giovedì 31 luglio 2008

...

Spero solo una cosa.
Di potermi guadagnare un lasciapassare non per il successo, né per la carriera, né per qualunque cosa attenga al mia inutile professione.
Soltanto una buona scusa per mandare a fanculo tante cose.
Famiglia, amici, gente con cui rido fino alle 1.55 prima di partire, gente che attendo, e questo cazzo di blog.
Ma soprattutto, di mandare finalmente a cacare la persona più importante per me, cioè, io.
Se al ritorno non dovessi più scrivere, meglio così.
Mi sono rotto il cazzo.

Un'altra storia


 Cominciò con la luna sul posto
e finì con un fiume d'inchiostro...


Willy Loman stava invecchiando, non riusciva a tenere bene aperti gli occhi quando guidava la sua decapottabile lungo le pianure del Texas. Sovente lo si sentiva parlare da solo; suo figlio Hap lo ascoltava di nascosto, per non sentirsi troppo apertamente in imbarazzo, per un padre così suonato.

Willy pronunciava sempre il nome di Biff, ci parlava in continuazione nei suoi vaneggiamenti; quel suo figlio trentacinquenne che ancora non riusciva a darsi una dimensione, immerso tra la sua insoddisfazione e le pressanti esigenze paterne.
Povero Biff, inetto e vivace.

Well, I spent six or seven years after high school trying to work myself up. Shipping clerk, salesman, business of one kind or another. And it's a measly manner of existence. To get on that subway on the hot mornings in summer. To devote your whole life to keeping stock, or making phone calls, or selling or buying. To suffer fifty weeks of the years for the sake of a two-week vacation, when all you really desire is to be out-doors, with your shirt off. And still - that's how you build your future... I've always made a point of not wasting my life, and everytime I come back here I know that all I've done is to waste my life...

Succede sempre così. Mi sono laureato a razzo, ho vinto un paio di concorsi. Sono stato ammesso a proseguire le mie attività in una località dove qualche centinaio di anni fa passeggiava Adam Smith, e nella torre dove David Hume scriveva il Trattato sulla natura umana.
Devo solo superare un piccolo ostacolo, per affrontare il quale domattina prenderò un treno.

Ogni tanto penso che le botte di culo non possono essere eternamente disponibili ai propri lerci comodi. Ed è per questa ragione che domattina parto con la certezza di non meritare granché. Una certezza oggettiva e non ipocrita, come chi si ama dipingere con falsa umiltà per ingenerare una strana forma di altrui pietà. Oppure per la pericolante ed incidentata difficoltà a riconoscere la propria dignità. Oppure per insicurezza, per sbadataggine. Per non saper ricordare in che posto della soffitta è andato a riporre un po' d'amor proprio ed un po' di coraggio.

La verità è che, lasciando da parte Smith e Hume, non me ne frega un cazzo. Ho bisogno di cambiare aria. E se Seneca aveva ragione appena un pochino, probabilmente è da se stessi che si deve partire, non dal voler cambiare il cielo sopra la propria testa. Le ciel ne change pas, isnt'it?

Quindi, sinceramente, continuo ad affrontare le cose con la solita strafottenza. Perché in fondo, ho smesso di curarmi da tempo sulla giustezza di quello che si merita o meno. Non è che abbiamo molti margini per giudicare quello che vige intorno, né di comprendere la bontà della rotta su sui ramificare le nostre strade. Io so dov'è che mi portano le mie strade. Sono troppo orgoglioso per poterlo dire a voce limpida, anche al telefono. Eppure mi viene semplice come respirare, come ascoltare le cicale di sera. Devo fare enormi sforzi di immaginazione per non sentirmi con un rattrappito mentale che parla da solo, nonostante le parole che ascolto.

Lo so dove portano, quando succede che ti senti circondato da continui richiami, come quando transiti attraverso le strade di una località marina di sabato sera. Accanto hai la tua migliore amica che ha colto ogni possibile segno di squilibrio patologico disegnato con precisione rinascimentale sulla tua faccia. Lei che ti conosce meglio di tua madre, e che parla al telefono per ore con un tizio ubicato chissà quanto lontano, ridendo e infondendo una soddisfazione commuovente in ogni dove. Mentre tu passeggi amorficamente col toscano acceso, gaiamente e scazzeggiantemente e cronograficamente senza pensare a niente (ma soprattutto a nessuno) per almeno cinque minuti, e poi? Basta svoltare l'angolo che ascolti a tutto volume questa canzone provenire da una villa nei paraggi.

Ma come si fa... Riferimenti, forse generati dalle suggestioni e dal desiderio di attaccarsi alle pareti dell'esistenza con tutta la
fallace volontà. Come colui che in "di sera un geranio" si spalmava in tutti gli oggetti della vita che stava per lasciare, per confondere una traccia tra quelle testimonianze, a cui aderiva come polvere di asfalto gommoso e indelebile. Invece la sua essenza vera lentamente si smarriva in un flusso che lo spegneva. Relegandolo al nulla.

La notte non dormo. Ma non è una novità. Riesco a chiudere gli occhi quando albeggia. Quando filtra uno strano grigiore che indora le fresche bastonate sulla schiena sempre maltrattata. Che cosa faccio? Niente di diverso da quello che mi riempie i momenti di apparente desta presenza. C'è un pensiero che mi ronza, una risposta da rendere a qualcosa che mi son lasciato per strada durante un dialogo.
Quale particolare privilegio ha questa piccola agitazione del cervello che chiamiamo "pensiero", perché debba essere presa a modello dell'intero universo? La nostra parzialità verso noi stessi ce lo pone di fronte in ogni occasione.

Capita sempre, quando sei perfettamente conscio che il mare delle parole profuse è un immensità che si racchiude in una teca di cristallo. Ne osservi la superficie, consenti solo ad un strato di anima di venire a galla. Si è sempre incompleti quando per ogni parola pronunciata ce ne sono mille altre che sai che vorresti affidare alla mente della persona che ti ascolta. Non lo fai, non perché esiste un codice di condotta che lo imponga.
Né sei in grado di opporti all'Ego che vorrebbe aprire le valvole dei sentimenti senza ritegno alcuno, e lasciare che chi ascolta possa specchiarsi in tutta l'importanza che riveste, senza saperlo, o senza nemmeno volerlo. Ed io ne sarei capace, è solo una tracotante forma di rispetto e di alienazione dall'odiata tecnologia a frenare il mio impeto.
Credo che l'Accademia dei Sillografi (non vi dico cos'è, leggete Leopardi) dovrebbe prevedere una copiosa ricompensa per chi riesce ad inventare un macchinario per misurare la sincerità.

Mi fermo a riflettere sulla possibilità che un'altra persona, estranea, con altri neuroni ed altri tempi sedimentati in diverse abitudini, possa diventare all'improvviso "importante". Com'è possibile consentire questa intrusione così pervasiva nelle proprie gelosissime priorità? Me lo chiedo da tempo.
Mi chiedo se esiste una rinuncia o un cedimento nel lasciare che qualcuno ci accolga nella propria importanza. I sentimenti sono dei cappi di responsabilità, sono delle catene di sguardi e giudizi, sono un abito troppo stretto che imprigiona la nostra libertà di espandersi.
La tristezza è comprendere che la propria espansione non è che un voler sollevare la braccia al cielo in attesa che giunga qualcosa da afferrare e raggiungere, cioè il nulla più nulla e basta.
Ma non voglio pensare che gli altri siano un'amara consolazione al vuoto della propria miseria, alla solitudine eterna che cova nonostante le sovrastrutture mielose con cui amalgamiamo le salse delle nostre relazioni, più o meno durature o effimere.

Né riesco a vedere negli altri un mero appagamento animalesco di arcaiche necessità al cui solo pensiero mi sudano le mani.
Io ho il dono delle parole per dare e ricevere qualcosa. Ma non basta la mutualità, non a chi sente di bastare a se stesso senza dover ricorrere alla compagnia altrui.
Siamo fatti male, non diamo niente alle persone. Però il dilemma permane. Qualcuno è importante. Qualcuno ha preso una parte di noi, a nostra insaputa. Ha creato uno spiraglio nel muro da cui nulla fuoriusciva.

Che cosa faccio per rispondermi? Nulla. Siamo empirici come David Hume. Ascolto la voglia immotivata di cercare, attendo che la sera mi assalga l'ombra di un silenzio che è un tono singolo e preciso che non canta all'interno di quel chiasso che baratterei volentieri con una parola pronunciata solo e soltanto da quella bocca.
La mano è fredda, nonostante la chiedano in tanti, con floridi sorrisi talvolta falsi e abominevoli.

Qualcuno è importante, qualcuno vive dentro un'altra persona secondo una nuova coscienza che è diversa dal ritratto che si ha della propria.
Esiste un grande male negli uomini: noi non ci apparteniamo mai del tutto. Basta parlare e non si è già più padroni di se stessi. Gli sforzi per mantenere saldo il controllo su una realtà che ci spia in continuazione sono chimere di libertà contro cui ci si difende opponendo un egoismo destinato giocoforza a franare sulle coordinate che il grande prestigiatore della esistenza ha mescolato per chiunque.

