua, sciacquati le viscere. E una volta purificato, puoi divertiti con quel donnone travestito da ombrellone da spiaggia che ti sta fissando da quando sei entrato. Ah, eccola, vi lascio soli. Il privé costa solo 30 denari.

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- Guarda, guarda chi si rivede.... Emmanuel!

- Ci conosciamo? Ricordo la samaritana al pozzo, la veronica, le pie donne, ma non mi ricordo di aver mai rivolto la parola ad un abat-jour con il silicone nelle labbra.

- Ahahahah. Ci mescoliamo alla confusione nella quale è precipitato il creato, ragazzo. Guardami bene.

- Ga-Gabriel?

- Non Gabriel, ma "Gabrielle", adesso.

- Oh, acciderbolina, sto perdendo colpi.

- Che succede?

- Niente, anziché in Brunello, l'ho traformato in Chianti. Il Chianti fa schifo, non lo farei bere nemmeno a Giuda. Non ci farei lavare nemmeno le mani a Pilato.

- Come mai sei venuto qui, ragazzo? A proposito, lo sa tuo padre?

- Ci son capitato per caso. Avevo voglia di svagarmi un po', di provare a divertirmi con qualcosa di alternativo. Sto troppo male.

- Che hai? Ti sei reso conto dopo duemila anni di essere stato un incompreso?

- No, quello era già insito nel sacrificio da me compiuto. Solo alla rottura del settimo sigillo capiremo se ne è valsa la pena. Verrà una nuova Babilonia.

- Hai fatto la tua parte in maniera esemplare, Emmanuel. Meriti un po' di emozioni forti. Vuoi divertirti con un'amica? Non dirmi che ti sei rassegnato al catechismo edito dalla Paoline Edizioni?

- No, Gabriel. Oh, perdonami, "Gabrielle". Non sono in animo di svagarmi.  Soffro. Maddalena se n'è andata e non riesco a trovarla. Dal giorno dell'ascensione, è sparita lasciando un vuoto grande più del mare. Non me l'aspettavo. Son duemila anni che vago.

- Forse posso aiutarti.
Io so dov'è.

- Dimmelo, Gabrielle. Ti prego. Poni fine al mio tormento... Non dirmi che anche lei s'è fatta ingaggiare in un postaccio come questo?

- Ma postaccio le corna di satana! Sai quanto guadagno io in una sera? Be' tu non lo puoi neanche immaginare. Altro che pescherecci del Mar Morto. Tzé.

- Va bene, dimmi dov'è, Gabrielle.

- Via Olgettina, Milano 2. Ma stai attento. Devi aprire il portafogli per riconquistarla. Con la povertà ti sciacqui lo scroto oggigiormo.

- Babilonia.

- Sì.

 

mercoledì 8 giugno 2011

Ammissioni


Ho fallito, lo ammetto. Ma non perché all'epoca immaginavo di piazzare stabilmente il mio uccello tra le tue grandi labbra, e codesto intento si rivelò immediatamente impraticabile in un'ottica di lungo periodo.

Anche nelle più spregevoli delle vicende umane, anche quando cala un'ingestibile amnistia nei reciproci livori, può capitare che una illogica serenità possa agevolare la conservazione di residui frammentati da riporre nei barattoli delle conserve di frutta.
Come lombrichi imbalsamati.

Non è rimasto nulla di quella pallida immagine di ciò che eravamo. Neanche il fotogramma più sano che ci sorprese compagni almeno nello studio, quando trascorrevamo il nostro tempo a discutere di in house providing.

Perché nonostante questo voterai SI al referendum sull'acqua.

mercoledì 18 maggio 2011

La maieutica: Alcor ed un'ostetrica bona


- Aiuto Alcor, perchè la gente cerca sempre di indirizzarmi sulla retta via partendo con menate sul cristiansimo?

- E chi lo dice che sia quella la retta via?

- C'è 'sta mia amica infame che è fermamente credente e comunista. Sta cercando di convincermi che i primi comunisti sono stati gli apostoli.

- Nel senso che hanno fatto cadere il governo Gesù, come fece Bertinotti nel '98 col governo Prodi?

- Ahahahahah. Ma se la mettiamo così sono stati gli uomini delle caverne.

- Ciao, devo andare, il mio posto è là.

- Ciao,  W Gesù.

lunedì 16 maggio 2011

Send me dead flowers to my wedding


Ad una donna-geco:



- Sei andata a votare?

