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venerdì 12 luglio 2019

Narrazioni di confine

Quando riesci a sporgerti oltre il valico della finestra?

Quando sibilanti e rabberciati strati di cielo stellato irrompono tra i dorsi dei palazzi.
O quando piove. Quando ombrelli tesi dei passanti ci nascondono dai loro possibili sguardi, e ci proteggono.

Dov'è la casa? Io non lo so.
Di tutti questi tempi ricordo solo che non c'erano più. Attimi che perdono, come condotte divorate da ruggine e vermi.
E che dimenticano.
Dimenticano il susseguirsi delle continue sottrazioni e mancanze di ogni istante, di tutti quei cieli che non saranno specchiati in occhi assenti.
Respiri come zavorre di possibilità in cenere.
Onde del mare che incontrano invano una riva che risponde con parole straniere. 
Del vento che non smuoverà più alcun fastidio, e degli spifferi di vecchi portoni che non presagiranno più asie assuefatte all'indifferenza di questa impraticabile vita.

Di tutto ciò che si è perso per sempre è popolato il treno del tempo.
Dei sorrisi di cui presto non ricorderemo il tragitto. Di concetti complessi come macigni che franano e frantumano l'abbandono ad abbracci vilmente scomposti.
Di parole strozzate esiliate da ogni pagina che possa sfidare i tuoi occhi.
Virgole che scindono e non collimano.
Profili di orizzonti piegati che non si riavvolgono.



martedì 9 gennaio 2018

Character

La paura. Ho in mente una sceneggiatura che parli di paura. Quella cosa che ti arresta ogni intento, che ti affanna in pianura, che trasforma la nebbia d'un gennaio umido in un muro senza dimensioni. Ogni punto d'aria sembra uno spigolo pronto a ferirti con urti e lividi senza colpa.

La paura che protegge, coccola, rassicura come una gabbia nella quale sentirsi sovrani.
La paura che ci assilla col suo smisurato vuoto che si fonde nelle ombre di ogni impegno massacrante con cui falcidiamo i nostri giorni senza un forse.

La paura che rafforza l'illusione di un equilibrio ritrovato che è solo un pensiero allontanato nello spazio e nel tempo di un sacco di angosce e promesse infrante a cui non abbiamo imparato a volgere uno sguardo pulito.

La paura di una scelta che irrompe a sciogliere i nodi dai nostri certi ormeggi, al riparo nella risacca della noia, svelando il volto banale e candido dell'inesorabile.

Inizia il nuovo anno con questa straripante voglia. Unico respiro di pace; una pace che sembrava possibile al realizzarsi di piccoli traguardi, e che si infrange non appena ogni méta si nasconde alle spalle della successiva.
E s'allontana.
Come te, che ogni giorno ti mascheri da questa angoscia, e in quella paura ti rifugi, al riparo da ogni possibile gioia.

domenica 17 dicembre 2017

Nascosti

- Credi che possano riconoscermi se indosso questo berretto?
- Forse..
- Non ho più dei capelli che restano impressi nella mente della gente. Sono corti ed anonimi.
- Son belli comunque. E non sono corti. Comunque no. Non rischiamo.
- Non rischiamo.
- Non rischiamo, potrebbero vederci. Lo sai che non sarebbe giusto.
- Le gente non bada noi.
- Non ne sono certa.
- Da chi ci stiamo nascondendo?
- Ci nascondiamo dalle chiacchiere che ci farebbero del male.
- Anche sottrarci alla luce ci fa del male.
- No, Alcor, no.
- Da chi ci stiamo nascondendo?
- Lo sai.
- Ci stiamo nascondendo da noi stessi. Ci stiamo mischiando alla polvere del tappeto che avvolge le mattonelle rotte delle nostre paure.
- Resta qui, in questa gabbia.
- Non parlo.
- Non parlare Alcor.
- Non voglio raccontarci.
- Non esistiamo se non nelle elucubrazioni della tua noia domenicale.
- Perché fuori fa freddo.
- Perché non sei ancora pronto per uscire, torna qui, nella gabbia.
- Non riesco a camminare sù per il bosco.
- Dormi qui, Alcor.

sabato 8 luglio 2017

Apocalypse Later

Ho osservato una lumaca strisciare lungo il filo di un rasoio, questo è il mio sogno, è il mio incubo: strisciare, scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere.