Molto nichilista e avvilente come prospettiva, senza effondere in citazioni ridondanti e fuoriluogo, disse Enzo Ferrari che la vita è una smisurata galera. Che facciamo? Andiamo ad Ostia ad attendere un'alba che ci spunterà alle spalle, mentre diamo sfogo agli incubi ricorrenti e alle ossessioni maniacali a cui conduce il guardarsi vivere solo e soltanto attraverso i propri occhi?

Attendiamo i cosiddetti momenti perfetti? Come Antoine Rocquentin da Bouville... oppure diventiamo islandesi, che pur martoriati dalla natura ostile, decidono che è possibile emergere?
Guarda, cara, siamo sul dorso di un vulcano. C'è ancora puzza di lapilli e cenere. Non scorgo alcuna presenza vitale in questo deserto di polvere. Però c'è una ginestra che resiste a tutto questo.

Un fiore resistente e testardo, la ginestra. Si illude di resistere alle fiamme se mette radici persino sul dorso di un vulcano.
Farà una brutta fine anche lei, probabilmente, ma lei ha vissuto. Si è arrampicata fin qui. Ha scelto la vita, e se finirà, sarà senza rimpianti.
I rimpianti uccidono molto di più della naturale conclusione delle cose.
Finché si è avuta la capacità di sorridere sempre e comunque, sarà sempre la libertà.

Le parole ci ingannano, sono false promesse di un'eternità che non è nelle cose umane. Ma solo nella profondità di momenti che possono superarci o lasciarci indietro, nella corsa del tempo.
Allora non parliamoci più. Guardami. E scopri le ragioni di abbandonarti nel sentirti importante senza temere di perdere nulla di te. Com'è vero che non è mai stato necessario parlarsi per comprendersi.

La storia è sempre una storia sbagliata. Ma guarda quella ginestra, possiamo coglierla ed essere forti. Ti tengo la mano, e non guardare al di là del prossimo passo. Solo alla bellezza di quello che sei. E non pensarci troppo, l
a ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni, e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di obbedire e di servire ad esse.
E al diavolo le storie sbagliate, ed il sentirsi fatti male.


Storia diversa per gente normale
storia comune per gente speciale
cos'altro TI serve da queste vite
ora che il cielo al centro le ha colpite
ora che il cielo ai bordi le ha scolpite.







E comunque, nessuna astinenza. Solitamente mi faccio dominare da istinti di altra natura. Almeno verso chi gode di ben altra considerazione da parte mia. La qual cosa porta a non guardare gli altri esseri viventi di sesso opposto come fossero solo meri buchi con le persone intorno.
Persino in un mondo di merda come questo.

martedì 29 luglio 2008

lunedì 28 luglio 2008

Carousel




Torna fastidiosa, la voglia di scrivere.
Non perché mi nuoce, ma perché punge in giorni che hanno il potere di cambiare il corso di una vita intera. Quando è necessario riacciuffare il controllo su ogni cosa.
Ma è fastidioso quando geme una volontà confusa e annebbiata da un pensiero che riesce a randellare la pelle di tutta la delicatezza del momento. Soffocando durante il pomeriggio la convinzione che ci sia abbastanza tempo, fino alla prossima alba, per far convivere l'inquietudine arcigna con la necessaria attenzione che una scadenza cruciale richiede.
Scorrono ancora sempre le stesse immagini.
Quelle per le quali ho la sensazione di sentirmi fin troppo ripulito dalla mia estraneità, e costretto a confrontarmi con una partecipazione al lauto banchetto della vita, al quale avevo sempre guardato con sospetto e reticenza.

Sento parole che tradizionalmente non mi appartengono, perché rispolverate da capo, lustrate da una patina che riesce a sguainare via quel velo patetico che vi avevo sempre raccolto mentre vi strisciavo sopra i polpastrelli irreverenti e languidi. Dita che io ricordavo sempre avide di un rapporto con la narrazione  e la realtà che fosse crudo e allo stesso tempo visionario. Che smembrasse il plumbeo silenzio tra le persone, e recuperasse un coraggio di vivere che si nutre di fantasia e fermezza.

Schioccano note che mi torturano con un'assediante dolcezza che tuttavia non voglio estinguere. Che aspergo d'orgoglio, ma che mi rimbalza dentro e addosso in tutta la sua acclarante luce, che mi spoglia d'ogni vaga e miserrima resistenza.
Mio malgrado mi raccolgo a deporre ogni altro guizzo di vitalità che non abbia un odore diverso dal balsamo della notte, oppure, a specchiarmi nell'attesa di vedere quegli stessi incontri comparirmi irrompendo in sordina tra le nuvole. Come a voler compiere quell'epilogo che dall'inizio hai sempre avvertito lievitare dentro, quando la storia non era nemmeno stata concepita.
Accennando a tratti il rumore che farebbero i passi se la felicità mi venisse incontro nel volto che le ho disegnato intorno.
Quelle inutili parole che si cimentano nel voler scassinare la fortezza di chi le dovrebbe ascoltare, o leggere, recano in serbo qualcosa che non ricomparirà mai più sui banchi freddi e contemplativi come merce avariata e riciclata, pronta ad essere svenduta alla prossima occasione di sguardi che vi potrebbero inciampare.
Ogni sensazione è un'unica corda tesa e inestirpabile che parte dall'orizzonte che concepisce questa sorpresa sino al punto lontanissimo, non geograficamente, al quale si lega; e lì rimane, singolare e perentoria.

Si nasconde come un occhio piegato appena dietro una ciocca, che si apre a lasciare che lo sguardo lo colga dietro un bicchiere di vino mantenuto come una maschera trasparente da una mano non salda.
In una serata perfetta per quel che è stata, 70 giorni fa.
Vorrei che fosse davvero solo un cancello socchiuso per non lasciare che la corrente possa scardirnare un ordine imposto dai rimorsi, o da altro. Dove trapelano solo deboli spifferi a ricordarci che esiste un indispensabile desiderio di essere avvinti dalla ebbrezza pungente che si solleva con la rinuncia a volersi inerpicare per forza sui viscidi fianchi dell'insensibilità.

Tutto questo non si traduce in un doversi cercare nei giorni degli altri, a dover reclamare una trama che ci veda solo ospiti in quel monologo che è la vita. Ma è struggente la voglia di sapere che quei versi sono decantati e raccontati ad una voce che li ascolta senza interromperli, vivendoci dentro come in uno specchio di empatie scritte fin dal principio di tutto.
In una reciproca giostra fatta di pensieri che si rincorrono senza domandarsene la ragione. Né il senso. Perché la ragione di quella rincorsa è in sé.
E ho bisogno di credere che, scevri da divine incombenze, quell'incontrarsi sulla stessa rotta sia un continuo avvolgersi della gioia.
Come una sciarpa che si avvolge intorno allo stesso, meraviglioso collo, affinché il freddo di un'altra triste rinuncia non lo ammorbi. Ogni giro della mano è un giro walzer, una danza senza stancarsi. Quando ci si trova così.
E nell'indifferenza con cui sembra che si susseguano infinite e sempre uguali le stagioni e le estati, ho bisogno di credere che abbia un senso questa giostra.
Che l'attesa e la rincorsa siano un bene, in ogni caso, per quanto le mie mani egoiste vogliano intrecciarsi alle tue.
Per non essere nulla più, né meno, di quello che si annida alle spalle non di un bisogno scavato tra le mancanze, ma di un desiderio illuminato da qualcosa in più, che cova tra i sogni.

Il mondo è troppo piccolo per contenermi. In un altro sentiero, in un altro percorso, ad altre distanze, non avrei colto queste paure e questo bagliore.
Non risponderai, come sempre.
Ma io non cerco risposte, cerco solo di irrompere come un'onda sul tuo scoglio freddo.

Mi chiedo soltanto perché talvolta mi ritrovo a sentirmi così francamente ridicolo nel dover cercare gli altri, ed anche a scrivere di queste cose.

mercoledì 23 luglio 2008

Agenda esistenziale

Alcor si sveglia la mattina alle ore 5.30 col nobile intento di andare a correre, inalare le aulenti  esalazioni di mattutine fragranze inter locos amoenos, e sentieri rigogliosi di fiori campestri svezzati dal temporale estivo. Le tamerici salmastre ed arse.
Tessere meticolosamente una fitta trama di benessere e riconciliazione con se stesso e il mondo.


Tempo di mandare a fanculo la sveglia, ed Alcor ha già cambiato idea.


Che è meglio stare brumosamente incazzati col genere umano, respirare in fagotti plastici le polveri sottili di pirite e amianto che il martello pneumatico degli operai sta inopinatamente spargendo a guisa di manzoniano untore di peste bubbonica, e seguitar nell'attorcigliarsi come un contorsionista bulgaro intorno al cuscino, manco se si stesse avvolgendo tra le braccia di chi egli sa.

E sperare, sperare, cominciare la giornata e sperare. Sperare di avere qualcosa di sensato da dire. Che non sia il solito riempitivo che colmi i vuoti tra le cose. Ma siano pensieri che scivolino lungo il canonico selciato che separa le parole vere da quelle pronunciate.

C'ho un casino di cose da fare, e molte più altre a cui pensare.

Tra una settimana si parte and then capiremo se mi metterò davvero 'sto cazzo di kilt, e se davvero le donne scozzesi hanno la barba.

Alea iacta est.

lunedì 21 luglio 2008

The Fourth Dick

Egli preferisce il Talisker per il suo profumo, che esso stesso basta a scorticarti il tuo defungente complesso duodeno/fegato/reni/intestino tenue.