- Sì. Gli conviene fare qualcosa per la cultura o lo ammazzo con le mie mani, dillo al tuo amico.

- Se dobbiamo sposarci dobbiamo fare una cosa veloce: cambierai la tua residenza quaggiù, mi voti l'anno prossimo e poi divorziamo, ok?

- Sono in una giornata terribilmente acida, incazzosa e nervosa... sii felice di essermi lontano.

- Per un voto sopporterei qualsiasi acidità. Questa è una guerra.

- Moriresti sciolto, nella mia acidità... alché il mio voto non ti servirebbe più a un tubo.

- Nooooo, io sono basico, al massimo resterà del sale sul fondo del contenitore delle nostre vite.

- "...al massimo resterà del sale sul fondo del contenitore dlele nostre vite..." Sì, ok ti sposo.

- Son troppo brrrrravo a raccontar cazzate per convincere la gente.

- Sì, confermo.

- Considera quella frase un dono di nozze. Più che parole non saprei cosa regalare. O preferisci un solitario?




Fuggita inesorabilmente. Mai raccontare tutta la verità in campagna elettorale.

mercoledì 4 maggio 2011

La dolcezza del ferroviere


- Ti sei svegliato presto stamattina.


- Erano circa le quattro.

- Ma sei andato a letto all'una... Qualcosa ti turba?

- Le mie soddisfazioni più sfarzose le colgo nel rimuovere i Trojan dal mio netbook.

- Mi dai libero accesso ai tuoi pensieri reconditi?

- Non ho più la password.


Si sentiva a propio agio e d'accordo con una minoranza di persone. Ora neanche più con quella. Saranno state le immagini taroccate del volto pestato a sangue di Osama Bin Laden, e gli esotici racconti di assolate strade africane, ma quella notte s'era svegliato di soprassalto.

S'era scoperto a rimestare nostalgie in preda ai narcotici riflessi di una fase REM viziata da una propensione insana tra psicanalisi ed Inception. I sogni l'avevano spesso condotto a recuperare  i ritardi lungo i binari di un treno in imminente partenza, popolato da viaggiatori malformi.

Si recò al lavoro con insolita solerzia, motivato a sospendere quell'incidentale episodio nel background della sua paga giornaliera. Non riusciva a giustificare i propri comportamenti e le parole che mancavano puntualmente l'appuntamento con l'opportunità e l'occasione di eventi lanciati a velocità non irresistibile, lungo la tratta che gli era stata assegnata nel turno mensile.

Poteva sembrargli una ritirata spagnola da tutti i mea culpa inculcati dalle inadeguatezze degli appuntamenti precedentemente colti con precisione svizzera.
Adesso disegnava involontariamente olgrammi nel proprio fiato, in un umido mattino di maggio, aspettando che il proprio spuntino di metà mattina si scongelasse.

Mancava la dimostrazione pratica delle proprie doti, quelle che avrebbero consentito ad una mente moderatamente brillante di collocarsi come meglio avrebbe meritato.

Non tutti i suoi talenti erano stati resi al termine del viaggio. E non tutte le coincidenze aspettano il congiungersi degli animi proprizi con l'approssimarsi degli attimi compiacenti. Scendendo dalla carrozza accidentata era stato poco accorto a non dimenticare un bagaglio colmo di delicate attenzioni e dolci premure che sembrava ora irrintracciabile.

La sera precedente non aveva bevuto. Colei che lo accompagnava aveva il fiato d'un cocktail ionizzato.

- Perché non riesco a dirti mai di no? Te ne stai lì con lo sguardo perso che ti mura alle spalle della civiltà. Fammi entrare.

- Non c'è nulla.

- Hai le mutande troppo strette. Laggiù c'è qualcosa che soffre la mancanza di adeguati spazi.

Interruppe bruscamente la propria opera in seguito ad un giramento di testa. Aveva bisogno di vomitare e corse in bagno.
Lui la seguì con gli occhi, guardando altrove uno specchio che poteva rifiutarsi di ritrarlo in quella vergognosa sospensione dalla propria dignità.

Lei era piegata a singhiozzare. Smaltiva le conseguenze dei propri eccessi, e della propria miserabile riluttanza a smettere di umiliarsi per la libera scelta di farsi trattatre da rimorchiatore a chiamata per solinghi rottami.
S'alzò di scatto e la raggiunse. Era china, e le sollevò la gonna mentre lei espelleva. Cominciò a prenderla con veemenza da dietro, ed i singhiozzi acidi di lei si frammisero a sussulti.
Ché in quello spurgo avrebbe risolto la contraddizione che lo lacerava e lo esiliava nella condanna ad un silenzio di un'anima non del tutto espressa.
Finì, ed andò via senza un saluto, dopo aver rimosso con dovizia le tracce dell'incauta brama di autodistruzione.