Non era questo l'attrezzo che avevi sempre desiderato impugnare? Guardalo bene, ha una comoda presa, non indurisce il palmo della mano, ed è leggero, pratico. Impari ad usarlo spontaneamente. Non ti ci devi applicare neanche.

Avanti, coraggio, non essere cauto, afferralo, è scarico. Non ti farà del male.

Sei oltremodo esitante. Avevi perduto ogni speranza di ritrovarlo qui a tua disposizione? Quanto a lungo lo hai cercato... e il solo pensiero di potertene impossessare così semplicemente ti sembra profanare ogni sforzo compiuto invano per poterlo ritrovare con le tue sole forze.
Hai mai pensato al tempo che hai impiegato? Alle rinunce che mentalmente offrivi in pasto alla sorte affinché accorciasse la maturazione della tua conquista. Alle scommesse giocate con la tua anima affinché tu barattassi qualche frammento della tua anima per godere finalmente del tuo desiderio.
E ora quell'inutile commercio, quella frode della tua mente che aggirava il fuoco della tua realtà, evapora lasciando il sale bruciante di una vita non più avvolgibile al suo antico destino.

Persino le consolatorie esperienze sembrano palliativi che crollano al peso dell'inganno. Nessuna esperienza, nessuna crescita. Solo del bianco espanso sui peli della tua barba. Solo una pelle più ruvida e le mani più gonfie. 
Fai la tosse e annoveri dolori sparsi senza origine.
Ti stai estinguendo. Com'è naturale che s'estingue la vita.

Ricorderai a stento quelle mancanze, ti incatenerai presto al pensiero che sarà sfuggito via qualcosa dagli innumerevoli appelli lungo le file umane del rancio.
Hai cominciato a non ascoltare nemmeno il tuo nome.

Un giorno sparirà tutto, e nulla si collocherà al giusto posto. Non avrai alcuna spiegazione al tuo dubbio latente, non incontrerai quei volti che hanno scavato rughe sempre diverse sulla piana dei ricordi.
No ti resteranno altre che le ultime parole che hai saputo raccogliere nell'appendice finale delle tue rubriche umane.

Neanche ora, all'esplosione di questo magnifico nulla.

sabato 22 agosto 2015

Anime bastarde

Mi appaiono come soldatini di gesso in attesa di un ordine per scrollarsi di dosso la polvere bianca e rianimarsi. Li sento mentre acquistano forma umana innervandosi attraverso le attese indirizzate a chi ha scelto di sposare il silenzio. 
Come bolle d'aria create da caotici flutti si ritagliano brevi circonferenze sulla superficie dell'acqua schivandosi l'un l'altra, cercando di catturare quel raro fotone radiante che possa filtrare l'abbaglio e selezionare tutti i colori della luce. Distribuendone con cupidigia le singole onde d'urto.
L'età aumenta la nostalgia di un'esistenza quasi sopportata, quella che da giovane avresti voluto capovolgere e riempire di tutto ciò che hanno potuto solo raccontarti, fagocitare le esperienze degli altri, adottarne i tremori, recitandone i conflitti non rimarginati, interpretando col proprio orizzonte affermato gli scherzi della sete e delle sbronze che non hanno neanche profuso alcun labile guizzo lungo tutti i tuoi giorni.

Quei giorni che si susseguivano come attese indirizzate a chi stava per ricacciare indietro il silenzio.