E ama il Johnnie Walker Red per una fortunata serie di coincidenze, non ultima averne scoperto una bottiglia vergine di circa vent'anni, nascosta sdegnosamente dalla natura matrigna tra la sambuca e il limoncello. Che la verginità è un peccato, sempre e soprattutto per una bottiglia come quella. Che rimanga vergine una suora, non ce ne fotte niente. Ma un JWR...

Eppure, diffondere alla vita può essere anche una violenza sulle cose preziose e intonse, come suggerisce neanche tanto velatamente Pascoli ne Il Gelsomino Notturno, poesia davvero magnifica.

Ma in quel barbaro locale, dove seviziano l'udito a frustate invereconde fatte di musica latino americana, egli (cioè io) doveva accontentarsi di bagnare le gengive in una specie di colluttorio spacciato per whisky, al cui confronto persino quello sciagurato Jack Daniel's assumeva il gusto di una bevanda appena bevibile.

Ma non importava la musica da deficienti, non importava il sale troppo abbondantemente copioso su quelle cazzo di patatine, non mi importava niente del whisky fetente, non importava niente la mia totale insensibilità dimostrata dinanzi ad una minigonna pressoché inesistente, come il senso del pudore dell'essere vivente che fingeva di indossarla; perchè preso a guardare un cazzo di cellulare dove non c'è ricezione, perché, nonostante le fregature esistenziali, non si sa mai...

Non importava lo schifo quotidiano, quello è tollerato, ci si è assuefatti candidamente... avendo un finestra che mi consente di guardare Giove, bello, nel cielo del sud... all'udire il solito "Quarto Cazzone" balbettare queste parole rivolte ad un altro poco attento ascoltatore:

- ...se vuoi dammi le tue coordinate alla nascita e ti faccio il quadro astrale, ti disegno il destino. Perché è vero, gli astri influenzano la nostra vita...

Vidi morire ancora una volta Galileo, Giordano Bruno, Newton, Hubble, Brahe, Messier... e montare la follia sterminatrice della invereconda ignoranza.

- ...Alcor, tu ad esempio che conosci le stelle, che ne pensi?

- Penso che i segni zodiacali si riferiscono alle costellazioni che giacciono sull'Eclittica, che non sono 12, ma sono 13. Penso che esiste un moto come la precessione degli equinozi che ha fatto sì che le cazzate che raccontavano duemila anni fa, pur restando oggigiorno cazzate, sono diverse, perché le costellazioni mutano posizione nel cielo... Quindi prendi la tua astrologia della minchia, con annesse mappe e compassi, e ficcatela nel più fetente dei tuoi buchi neri sorgenti di onde radio.

- Ah...

- Detto questo, sono Scorpione ascendente Scorpione, e sono contento di essere, pertanto, un geniale, brutto figlio di puttana.



Addio, Quarto Cazzone.

Rest in Peace, tu e i fessi che ancora ti prestano ascolto, come me.







deux

2

le date sono solo epifanie della vita dove ritrovi a leggere cose scritte dentro da sempre

domenica 20 luglio 2008

Un saggio diceva: "picchiavo le donne, e loro me la davano."


the Pulp side of Alcor


I poeti scrivono, e gli altri fottono. Perché dunque continuare a scervellarsi oltemodo sulle ragioni profonde del pessimismo cosmico?


...Signo', io ho capito. Succede a un cierto punto tra marito e moglie che nasce quella scuccianteria. Dipende da tante cose. Un poco perché: e te vedo oggi, e te vedo domani, doppodomani... Me sceto e ti vedo, te scite e me vide... e ce vedimmo a Natale, e ce vedimmo a Pasqua... Viene quell'abbondanza 'e sazietà ca poi finisce ca fa schifo! Sì, è vero, viene anche quel bene che non è quello di prima, più sostanzioso, ma la donna non lo comprende. La donna tiene sempre la capa fresca, nun ave a che penzà...'gghiesse truvano sempre chelli nzepetesse, quelle attenzioni vummecose di quando uno sta nel momento della focosità! Ecco che la donna si intristisce, voi le parlate e quella non vi risponde, che è la peggio cosa. 'A bbon'anema di mia moglie pure faceva lo stesso. Ma io 'a facevo parlà, pecché 'a vulevo bene. Quando vedevo ca pigliava due, tre ghiuorne 'e taciturnerìa, 'a pigliavo a pàcchere... Eh povera donna! Me ricordo ca quanno abbuscava, se metteva dint' 'e braccie mieie, me baciava le mani e mi bagnava 'e lacrime...
Voi, per esempio, signo', avissev' 'a abbuscà nu poco 'e mazzate. Ve faciarìa bene... Ascesse nu poco 'e sangue pazzo e ve vulìsseve cchiù bene 'e prima...


(tratto da Eduardo De Filippo, Questi Fantasmi, atto III)









Bill: Pai Mei ti ha insegnato la tecnica dell'esplosione del cuore con cinque colpi delle dita?!
Beatrix: Sì, certo.
Bill: Perché non me l'hai detto?
Beatrix: Non lo so... Perché sono una persona cattiva...
Bill: No, tu non sei una persona cattiva... Tu sei fantastica... Sei la persona che preferisco... Peccato che di tanto in tanto sai essere una gran troia... Come ti sembro?
Beatrix: Sei pronto...



Bill muore, e Beatrix piange.



E piangi 'sto cazzo, adesso!!!


E tu, che ti porti inconsapevolmente a spasso la mia anima,
non temere, pioggia o vento: io ti amo.

So close to heaven






Il sentimento è la misura della nostra sensibilità;
la vera origine del vero, del buono, del bello

Johann Gottfried Herder

sabato 19 luglio 2008

Le parole che non dico



Simone si faceva attendere, abitava in una palazzina al centro. R. non sapeva nemmeno a quale piano fosse il suo appartamento, lei gli aveva detto solamente che non sarebbe venuta sola. E l'ansia di R. cresceva e non s'affievoliva col prolungarsi dell'attesa che avvicinava quell'incontro.
La rivedeva dopo tanti anni, erano tornati a incrociarsi quasi per caso, durante una manifestazione pubblica.

Quella volta R. restò ammutolito nel rincontrarla in mezzo a tutta quella gente. Lei non lo aveva riconosciuto, sebbene il volto sorridente di R. fosse rimasto quasi intatto tra qualche incavo rugoso sulle guance, e i capelli un po' meno neri. Non aveva più la barbetta, lasciava visibile la fossetta sul mento che gli rendeva meno aguzzo il volto.
Lei, invece era sempre stata bellissima. Una bellezza che le era stata cucita addosso nell'attimo esatto in cui era stata pensata, e che non le sarebbe mai scomparsa. Vestita come sempre in maniera un tantino scanzonata ma profondamente aderente a se stessa, con quella larga sciarpa verde, ed i capelli lisci sciolti sulle spalle.

Gli sembrò che la vita si fosse immediatamente riaccesa dopo anni di buio e di silenzio; che si fosse rialzata da quella lettiga di contingenze senza importanza nella quale s'era adagiata, dopo che Simone era andata via.
Prima che lei sparisse definitivamente c'erano stati giorni di penombre e di silenzi congelati nella distanza che intercorreva tra loro. Giorni in cui R. sapeva di soffrire come un cane, ma non glielo diceva, un po' per orgoglio, un po' per non condizionare l'atteggiamento di lei, che voleva fosse il più naturale possibile nei suoi confronti.
Non era mentire. Era solo il desiderio di non voler dare troppa importanza a quella mancanza, a quella che era quasi una nostalgia che agli occhi di lei non aveva nemmeno poi tanto senso. Ma i sentimenti si propagano nella vita a prescindere dall'importanza che si vuol attribuire loro.
Ed R. aveva troppo sopravvalutato la sua capacità di resistere dinanzi a tutto questo.

Per poi ritrovarsi, nel giorno in cui l'aveva rivista in mezzo a tutta quella gente, a scoprire di essere sempre stato solo dal giorno in cui i loro rapporti s'erano lentamente spenti. A scoprire di non aver mai imparato a rivestire di un nuovo abito il suo voler bene. Che quel vestito che i suoi incessanti pensieri avevano cucito addosso a Simone, fin dal giorno in cui l'aveva vista per la prima volta, non s'adattava su nessun altro corpo.