Dinanzi al treno in partenza ripercorreva l'inflazionamento e lo sperpero di vita che lo aveva condotto a spalare quella tale montagna di merda dalla porta d'ingresso della felicità.
L'insipiente inadeguatezza che ne era venuta a galla, e la dolcezza che era stata estinta.
Non era stato il suo lavoro a renderlo un po' più cinico, un po' più avaro.

Poi all'improvviso la chiamata che aveva smesso di attendere, quella che avrebbe reso più accettabile il ritardo della sua coincidenza. Quella voce che sottendeva gioia ed innocenza tra i silenzi impercettibili che fluiscono tra una domanda e una risposta.

- Volevo soltanto chiederti l'orario del prossimo treno in partenza da Milano. Tutto qui.

Tutto qui.

 

sabato 12 febbraio 2011

Cantico 'e criature


Domani io andrò a pranzo dai miei zii. Capita ogni domenica da circa un mese, ogni volta da zii diversi.



Una fenomenale pulsione di generosità tanto esagerata quanto molesta rispetto al proprio cronoprogramma a breve termine.



Una gara di impropria solidarietà dettata da una sostenibile contingenza, che rischia di trasformarsi in una competizione olimpica che iscrive tutte le ramificazioni del parentado diffuso.
Gente che mi curavo di avvicinare nei soli periodi elettorali chiama alle ore più impensabili per sincerarsi della nostra sopravvivenza. Una tracotante attenzione che ha avuto il significativo effetto di farci staccare il telefono fisso e di farmi stare quante più ore possibili lontano da casa.



Ma la domenica il fervente affetto dei parenti va incassato tutto, a cifra tonda, senza rendere il resto. Nemmeno la dissenteria potrà salvarci.



Commentando il dì venturo, mia sorella esprimeva l'auspicio che al banchetto domenicale in trasferta potessero prender parte i miei cugini con relative mogli e prole.



Mogli e prole che io non ho mai incontrato in vita mia. Domani avrò l'opportunità di conoscere due mie cugine acquisite ed un bimbo di cui ignoravo l'esistenza.




- Quanti anni avrà il piccolo?

- Quasi tre anni.

- Tre anni???

- Sì, tre anni, Alcor. Alle spalle della tua ignavia il mondo si evolve. E se non dovessi ricordartelo, sappi che il cugino X si sta iscrivendo alle superiori, mentre la cugina Y il prossimo anno andrà alle elementari.

- Ed io che ero rimasto a due batuffoli cromosomici... il tempo passa, cara sorella. Cazzo, è proprio vero, stiamo morendo.

- Fanculo fratello Alcor, tu ed i tuoi sconvenienti approcci all'esistenza. Io non voglio pensarci.

- E invece no, devi pensarci, sorella. E riderci di gusto per domarne l'impeto. Imbrigliare ogni depressivo imbuto dell'incoscio in una folgorante risata.
Ci vuole tempo, ma tutto apparirà poi così spoglio di una qualsivoglia attesa. Lo stesso concetto di speranza sarà un'arma spuntata da barattare con una mega offerta 3x2 sulla maionese. Asciugare la vita da ogni ricerca di senso che rischia di far male alla vista peggio di una reiterata e recidiva autarchia sessuale.

Che poi un senso lo acquisterà comunque, ma data l'inaffidabilità dell'animale in noi è meglio che il senso germogli a nostra insaputa.

Ecco stasera, infermo e annoiato, mi ci vorrebbe un pompino ben impostato per accettare, senza reclami, l'idea che si debbano aprire gli occhi ogni mattina senza concedere al mondo il consenso al trattamento dei propri dati esistenziali.

lunedì 6 dicembre 2010

Monologo interiore


- Ci sono dei files sparsi nella mente che rallentano i tuoi processi, Alcor. Li dobbiamo archiviare in un'unica cartella. 

- Va bene.

- Come prefersci che la chiamiamo la  cartella: "esperienza" o "inculate"?

- È lo stesso. Fai tu.

martedì 31 agosto 2010

Sconoscenze familiari

Mamma, vuoi sapere perchè non pubblico?

Rimembri la reazione che avesti quando trovasti i preservativi nel comodino?