Quando erano bolle d'aria nel proprio stomaco, apnee gonfiate dal furore della libertà che le avrebbe ripulite fino all'ultimo atomo. I giorni di ieri e quelli di oggi si assomigliano, carta carbone di scarabocchi tracciati dal vile intromettersi di un bicchiere bastardo.
Manca quella rara cresta su tutta questa pesante normalità che riempiva di echi tutti gli anonimi attimi che facevano la fila per farsi rigurgitare dalle lancette che esultavano ad ogni proprio annientamento. Morti propizie di tempi transitivi a congiungere picchi di vita, confetti di memoria, canti sparsi come sirene dalla sinusoide sfibrata e zingara, con gonne ampie pronte a raccogliere le invasioni più bestiali e le gioie più scivolose dell'impero della mente.
E tutto questo sparisce portandosi via l'ammirazione verso i ricordi degli ospiti che presiedono quei minuti scippati da tutta quella immensa attesa che generava vita e sangue tra i vicoli ardenti delle proprie vene.
T'ho riconosciuta alle spalle di un sorriso di plastica esposto come vessillo di una presenza lontana proiettata da un fuoco volutamente nascosto. Straniera in un labirinto nella quale sembri esser caduta in un'età sedimentata sotto le orme ricalcate dai riflessi dei tuoi bicchieri.
Riflessi innanzi ai quali ti cali e ti spogli, lasciandoli attraversarti, trafiggerti e quasi sostarti dentro come lampi di pensiero senza fardelli di dubbio o fatiche di angosce.
Ripeti le parole del mondo con una cadenza insopportabile, ti agiti come un bambino che sta imparando a nuotare e sente ancora l'ostilità dell'acqua. Come una bolla d'aria generata dalle onde, che sa di dover sparire al prossimo vento, e tenta di imprimere quanta più esistenza possibile in quei giorni oscuri e confusi.
Come se il mondo non riuscisse ad accorgersi della tua imponenza, non sapesse come tradurre la tua immagine nella scena del tutto, le tue frasi si addensano in imperativi con architravi puntellati dalla colpevole innocenza di chi trema persino al peso di un braccio sospeso ed una sigaretta all'estremità più remota della mano.
Un'innocenza ripudiata, ma che giace intatta in una teca di vetro con le impronte dei troppi polpastrelli che hanno tentato di forzarla.
Ogni respiro è un sollievo da quel fardello.
Poi cala uno strano silenzio che chiude il sipario dalla tua bocca.
La paura sembra governare quei fragilissimi silenzi. La paura che il vento possa spirare talmente forte voltando le pagine del libro sospeso sulle tua mani, e possa riportarti a capitoli differenti da quelli su cui s'era arenata la tua voglia di interpretazione, e di nuovo da quel momento in poi, a disorientarsi in città invisibili. La paura di non trovarsi in alcuna delle immagini con cui s'è popolato il circo degli astanti che funambolano tra un menzogna e una sentenza.
Sembri spegnere con un mite rigetto quel crepitante ronzio, e per me sembri rivestirti di un'anima libera.

Indossi tutta la struggente bellezza della malinconia, di un'imperfezione che ha catturato un riflesso del caos, trasformandola in un miracolo che si alimenta ad ogni sguardo lanciato sul pavimento, assumendone luce e contorni per fiorire in un punto unico e singolo nell'intero universo.
Lascio questa notte, sperando che la corruzione della falsità del compromesso a cui siamo condannati non ti abbandoni, che continui a corroderti e a isolare dal resto degli alberi il tuo piccolo inerme fusto preda dei rovi in questa foresta minacciata dalle fiamme.
Che questo sapore acido sia come una cura, una placenta che preservi il frutto più dolce. E se anche la tua stessa memoria dovesse smarrire le chiavi della dispensa, lascia che da quella credenza di vetro traspaia un riflesso dal tuo malinconico sguardo. E la strada per coglierlo sarà solo un guizzo di luce senza parole drogate.

sabato 2 maggio 2015

Un apatico

Mercier uscì di casa perché non riusciva a dormire. Entrò nel nuovo bistrot nella piazzetta della cattedrale, e dalla popolazione che si palesò ai suoi occhi riuscì a comprendere quale sarebbe stato il destino di quel posto. 
La proprietaria gli venne incontro con rumorosissimi passi, e Mercier fece una smorfia di disappunto con il rintoccare di quei tacchi se sembravano volerlo assalire. Ordinò dello scotch e fissò per un attimo un tavolo poco più in fondo, dove un uomo molto alto e ben vestito stava urlando qualcosa ad una ragazzetta che a stento tratteneva le lacrime. In giro calò uno strano silenzio, e tutti parvero coinvolti nella lite tra i due, ma Mercier concentrò i suoi occhi sul suo bicchiere, e con la punta delle dite della mano destra spostava avanti e dietro un quadrato di cioccolato bianco.