Le si avvicinò dimenticandosi del suo nome, degli anni trascorsi che si sublimavano in ogni passo verso di lei, come fossero polvere sporca durante il gelo della sua accidia.
La chiamò piegando lo sguardo con cui la riscopriva nella sua mente, riaccogliendola nelle sue speranze. La voce di R. che scandiva le lente sillabe del suo nome con un più vasto carico di messaggi trapelanti nel fiato asperso, recava in sé tutta la vita che lui avrebbe voluto spendere per lei e che aveva disperato, ormai, di poter riafferrare.
Lei allargò le labbra in un sorriso che spalancava il mattino tra le nuvole, fece un passo e lo riabbracciò. Senza sollevarsi sulle punte dei piedi, gli premette il seno sul suo petto duro e freddo.
R. non la strinse a sé e restò immobile, impreparato, con un braccio languido e nolente, e l'altra mano che le si posava sui capelli.
- Tingi i capelli, Simone? - le sorrise R. - Sono tutti scuri. La prima volta che ti vidi avevi qualche impercettibile ciocca bianca.
Lei non rispose. R. la baciò sui capelli.
- E quella volta ti baciai anche i capelli. Tu forse non te ne accorgesti nemmeno. Non volevi nemmeno che ti abbracciassi.
- Non mi ricordo, R. Come stai?
- Lo vedi. Sono sopravvissuto anche senza di te. Ma non è stata un'esperienza invidiabile.
- Ero davvero così importante per te?
- Molto più di quanto io stesso mi sia reso conto. Più di quello che abbia mai provato a farti capire.
Simone sorrise, non sapeva che cosa rispondere. Era passato troppo tempo. E se anche fosse stato rimasto intatto un infinito presente fra loro, forse non sarebbe cambiato molto in quel destino.
- E tu come stai Simone? Che cosa hai fatto in tutti questi anni?
- Devo andare R. Mi aspettano.
- Anche io ti ho sempre aspettato, non sono mai stato bugiardo. La vita è stata davvero una lunga attesa.
- Ho sempre sperato che la tua fosse soltanto una vaga menzogna. La vita la devi aggredire, R.
- Sei riapparsa per questo, Simone?
- Devo andar via... una persona importante mi aspetta.
- Capisco, il colpo di grazia ci sta tutto. Rivederti e sentirmi la vita rimontare all'improvviso, solo per vedermela bruciare con più soddisfazione. - disse R. allargando lo sguardo intorno alla folla, senza mai farla sparire da dentro ai suoi occhi.
- Aspetta R. - e Simone trasse fuori una specie di moleskine, strappò un foglio con una data, e un indirizzo.
- Se ti trattieni in città, e vorrai, io mi farò trovare. Addio, R.

Se ne andò senza voltarsi. R. provò ad allungare ancora una volta il suo braccio, da cui lei fuggì. Di nuovo, come la prima volta alla stazione della metro, portandosi tutto via con sé.

La chiamò al numero che lei aveva scritto, per dirle che sarebbe venuto in città. Lei con aria indifferente e scevra da interesse o curiosità confermò. E ribadì non sarebbe venuta da sola.
Ed R. era lì, quel giorno, ad aspettarla. A riallacciare i nodi della sua vita, tra sogni, pensieri e ricordi. Giunse con la sua auto, e cercò un posto con buona visibilità per attenderla in macchina.
Era la prima volta che percorreva quelle strade, ma ogni cosa gli sembrava familiare. Le case, i volti della gente, i posti dove poteva lasciare la macchina, le strade strette e intasate. I negozi brulicanti di signore cicalanti.
Ogni cosa sembrava lentamente mutare in una scena familiare. In una cartolina della sua esistenza che lui vedeva dal di fuori, di cui avvertiva di essere un ospite tra i percorsi della sua stessa casa.

Simone
giunse. Anzi no. Lei non giunse, lei apparve. Improvvisamente, sul sedile accanto a lui.
- Apri gli occhi, R. - lei sorrise - Non hai niente da dirmi?
- Dal giorno in cui ti ho vista, il sole sorge e tramonta con te.
- Ancora questa cazzata alla Jim Morrison... sei fatto vecchio R., sono sicura che potresti fare di meglio.
- Non riesco a togliermelo dalla testa...
- Che ne diresti se intanto cominciassimo ad uscire dai tuoi personaggi? Tu non sei R. ed io non sono Simone. Va bene, Giuse'?
- E con te, come faccio?
- Usa i pronomi. Facile, no?
- Sì, è facile. Ti sto sognando, vero?
- Sì, Giuse'. Come sempre. Qui dentro è tutto un po' più semplice. Ma non attenderti risposte, io sono solo frutto della tua fantasia.
- Vedo. Sei uno spreco di proteine.
- Forse sono anche uno spreco di tempo.
- No. Non azzardarti a pensarlo, sei tu che scandisci il mio tempo, cara mademoiselle. Però li vedi i miei capelli bianchi? Sono vecchio...
- Non cambia la sostanza delle cose. Stai posponendo la scena onirica.
- Non direi...
- Non importa. Arriviamo al sodo, perché l’alba incalza. Così impari ad andare a letto tardi. Sei innamorato di me?
- Non lo so. Non so dare nomi alle cose. Di certo sto in un bel casino. E non posso parlarne con nessuno. Tanto meno con te.
- E ti fai questi sogni da pippato mentale.
- Non ho il controllo su tutto. Sai, io vivo in profondità le cose. Tu mi hai travolto la vita, mademoiselle.
- Sei stato tu a farti travolgere, io te l'avevo detto.
- Non cambia la sostanza delle cose.
- È assurdo, non c'è logica a tutto questo. Te lo ripeto: noi non ci siamo vissuti.
- Ed è solo per questa ragione che non do un nome alle cose. Sento i tuoi occhi in ogni specchio vero o artificioso in cui si ferma la mia immagine. Mi sbuchi nei posti più strani, nel terrazzino del disco pub dove servono il frappé con le palle di gelato al cioccolato, all'assessorato regionale per la formazione professionale che mi paga lo stipendio, persino nell'arena comunale dove mi affaccio per vedere gente idiota che assiste a dei musical ridicoli senza capire un accidenti di inglese. Poi non ti dico ogni volta che vedo una frangetta, è un dramma. Quando qualcuna mi prende per il braccio vorrei strangolarla. Mentre canto, mentre parlo con la gente, mentre cammino, sei tu che mi circondi e trasfondi la vita in tutto quello che faccio. Nei rimproveri alla mia indolenza e alla mia sregolatezza, ci sei tu.
Parlo come se tu mi stessi ascoltando, agisco come se tu mi stessi vedendo, sorrido come se tu mi stessi di fronte senza sapere che cosa rispondermi quando ti metto al centro del mio mondo.
Scrivo solo e soltanto come se tu leggessi contemporaneamente, muovendo gli occhi mentre io muovo le dita.
Tutto questo trasforma la mia indifferente esistenza in vita. Lo so, tutto è solo una proiezione di me. Posso ripetertelo in eterno quello che sei per me...
- Sprechi troppe proteine inutilmente...
- Parla per te...io vhhhhhhhhhhh phhh te.
- Che dici?
- Io viv... hhhhhhhhh... peeer te.
- Vuoi essere più chiaro? Non essere pusillanime.
- Uh, madonna. Io vivo per te. Ecco l'ho detto. E tu nemmeno puoi capire quanto mi costa ammetterlo. Accettarlo è bello, ammetterlo un po' meno. C'è troppo orgoglio. Quello che un po' mi frena tutto...
- Questo tuo orgoglio pare piuttosto una maschera alle tue debolezze...
- Non è così. Io cerco sempre di pormi dalla parte di chi mi ascolta. Trovo buffo che qualcuna possa volermi bene e così  non combino  mai niente. Alla fine non credo che alla gente possa importare quello che dico. Questo mi rende libero di dire quello che voglio fregandomene dell'importanza. Ma non funziona così coi sentimenti. Il confine tra quello che vorrei dirti e quello che vorrei tu comprendessi  da sola senza farmi sentire ossessionato da te è molto sottile.
- Quindi non sei sincero con me, Giuse'...
- Lo sono, ma vedi, quando tu mi chiami e mi dici "ciao", io vorrei immediatamente raccontarti quanto si impenna la mia felicità in quei momenti che io mi sforzo di mantenere normali. Vorrei cominciare a parlare per non farti andar via. Vorrei riempire la tua vita. Mademoiselle, la normalità è un riposo che il mio cuore non riesce più a concedersi da quando ci sei tu.
- Giuse'...
- Lo riscrivo il mio nome, mettendolo sulle tue labbra, anche solo nella mia immaginazione. Perché mi riempie tu non sai quanto. Non  è una forma di reietta masturbazione cervellotica, è un desiderio di sentirti pronunciare il mio nome.
- Continua...
- Mi esorti a parlare, perché qui non ho barriere. Qui non devo tenere tese le corde del buon senso che spesso mi ammutoliscono. Non voglio metterti a disagio. E poi mi pento di tutte quelle parole che non dico. Di quelle che lascio stare su quelle panchine che non tornano. Un po' come quello che ti scrissi una volta, ricordi? La vita fa sempre il suo giro, e dagli errori si impara poco.
A furia di sbagliare non impari a vivere, impari solo a riconoscere un po' prima e un po' meglio le occasioni mancate. Occasioni che non assicurano la felicità, ma che rendono la coscienza certa di aver provato fino in fondo a scegliere la vita.
Tu sei la vita mia adesso. Per quanto mi sforzi di farlo passare inosservato.
- Non sono sforzi che ti riescono bene. Perché ti sforzi, vuoi che tutto questo ti passi?
- Troppo cerebrale, troppo cerebrale... non passa, non passa. Non per via della mia volontà. E poi io non voglio che passi un bel niente. Sto male perché ti desidero, tu non puoi capire quanto. Ma se il mio desiderio sei tu, sto bene. Ma io non mi accontento. Vado fino in fondo.
- Hai paura?
- Che tu possa decidere di estinguermi, sì. Temo solo questo. Perché sarebbe veramente uno strazio  inutile.
- Che cose ti aspetti adesso?
- Che tu mi venga a trovare. Di rivederti presto. Solo questo. E poi…
- E poi?
Mademoiselle, ho bisogno di tornare a scrivere il mio racconto, così come lo avevo pensato, con R. e Simone.

Simone questa volta giunse. R. la vide arrivare dallo specchietto retrovisore, e scese dalla sua auto. Lei sembrava guardare oltre, attendere qualcun altro.
- Hai ancora le mani disastrate, R. - Gli diceva senza prestargli poi tanta attenzione. Lui sorrise. - Scrivi ancora?
- Oh sì, un po' meno, però... – disse stringendosi le spalle - che cosa hai fatto in tutti questi anni?
- Ho vissuto. Tu?
- Ti ho amata.
- Non me ne sono accorta.
- Lo so. Ed è l'unico rimorso che mi porto addosso.
- Così è questo il modo in cui ubbidisci ai tuoi imperativi, R.? Molto diligente, non c'è che dire... Ah... è arrivata!!!

Simone si illuminò sul volto e si bloccò improvvisamente, una ragazza bionda bassina con gli occhi verdi ed il viso abbronzato portava un passeggino e le fece cenno da lontano. Andarono incontro l'un l'altra. Si salutarono. Simone diede un bacio alla bimba. La prese in braccio e la piccola rideva.
Simone,
nonostante il suo temperamento, era molto dolce.
La ragazza andò via. E lei rimase sola con la bimba. Tornò da R. che la attendeva su una panchina al fresco. Faceva molto caldo. Ora che aveva infranto l'ansia dell'attesa, cominciò ad accorgersene.

- Adriana, questo è il signor R. Saluta, su! Di': "ciao signor R.", ma sta’ attenta, con quel sorriso austero, se sbagli a parlare, ti prende a morsi sul culetto!  - E mimò una smorfia solleticante che fece scoppiare a ridere la bambina. Aveva una frangetta bionda la bimba. Ad occhio sembrava avere tre anni.
- Prima che tu possa farmi domande cretine R., ti dico subito: è mia figlia e l'ho cresciuta da sola. Prima che ti possa venire in mente di chiedermelo, non farmi domande sul padre.
- Adriana... è bella. Come te. Ha gli occhi chiari, ma l'espressione è la tua... Simone... io...

Si incamminarono verso un giardino. Simone parlava alla bambina e R. ascoltava sentendosi davvero piccolo in tutto questo. Pensava che durante quegli anni quella donna aveva davvero vissuto, aveva morso la vita come lui si limitava a poter mordere il culetto di chi sbagliava a parlare.
Simone
era rimasta intatta perché era vera. Lui aveva appeso un ritratto nella sua stanza, lo ammirava e si ammirava, cospargendosi di rimorsi e nostalgie. E rinunciando a tutto.

- Lei ha tutto il mio amore, adesso R., perciò non farti troppi pensieri, anche adesso che ci siamo rivisti - gli disse sedendosi molto sensualmente, conservando il travolgente fascino che lo aveva ammaliato; mentre lui restava ancora in piedi a vedere la piccola seduta sul prato a qualche metro da loro, che giocava ad acciuffare l'erba scivolosa e ridendo ad ogni tentativo mancato, verso gli occhi attenti della madre.
R. aveva vissuto davvero per lei. Egoisticamente, senza dare il proprio amore a nessun'altra. Mettendo in gabbia ogni cosa. Adesso non riusciva a badare alla bambina, che pure lo aveva sorpreso, perché mai come in quel momento voleva afferrare Simone tra le braccia e amarla con ardore senza indugio, senza badare nemmeno allo sguardo della piccola Adriana. Perché in quel momento lei era ancora più completa, invincibile, irraggiungibile. Talmente piena di sé che se lui l'avesse avuta, avrebbe sentito da vicino il profumo della totale immersione di due vite che si riempivano a vicenda.
- A cosa stai pensando? Non ti siedi? - chiese lei. R. si sedette e accese un sigaro.
- Penso che vorrei tanto far l'amore con te, adesso, in questo momento. Senza darti il tempo di renderti conto di dove ti trovi e di chi ti guarda.
- Sei rimasto il solito pazzo di sempre. - Rise lei.
- E tu sei sempre più adorabile. - Rispose lui fissandola concupiscente, e serio.
- Ma lo vedi come mi sono ridotta?
- Siamo sempre noi, Simone, con qualche anno, qualche rimorso, qualche casino in più e basta.
- Rendi tutto troppo semplice, tu. - si interruppe, sospirò - Non sei geloso?
- Di cosa?
- Di lei - ed indicò la bambina.
- Perché dovrei esserlo? L'amore di una madre non sarà mai identico a quello tra le persone.
- Mi è piaciuto tanto. Adriana l'ho desiderata. Ho sempre pensato che dovesse essere lei, prima ancora che incontrassi la persona con cui averla. E ho amato profondamente nell'attimo in cui l'ho sentita accendersi in me. Questo amore tu non me lo hai dato. Non c'eri. Eri da solo chissà dove, a farti vessare dai rimorsi, mentre io amavo immensamente, al punto di avere lei. - Si fermò nuovamente. Indicò la figlia con un gesto del mento, e senza attendere che R. potesse dirle qualcosa, riprese a parlare. - Guarda Adriana, lei è la vita che tu avresti sempre voluto, che qualcuno ha assaggiato per un po' al tuo posto e senza darci nemmeno il valore che vi avrebbe dato una persona come te.


R. la ascoltava restando in silenzio. E per quanto si era sempre sforzato di comprendere le donne, non era mai riuscito a toccare davvero l'egoismo con cui esse vivono. Di come, per quanto sappiano voler bene, i loro sentimenti sono elargiti come briciole di una loro speranza che è tutta personale. Perché è la vita che le ha rese così. Sono loro che consentono all'umanità di perpetuarsi.
Un po' umiliante per qualsiasi orgoglio maschile che ci si soffermi a pensare.
- Che fai? Non dirmi che adesso tirerai fuori la tua agendina e comincerai ad appuntare le tue evanescenze mentali? - disse lei ridendo a denti stretti.
R. la guardava in silenzio.
- Sei stata l'unica persona che è riuscita a farmi sentire a disagio con l'esistenza  in maniera così evidente. - Strizzò gli occhi, sorrise, e tirò al sigaro. E aggiunse: - comunque no, non parlerei di gelosia. Mi facevi accenno a tante cose, mi parlavi delle tue vicende, dei tuoi incontri. Non ero geloso. Desideravo sommessamente di essere ogni oggetto che tu sfioravi, volevo essere ogni persona che ti riempiva lo sguardo. Ogni persona che attendevi, baciavi, accarezzavi, che accoglievi tra le tue braccia. Ma bada bene, Simone, a come descrivo le cose: perché hai determinato sempre tutto tu nella tua vita, almeno da quando io ti ho conosciuta. Quello che ho più desiderato in maniera folle è essere la persona dalla quale ti saresti lasciata baciare, accarezzare, e che avresti lasciato che ti accogliesse. Quella persona con cui avresti condiviso completamente, senza accorgertene e quasi sbarazzandotene davvero, la cosa che tu hai di più prezioso.
- E cioè?
- Te stessa.

venerdì 18 luglio 2008

Pessimismo e fastidio... pessimismo e fastidio...

Dialogo tra Alcor ed il suo Orgoglio



- Ehi Alcor, ma non riesci più a scrivere?

- Eh...

- Perchè?

- E lo so io perché...


- Che dici?

- E lo so io, lo so, orgoglio di merda...


Intervallo







giovedì 17 luglio 2008

Alcor canta The Animals





Così, tanto per sputtanarsi un pochino,
 non avendo altre stronzate da scrivere.

Adesso, le uniche cose di cui ha bisogno un giocatore d'azzardo,
  sono una valigia ed un bagagliaio.

Ed è soddisfatto
solo quando è completamente ubriaco.

mercoledì 16 luglio 2008

Kinky

It's a pretty kind of superstition, to imagine life as a lottery: to link any possible success, or any expected ordinary event, to something moving and changing under your careful view.
Please, look at that lady, for example... She's walking fast, she perfectly knows what she wants. Her skirt waves as quickly as her steps. She's turning near that parked grey car.

That lady could draw your fate. Stop your mind for a few moments: is she at the point to get in the car and go away? During those short seconds before what is going to happen, you think to what you care, the first fleeting one appears in your mind, which you strongly wish. Suppose that if she gets in the car you will obtain what you are craving for. So, trembling, sweating, swearing... you'll wait for what the woman will do.

What a shame... To reap around hope... filling out and feeding a dream, instead of making your own luck. Trying to, at least...
Ok, it's time to go.

(Thanks)

lunedì 14 luglio 2008

La Paura del Signor G.






Non si è mai abbastanza coraggiosi
da diventare vigliacchi definitivamente
.

Giorgio Gaber - La Paura, Polli d'allevamento, 1978.

sabato 12 luglio 2008

Non so che titolo mettere

Alle tre di pomeriggio, giorno 11 luglio, correndo lungo la brace cittadina, con l'umidità che narcotizza i peli delle braccia, il caldo torrido che rende fastidioso persino il peso effimero delle sopracciglie, mentre ti comunicano che devi aspettare un'ulteriore ora sulla graticola d'amianto essiccato, perché le autolinee vanno in ferie alla faccia tua...


In condizioni di pazienza estreme, pensavo.

Non credo che dio esista.
Ma sapendo che ci sei tu, forse gli verrebbe voglia di autogenerarsi, dar sfogo alla sua magnifica onnipotenza e rifarsi uomo.
Venir quaggiù e cercarti.
Perché l'empireo non pare poi così gaudioso.