La proprietaria rimbrottò qualcosa di riprovevole sull'uomo più in fondo, e in generale sembrava avercela con tutti i presenti di quella serata, per lo più ubriachi. Mercier distoglieva lo sguardo dal suo bicchiere ogni volta che la donna appuntava nei suoi discorsi un nuovo individuo; Mercier lo guardava un attimo, e poi rientrava sulla sua rigida posa.
La donna si fermò all'improvviso, e prese a fissarlo silente. Mercier s'accorse di quello sguardo dopo qualche minuto. S'accorse del suo sguardo languido, e del viso ammiccante. La donna tornò sul retro, e andando via sfiorò il braccio di Mercier che ancora reggeva il bicchiere vuoto. Lasciò la porta socchiusa, rivolgendogli un ultimo sguardo.
Mercier girò dietro il bancone e la raggiunse. La donna era piegata a sistemare dei barili di olio. Mercier le si avvicinò e la prese dai fianchi. La donna gemette, e tentò di baciarlo, ma Mercier allontanò la sua bocca, spingendola con forza contro un bancone. Le sollevò la gonna e la prese da dietro.
Fece presto.
Prese uno straccio e si ripulì le mani. Si sistemò i pantaloni e fece per allontanarsi.
- Ehi! Tu! - Gli urlò la donna.
Mercier si fermò davanti la porta, ma non si voltò a guardarla, ne sentiva lentamente allontanarsi le urla e le maledizioni. Poi uscì verso la notte.

La Luna illuminava il cielo ad est, a pochi centimetri dalla costellazione della Vergine. Mercier accusò un leggero brivido, poi proseguì il suo cammino alternando i propri passi sulla colorazione a scacchi delle chianche sul viottolo.
Pensò a sua madre, e al dolore che avrebbe provato nel ricevere la notizia. Pensò a quella vita che sfioriva come in preda ad un interminabile inverno. Pensò a quelle combinazioni cosmiche che tornavano a mescolarsi nel caos, alla chiamata di una nuova vita a cui non si sentiva pronto di garantire una rigenerata presenza.
Pensò a come sarebbe stata la sua morte, alla gente che avrebbe condizionato, agli eventi che avrebbe messo in moto. Pensò ai pochi giorni dall'imprecisato numero che lo avrebbero ancora visto sulla scena del mondo a recitare ruoli comprimari. Si ricordò di una donna amata anni addietro. Della debolezza con cui aveva avvilito col tempo quei giorni dal sapore dolce e ricco di speranza. Dell'abbandono lento cui s'era condannato non riuscendo a nutrire un senso alcuno ai suoi giorni, e a quella serenità così scomoda.
Da lì a poco quel ricordo si sarebbe affastellato ai tanti racconti incompiuti che hanno ricopiato nei secoli le bozze del mondo, avrebbe avuto volti di vite mai nate.
Ricordò la profondità di quei giorni che pure gli furono sottratti con violenza. Pensò che, in fondo, in quello stretto recinto in cui s'era confinata la sua possibilità di scegliere non provava alcuna paura.
Quando lei se ne andò Mercier pensava che avrebbe dovuto fermarla, che avrebbe dovuto riprendersela. Che avrebbe dovuto forzare lo scorrere inevitabile delle cose piegando la vita alla sua volontà.
Come l'uomo nel bistrot che urlava contro la ragazza, avrebbe dovuto imporre al suo stesso mondo delle regole rigide e dei contorni precisi.
Pensò che racchiudere quei sogni condivisi in un solitario epitaffio coi tempi al passato l'avrebbe assolto per l'eternità. Quell'eternità che stava per giungere a compimento di lì a breve.
Mercier osservò che in quel momento tutti i suoi dubbi stavano per disperdersi. Anche la Luna, apparentemente costante ed infinita, avrebbe fatto a meno di lui. Così nulla al mondo ne avrebbe mai reclamato la presenza o aborrito le intemperanze. 
Si sedette su un improvvisato giaciglio ai piedi di un pino avvolto nella notte. Respirò l'odore della pece che veniva rafforzato dal suono tenue del vento tra quei rami. Si sentì chiamare un'ultima volta.
Sapeva che il  momento stava per arrivare, ma non lo avrebbe mai afferrato fino in fondo. Si sentiva impotente, come tutte le volte che la vita gli era sfuggita di mano.
Ma in quel sibilo tra i rami ascoltò il canto della sua resa al tempo, e nella sua mente rivolse delle ultime parole a sua madre.
Le disse che non valeva la pena aspettarlo a pranzo. Le disse che aveva perso l'illusione di poter governare il vascello della sua propria esistenza, e che nell'inevitabilità del naufragio ogni condanna risultava inefficace.
Attese che quell'attimo anarchico lo cogliesse. Non aveva idea di quando avrebbe potuto coglierlo. Un'ora o un mese, che differenza avrebbe fatto?
Mercier lo attendeva, e si addormentò.
    

giovedì 23 aprile 2015

Che fai?