E così imparare che il peccato, talvolta, val bene una vita intera. Quando è rivolto a qualcosa di così bello.

E qui il mondo continua a girare intorno al suo asse solo perché la fantasia dipinge la vita più o meno così:





giovedì 10 luglio 2008

Desiderium vel nòstos-àlgos vel samnasê id ēlĭgis, semper animum ădūrit

- Stavo pensando che, in questo periodo, ogni nostro scambio di battute sarebbe degno di diventare un'operetta immorale. Proprio per questa ragione non riuscirei mai a sopportarti.

-
Eh, Alcor, sennò la tua allure da pregamuorto va a puttane... Hai visto mai che ti diverti?

- No, è che non vorrei mai concretizzare la mia vita come un'opera d'arte, come asseriva quel "carfagno" svalvolato di D'Annunzio.

- Temo di non comprendere...

- Se su ogni nostro dialogo ci faccio un'opera, non  riusciremmo mai a sospenderci nell'atroce ma pur necessaria normalità...

- ...oddio...

- ... e di conseguenza vivremmo imprigionati sempiternamente in un'opera d'arte. Diventerei dannunziano, non mi garba.

- Posso dirti una cosa, Alcor?

- Prego...

- Questa è la prima minchiata che sento, detta in un modo così perfetto. Complimenti.

- Ecco.

- Ah... uhm...

- 'mbé?

- Ora capisco...

- Che cosa?

- Sei un idiota, Alcor.

- Perché?

- Come perché? Ma come cazzo andavi vestito?

- Come sarebbe a dire "come cazzo"? Tu non puoi nemmeno lontanamente immaginare quanto
fosse importante per me, e poi io mi vesto spesso così...

- Sì, lo so, però...

- Indi?

- L'avrai spaventata... insomma, conciato in quel modo avrà immaginato che tu volessi portarla direttamente all'altare! Secondo me era terrorizzata... Ah, ah, ah...

- E se per esempio uno volesse soltanto andare a letto con qualcuna, allora, che cosa dovrebbe fare? Presentarsi in vestaglia, in pigiama, vestito unicamente col condom? Ma fammi il piacere...

- Sei nervoso, Alcor?

- 52.

- Eh?

- 52.

- Che vuol dire?

- 52.

- Ma ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa? Un drink?

- 52.

- Ma che cazzo stai contando adesso? Sempre a contare...

- 52. Bene. Ora ti saluto, è tardi, vado a letto…






Quello che dovevo dire, l’ho detto, in latino, greco e sanscrito.
Non so più in che cazzo di lingua scriverlo.
Inutilmente, come sempre.




Dicono che gli occhi fanno un uomo sincero
Non capita poi tanto spesso
Che mi rimbalzi così forte addosso

Ho l’età che tutto sembra meno importante
il resto non conta niente,

ma proprio niente,
Cristo!


martedì 8 luglio 2008

Les jours d' Alcor - Accident sur la rue de la bonté

La scelta, per noi esistenzialisti che non abbiamo un cazzo da fare, si sa, è un dramma. Che porta a riempire, per un nonnulla, pagine e pagine di un blog, compunte di citazioni celebri e melodie carpite a capolavori del cinema, pensieri sradicati a pietre miliari del pensiero occidentale, commistioni ancestrali tra dipinti epocali e foto scovate nell'alveo del web-nulla.
Per un nuovo impressionismo postmoderno fatto di piccole istantanee, tese a dare nuova linfa ad un umanesimo umiliato e molestato, avido di sfogare livore.

Nature morte di estati in catalessi pseudo-lavorative, inzuppate nel dubbio che ci sia qualche arcana ragione agli improvvisi mutamenti di abitudine della gente che sta intorno. Ma forse sono solo alchimie mentali da cui è giusto, una volta per sempre, imparare a prendere le distanze. Pensare, e allontanarsi con un ghigno. Capire le cose, e far finta di niente. La corda civile, e la presa in culo malcelata. Fidarsi, e al contempo volersi estirpare l'occhio clinico che ci azzecca sempre riguardo alle fregature.

Agende immolate sulla pubblica nera piazza, un coacervo e un groviglio di nostalgie altrui che purtroppo non subirai mai, insieme a quelle tue che
invece fai languidamente subire agli altri, ma di cui ignori l'origine.
Il tutto per rispondere alla domanda più pertinente che giace in fondo ad ogni nostro melodrammatico atto: "ma chi cazzo me lo fa fare?".

Esistono giorni che all'alba si presentano furibondi ad una curva a gomito, che paiono usciti dall'hangar del dirigibile Zeppelin, dando l'impressione di voler trasformare la potenza in atto, senza badare alle ineccepibili distanze di sicurezza che un percorso cieco impone di mantenere.

Io non soffrivo di vertigini da bambino. La comitiva di amici dei miei genitori organizzò una gita in montagna, sull'Appennino. Dovevamo, quel giorno dopo il pranzo, raggiungere un posto che un grasso ristoratore ci stava indicando allungando l'indice oltre la balconata del suo ristorante che volgeva verso le cime più interessanti.
Aveva una pessima barba incolta e laschi capelli neri allungati in malo modo. Reggeva  un piattino di soppressata al peperoncino, che annullava ogni entità vivente o inanimata che potesse distogliermi da quella preda.
Ovviamente, nonostante le lipidiche indicazioni di quel tizio, l'auto ammiraglia del corteo degli inetti sbagliò strada. E nonostante mio padre, in quanto portatore di ampie porzioni del mio medesimo DNA, si fosse giustamente accorto dell'erranza di costoro,  si accodò alla massa
come un fenicottero imitatore. Ci rendeva partecipi della sua intuizione mediante imprecazioni e bestemmie. Ma senza pensare minimamente di sganciarsi dalla mandria e di tornare indietro.
Quando si dice il corpo sociale.


Dopo qualcuno comprese che probabilmente rischiavamo di finire in qualche valico sperduto, e noi non eravamo propriamente degli Indiana Jones: i papà fumatori e nevrastenici causa repressione da ferie asessuate, mogli in sovrappeso causa repressione  da menopausa, fanciulli impertinenti che sintetizzavano le repressioni parentali, cugini dispettosi per l'invidia repressa, sorelle vomitanti, borse-frigo zeppe di vettovaglie che avrebbero sfamato interi plotoni della Wehrmacht stanziati a Kiev durante l'operazione Barbarossa... Che schifo. Io li guardavo
in silenzio, e li odiavo tutti in maniera viscerale.

Dovevamo tornare indietro.
Saggia decisione ma tardiva. Poiché eravamo finiti a chissà quante migliaia di metri sul livello del mare, e l'asfalto della strada moriva su un sentiero di ghiaia a strapiombo, a senso unico, e senza protezioni. E nell'unica curva possibile si sarebbero dovute effettuare le inversioni di marcia di quelle infauste automobili.
Da allora i miei incubi si dipingono in quella dannata inversione al limite del suicidio. Vedo le ruote posteriori dell'auto di mio padre che, durante un vaffa all'indirizzo di qualche venerabile santo, per via di una pressione di un'atmosfera di troppo sul pedale dell'acceleratore in retromarcia, oltrepassano la soglia della strada lasciando in bilico la macchina.
Come una leva sospesa tra la vita e la morte.
Se il sogno successivo è lieto, la macchina è tornata in sesto non so come, e sono tornato a casa. Se il sogno successivo è l'ennesima presa in culo, avrei voluto chiedere a mio padre di bestemmiare un altro po' e di darci dentro su quel cazzo di pedale destro.

Ma bisogna avere tanta, ma tanta, ma tanta cieca fiducia, per mandare giù pastiglie dolci come la pece dei cedri.
Come quella volta che tornai a casa a tarda notte/pressoché mattina, e mio padre che dopo poche ore venne ad urlare al mio padiglione auricolare per intimarmi a dargli una spiegazione di quello che aveva trovato in macchina. Che cazzo stava in macchina? C'era solo una pozza di un liquido rosso
sospetto, davanti al lato passeggero.

- Che hai fatto?

- Io? Niente!

- Che è quel sangue?

- Ma non è sangue!

- Quello è sangue, ti dico!

- E che vuoi insinuare? Che sono uscito con un'elefantessa del Bengala che mi ha mestruato in macchina? Oppure che ho sparato accidentalmente in faccia ad uno mentre gli chiedevo un'opinione su un'improbabile apparizione divina? Ma che siamo dentro Pulp Fiction??? Ma per favore! Vai dal meccanico.

- Ma quale meccanico???!!!

- Ok, allora chiama Winston, ti risolve il problema.


E nel pomeriggio, tornando da lavoro e transitando davanti al meccanico, non mi sorpresi di trovare la nostra utilitaria familiare in lista d'attesa per un trapianto di radiatore.
Svelato il mistero: né morti accidentali, né mestruazioni-niagara di donne pachidermiche, solo una fottutissima rottura di quel cazzo di radiatore.
E allora, cacchio, perché parlare e assassinare la gente senza chiedere anzitempo spiegazioni a chi ne capisce qualcosa?
Se noti qualcosa di strano, qualche conto che non torna, chiedi prima di giudicare, porca miseria!
Se mi senti dire delle cacate, non farti disegnini al carboncino nella testolina che, nel caso migliore, si tirano fuori dopo qualche giorno
per puro caso. Nel caso peggiore, comincia a serpeggiare l'orrido virus dell'incomprensione, del sospetto, e tutto quel volume di schifezze relazionali che uccidono i legami tra la gente a causa dell'incomunicabilità e del silenzio omertoso.
Hai un antidoto: essere trasparente ma discreto. E sperare che le persone importanti ti percepiscano davvero per come sei (e magari ci facciano pure un pensierino), senza contaminazioni fantasiose.

Il problema è però la fiducia. Perché, fortunatamente non siamo tutti uguali, e affinché il gioco tra le persone funzioni, è necessaria tanta, spassionata, incondizionata fiducia.
Serve tanta buona volontà, e nutrire tanto amore per le persone. Non è giusto considerare i nostri simili come esseri randagi e maleducati di default.
Io ci provo a sostituire la condanna preventiva, alla fiducia e al perdono preventivi. Una volta tamponai leggermente un idiota irascibile, la sua macchina era intatta, la mia anche, ma stavamo arrivando alle mani.

Dopo quell'episodio pensai che se qualcuno mi fosse mai venuto a tamponare mi sarei comportato in maniera estremamente cortese e garbata. Lo avrei sì fatto sentire una piccola cacchina, ma lo avrei fatto con gentilezza, e sorridendo. Come dire: "Ti stronco, ma ti voglio bene, lurido pezzo di merda".
E dopo qualche giorno non mancò l'occasione.
Perché io ed una tizia avevamo da poco parcheggiato, e prima di uscire mi accorgo che una macchinina dinanzi alla mia s'affaticava per parcheggiare, esibendo manovre inconsulte da pisciarsi addosso per l'inettitudine.
Intimo a chi mi è accanto di pazientare perchè mi sorge un presentimento.
Perché dopo essere riuscita ad infilare la macchina nello spazio, la donna al volante (non poteva essere altrimenti), comincia una pericolosa retromarcia anticipata da un'anomala sgassata. Con molto rumore e poco slancio, mi viene addosso.
Crash
, e l'impatto previsto si verifica.

Tre secondi di ibernazione mentale per confermare a me stesso che devo essere cortese, gentile, affabile, sinceramente rassicurante, e far valere i miei diritti con magnanimità.
Sorrido alla donna agitata e in preda ad un ingiustificato panico. La rassicuro e le chiedo se sta bene (ma che cazzo chiedo? Mica è finita sotto un TIR! Al massimo si sarà spezzata un'unghia... che idiota).
Una rapida occhiata alla
mia macchina: sembra intatta, nessun danno, nessun graffio, sembra apposto. Anche la sua macchina, signora, sembra integra. Non si preoccupi, stia tranquilla, va tutto bene, le auguro una buona serata, arrivederci.
Che gentiluomo...

Con l'aria soddisfatta di chi ha fatto un passo in avanti verso la redenzione, mi accinsi a trascorrere una serata gaia, da persona normale, in armonia col mondo ed i suoi abitanti che cominciavano a non farmi più così tanta pena.
Durante le fasi del rientro, tuttavia, sentivo strani rumori provenire dall'avantreno della mia fiat tempra... e che sarà mai? Proseguii. Ad un certo punto sentii un decrepitare di frantumi di origine ignota. Mi fermai, scesi dalla macchina e... Eureka!!!
Entrambi i fari erano in frantumi. L'innocuo impatto m'aveva distrutto i fari della macchina, e per concentrarmi a fare il galantuomo del cazzo non me accorsi nemmeno...

- E adesso che fai?

- E che cazzo vuoi che faccia? Porca puttana...

- Io la conosco quella signora lì, se vuoi la rintracciamo...

- Ma sei scema? Per dirle che cosa? "Senti ti ricordi, sono quello a cui sei andato addosso mentre tentavi di parcheggiare una cinquecento in 30 metri di spazio. Lo sai che dopo tre ore mi sono accorto che mi hai rotto i fari e pure il cazzo?" Che figura di merda mi vuoi far fare?!

- Sì però ora calmati...

- Calmati questa straminchia!!! E vaffanculo!!!

- Eh dai, ma quanto ti costeranno i fari nuovi?

- Ma chi cazzo li sta a pensare i fari? Io penso alla cazzata che ho fatto... non ci arrivi, non è colpa tua. Senti, tu pensa a respirare, a far battere il cuore, a farti scorrere il sangue nelle arterie, le cose che richiedono un minimo sforzo alla tua volontà non ti competono, lasciale stare...


Mi calmai, mi ritrovai, mi rassegnai. Mangiavo un gelato pensando all'acidità degli impiegati che lavorano agli uffici postali. Per un attimo ho pensato che avrei voluto abbracciarli tutti, uno ad uno. E che avrei voluto loro un bene speciale, una commozione quasi.

- Alcor, sono preoccupata...

- Che hai, adesso?

- Il mio ex...

- Che vuole ancora quello stronzo?

- Temo possa fare una stronzata, è disperato...

- Cioè?

- Che possa farsi del male, l'ho visto vicino a fare il passo...

- Ah, e magari si muovesse. Una bocca in meno da sfamare che non rompe più i coglioni nella redistribuzione del PIL. C'è grossa crisi, dobbiamo aggrapparci anche a questi minimi shock positivi per contrarre la domanda interna...

- Ma io ti credevo buono e generoso!!!

- E se semo stufati d'esse sempre boni e generosi!!!




Io della vita non ho capito un cazzo



Habemus Alcor






...trovo molto interessante la mia parte intollerante...
...che mi rende rivoltante tutta questa bella gente...

lunedì 7 luglio 2008

Sweet Rapsody

Sei un tossicomane esistenziale che si straccerebbe le vene dai polsi pur di assecondare il proprio vizio. C'è ancora una traccia di ossigeno nell'oppio che riempie le tende di un teatro delle ombre cinesi. E mentre ti mantengono il collo, odi lo squillo di un telefono spento, e di una sirena che non ti cercherà mai. Il metadone dà la stessa soddisfazione che può darti un Jack Daniel's quando chiedi del whisky. Acqua sporca con etanolo. Assaggi la pelle intorno alle unghia, per mettere ordine al consequenziale giochetto di colpe ed espiazione. Il sangue ha un sapore molto dolce, sarà questo che attira le zanzare. Che senso ha espiare una colpa per un crimine incompiuto?
Ed è dolce, effettivamente, riporre in ordine i concetti. Sembra più governabile, la vita, in questo modo.

Ora, di queste puttanate che scrivo, il più delle volte, non ci capisco una mazza nemmeno io.
Mi prendono per un pazzo serioso e triste, solo perchè non so star fermo coi polpastrelli, a rischio di cavar fuori dalla corteccia encefalica, le più invereconde cazzate.
Sono costretto a dar fondo ai pensieri più idioti, alle idee più strambe, a mettere insieme appunti di scritti incoerenti e i resti di una serata noiosa. Quando avresti voluto fingerti malato o improvvisamente orfano per non starci più.
Scrivere è una forma di sorridente riconciliazione, e sono costretto a produrre tentativi consapevolmente vani di tornare a scrivere in maniera decente come apparentemente si narrava io facessi un po' di tempo fa. Quando ogni mio gesto, scrivere compreso, non era finalizzato a determinati obiettivi individuabili in nomi, cognomi, cose, azioni e città, queste più o meno ideali. E allora ci si illude provando a cambiare per un po' l'oggetto che invade il mirino con cui sparo i colpi della mia vita. E miserrimamente scopro che è una stronzata per perdere tempo.

Non si può scrivere ignorandosi. E la dolcezza per me è soltanto una. Ecco, c'è la mia vita riposta su quella poltrona schiodata. Non è che mi calzi in maniera elastica e comoda. Qualcuno potrebbe viverla al mio posto, prendendosi i miei sogni e le mie attese. Non dovrà nemmeno accollarsi paure da evitare col beneficio di inventario, si stia tranquilli. Con il cinismo ridicolo che non ci rende abbastanza persone. Solo un po' di sincerità, di schiettezza, di incomprensione, di propensione alla solitudine, un occhio destro con le bizze, e il battito cardiaco con l'eritropoietina di serie. Tutto incluso, chiavi in mano. Senza incentivi rottamazione. Che io un'altra vita al posto della mia non la voglio per niente al mondo.
Vaffanculo a tutti, quando è necessario, e sono felice.

Beata incoscienza che mi strugge e mi sorregge, sei tu la dolcezza irrefrenabile da cui non conosco scampo.






- I vincenti si riconoscono alla partenza. Riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di me?

- Io... avrei puntato tutto su di te...

- E avresti perso.


Qualche altra domanda signor giudice... Non sia timido, possibile che non abbiate null'altro da chiedermi? Che non sentiate alcun bisogno, oltre all'irreprensibile dovere istruttorio, di sviscerare ancora un po' queste mie giornate, queste mie continue rivolte che consumano le ore come cera che si raffredda sui lambiccati candelieri di ghisa?


Signor giudice, insomma, fatemi qualche altra domanda! Vi supplico, emettete le vostre sentenze senza rinchiudervi per ore in camera di consiglio, consigliate pure ai restanti membri della corte che possono anche ritirarsi ad accudire la normalità delle loro deplorevoli esistenze. A me occorre solo il vostro parere, e la vostra distorta opinione. Perché della giustizia reale e fredda non mi importa. Non a me, che rifiuto le vostre leggi ed i vostri sistemi, e da cui non potrei accettare alcuna condanna, se non per mia spontanea remissione...



Pensano che io scherzi, quando scrivo. Lo pensi anche tu, giudice, che sembri voler dettare delle norme alla vita. Mi lascio, pertanto, sormontare da una disperata risata.



Mamma, mamma. Io... la realtà travolge e irretisce come una montagna che frana e non dà scampo. Ci provo a morderla e a insabbiarla tra i denti. Quanto è buffo scivolare e inciampare senza mai cadere. Scrollarsi un po' di polvere dal bavero rialzato ad ogni delusione che sorge quasi sempre ogni volta che ascolti una qualunque persona parlare.
Ma... Apri gli occhi, volgi lo sguardo al cielo, e sai che non sarai capito. Che parlare è una scommessa che scotta proprio quando non hai sempre il fegato giusto per rischiare. Non so neanche se lo nutro veramente questo bisogno, del resto. Perché mi lascio trasportare, sono un indolente. Un po' su, un po' giù. Senza sapere dove andare.
Comunque soffi il vento, a me non importa.


Signor giudice, chi ci pensa adesso a mia madre? Che neppure lei non ha mai capito un cazzo... Come nessun altro, naturalmente. Neanche voi ci capirete niente, mio ricusabile giudice che mi guardate sorridendo in maniera molto seducente, e neanche ve ne accorgete. Ma che cosa mi potrà mai importare di voi? Chi lo va a raccontare a mia madre il buio di questo baratro che mi rende tutti così squisitamente insopportabili?



Mamma io ho ucciso un uomo, gli ho puntato la pistola alla testa. Ho premuto il grilletto ed è morto. Non l'ho neppure guardato morire, per non rischiare di provare pietà verso un volto qualunque che conteneva tutti i volti del mondo. Per non trovare nel suo sguardo quell'implorazione a non farlo. È stato un attimo in cui ho dimostrato che la vita non è scritta.
Non volevo sentire quelle pupille atterrite, sguainate e sbigottite che mi supplicavano: perchè tutto questo? 

Forse costui assomigliava a qualcuno che ho odiato in silenzio per tanto tempo senza neanche conoscerlo, forse costui non avrebbe mai dovuto correre prima dell'alba. Forse aveva soltanto tradito sua moglie. Forse la sua colpa era che gli puzzava l'alito mentre giocava a carte a notte fonda con gli amici ubriachi, e ne approfittava per barare. Forse era soltanto un tizio qualsiasi che arrangiava a portare avanti i suoi giorni nella maniera che più lo divertiva.

Respiro di cirri che striavano un cielo che volgeva molto tardi al tramonto. Gente ai quattro angoli di un incrocio che attendeva una piccola pallina verde per incontrarsi senza guardarsi in faccia e scambiarsi il proprio tragitto. Avrei portato con me ogni espressione incidentalmente raccolta dai miei occhi. Avrei ascoltato i loro incomprensibili bisbigli. Ecco una ragazza che alza improvvisamente il suo braccio destro, che regge nella piega del gomito la sua borsa nera e pesante, forse per salutare qualcuno che non la sta neppure pensando. Accenna ad un sorriso che si perderà. Scorgo solo un orecchino all'orecchio sinistro che non si nasconde al viso piegato vero destra in direzione del ponte; la sua refrattaria mano sinistra, invece si aggrappa ai bordi della manica del suo giubbotto sportivo nero, aperto davanti perché ancora non faceva freddo.
Molti vanno in giro con gli zaini. Due vengono verso di me. In faccia recano la paura di perdere qualcosa, il ragazzo dimostra meno anni di quelli che ha. Lei invece è in sovrappeso e ha i capelli ricci perfettamente divisi in due che calavano ai lati del capo. Sono rinchiusi entrambi nei loro giubbotti.
E la vita è carica di menzogna. I palazzi grigi dall'altra parte sono divelti della propria memoria da una patina di storia ammuffita che ne ha reciso il senso del perdono.

Ancora qualche attimo di libertà, giudice. Devo finire un disegno. Il problema non sono gli occhi, non sono le labbra e i contorni del volto. Ma le mani intrecciate sulla bocca. Non ci riuscirebbe neppure Giotto a dar loro le movenze di un'anima. Ed io ci sto riuscendo, lasciatemi continuare, lasciate che completi qualcosa che mi renda contento...

-
Hai aspettato molto?

- Tutta la vita.

Sarebbe molto giusto, giudice caro di cui perdo la fiera immagine nella mia mente, che io potessi scrivere ignorando quello che ho dentro. E mi adeguassi al gioco della menzogna. Giudice diletto, quanto sono belli i tuoi piedi nei sandali. Avrei voluto invitarti a danzare con me in un ristorante sul mare a Venezia. Alla fine dell'inverno. O meglio, avrei atteso in silenzio che tu invitassi me. Per non impazzire non devi pensare che fuori c'è il mondo, proprio non pensarci. Dimenticarlo. Leggere ad occhi chiusi e recitare senza emettere fiato. Non è impossibile. Non con chi, giudice, sembra che ti stia parlando da sempre. Il tuo ombelico è una coppa rotonda dove non manca mai il vino, il tuo ventre un mucchio di grano circondato da gigli; le tue mammelle, sono grappoli d'uva. Il tuo respiro ha il profumo delicato delle mele.

Perché resti in silenzio, giudice? Sono solo le mie imprudenti esternazioni a farti trasalire? Io non riesco a vivere una farsa. Non riesco a ponderare la convenienza nel tenere a debita distanza la verità, solo per una fortunata combinazione di tranquillità e strategia. E che questo mi bruci, non mi importa. Stai leggendo su un libro che non è come gli altri. Non c'è la soluzione che tu prevedi, questa volta. Ed io lo so che cosa hai in mente, giudice. Anche se non posso guardarti. Non dritto negli occhi.

Tocca qui, è qui che ho sparato, vedi? Senti? È ancora caldo.
Mamma, la mia vita era appena iniziata ed io l'ho lasciata scappare, l'ho buttata via.
Non volevo farti piangere.
Quelle tue stupide lacrime.

Che cazzo sto combinando? Non lascerò che vada via... Da qui dentro io non esco, nossignore.
Niente veramente importa
Chiunque può capirlo, eppure...
Niente veramente importa.
Comunque soffi il vento...



Hi, Crazy Diamond

 


MadameRevanche: Ti sei ammazzato?

Alcor: Ancora no.

MadameRevanche: E perchè il saluto a Syd? (ciao amore, mi sei mancato)

Alcor: Anche se devo dire che farsi fuori il giorno del secondo anniversario della morte di Syd non sarebbe una cattiva trovata (diciamo che mi stimi, è meglio).

MadameRevanche: Diciamo che se  penso a te non è proprio la stima la cosa che mi vien su, eh...

Alcor: Già, infatti mi chiedo dove ho sbagliato...



mi rivolse uno sguardo lungo e freddo
sorridente e fisso, lungo il mio braccio
le piaceva guardarmi sdraiato a terra
il tempo le manca solo se deve dedicarlo a me
la sua faccia emerge in tutto ciò che vuol essere
che può essere solo qualcosa di estremo, ed estremo
un pontile rotto su un mare in burrasca
meravigliandosi di tutto quello che voleva guardare
mi sono rialzato per calpestare intorno
nascondere il tratto dove gli alberi sfiorano la terra
porre fine alla verità dettata dal tempo
trascorso oziando qui, in questo sogno dipinto
un miglio o più in un clima straniero
per guardare più lontano dentro di me

e guardare lassù verso il cielo
io respiro come l'acqua del mare che mi sovrasta





Syd Barrett, She took a long cold look, The Madcap Laughs (1970)

traduzione di Alcor

sabato 5 luglio 2008

Good Morning, sweet wrong place

Era giovedì. Erano le sette di un tardo pomeriggio afoso. Forse c'era anche allora la luna nuova, non mi ricordo.

Quando hai compiuto un tragitto particolare non lasci entrare la felicità nella tua vita senza prima averle fatto una radiografia.

Un po' mi denuda, ma non mi spaventa.

Eppure non c'è scritta da nessuna parte la maniera in cui le cose devono andare a finire. Il fatalismo è solo un pessimo retaggio medioevale.

E accendo la televisione di notte, e siamo come sempre al punto di partenza.

Non sono abituato a desiderare i pensieri e le parole altrui. Ascoltare una voce che parla una canzone splendida, e avvertire l'immane voglia di essere vivo dentro quei versi.

Ma senza alcuna voglia di ubbidire, quando dice: "vattene adesso".

Mah...

Oggi non so se riuscirei a scrivere di più. Probabilmente tra due secondi mi capita una parola di qualcuno tra i pensieri, mi ricordo di un'immagine o colgo un segnale tra le cicale che strofinano sul pomeriggio.

E forse cambio idea. E vado, e torno, e devio dalla mia strada. Senza il timore di sentirmi incoerente, mai. Perché nella banale veste di un folle, si esercita una voluttuosissima logica.

Quella di sprofondare intimamente in ogni momento, e l'essere l'immagine di un desiderio, sempre e comunque.

Vivere, è questa cosa qui. Ed è grande. Tanto da poter contenere non solo se stessi.

Ho cominciato a scrivere qui dentro l'anno scorso. Era giovedì. Erano le sette di un tardo pomeriggio afoso. Uguale a tutti gli altri.

Ma non così uguale.

Unico. Unica.