- Be' che hai?

- No, niente.

- Ma come niente? Stai lì, non dici niente, non bevi, hai la cenere della sigaretta tra le dita. Che hai?

- No, è che pensavo che...

- Che cosa pensavi, Alcor?

- Che noi, noi non stiamo poi così tanto bene insieme.

- E perchè?

- No... perché, insomma, non mi dici nulla di quello che fai, di ciò che ti succede. Mi accenni qualcosa che  poi dovrei ricordare come fossero cose complete? Ma chi sei tu?

- Ah, ti interessa quello che faccio, Alcor? E da quando?

- Da sempre. Mi interessa quello che fai, il tuo lavoro. Davvero. Dimmi ad esempio di quella nuova associazione di cui mi parli spesso, come si chiama....?

- Non è un'associazione, è team di lavoro.

- Ah, sì, il team di lavoro...

- Se ti interessa davvero quello che faccio, potresti anche chiedermi qualche volta come vanno le cose. Potresti farmi delle domande, darmi l'impressione che davvero vuoi sapere qualcosa. Invece no, niente, stai lì, col tuo sguardo fisso verso gli alberi. E non ti importa di nessuno, neanche di me. Ti preoccupi solo di te stesso.

- E invece no! Io voglio sapere tutto. Voglio che tu mi racconti spontaneamente, non voglio farti domande.

- Ma come faccio a raccontarti la mia vita se ogni volta che ci provo il tuo sguardo si piega verso il basso. Me ne accorgo quando non te ne frega niente, quando respingi le parole degli altri come se stessi passando uno straccio per levar via la polvere dalla tua concentrazione sui tuoi problemi.

- Ma no, io voglio sapere tutto, conoscere, esserci.

- Ah, tu vuoi sapere tutto, vuoi conoscere? Tu non vuoi sapere nulla, tu vuoi solo assicurarti che quello che faccio e che penso sia di tuo gradimento. Non ti interessa nulla delle mie cose.

- Cosa hai fatto oggi?

- Quanto sei indegno, davvero! E tu invece, perché tu non mi racconti mai nulla di te, delle tue cose, delle tue belle riunioni. Che cosa stai facendo della tua vita? Della nostra?

- Ma... veramente a me non capita nulla di importante, va sempre tutto in maniera uguale, non cambia niente, non succede niente... che cosa vuoi sapere?

- Ah, vuoi che io ti faccia domande, mentre tu vuoi ricevere confessioni spontanee? Ma non ti sei sempre rivolto in maniera scontrosa agli interrogativi? Non hai sempre detto che sembravano indagini inopportune, che sembravano "odiosi visti di conformità da parte di estranei", quelle domande sul "che hai fatto oggi", o "come è andata la tua giornata"? E tutte quelle volte che ci permettiamo di commentare, ci aggredisci facendoci credere un lusso l'aver appreso una qualunque notizia sul tuo conto, un lusso estremo che non può spingersi fino al commento per non eccedere nella grazia sociale di considerarti uno di noi...

- Va bene. Ho capito. Non mi importa nulla di quello che hai fatto oggi. Da me cosa vuoi?

- Che cosa c'è in quel tuo "niente"?

- Niente. Forse.

domenica 18 maggio 2014

Reemergence six

- ...e per me dell'anatra con patate.
- ...solo il filetto di pollo, grazie.

- hai paura stavolta?
- ho sempre avuto paura.

Hai pulito bene la gabbia oggi pomeriggio, prima di venire fuori? Quelle grate sbilenche che filtrano male la luce del mattino sono un vestito attillato, credo di una taglia più stretto. Sagomato sul tuo profilo, modellato sulle tue aspettative. Su quelle sconvolgenti proiezioni del tuo essere in cui ciò che appare bello è tenuto a riconoscersi.

L'età ha forse creato un'intercapedine tra una sbarra e la tua pelle? Vorrei provare a soffiare attraverso queste fessure ombrate, e farti venire il solletico, per trovare un brivido in fondo alla protezione accurata di questa disadattata veste.
Mi accomodo sulla poltrona a fissare l'ordine della normalità, e a contemplare con sguardo elegiaco le trasformazioni occorse nel frattempo.
Ho una cura da somministrare al mio animo, ma preferisco scrivere ricette per chi mi ascolta vanamente.

Paghiamo a metà, sì da non avere debiti l'un l'altro, nulla che prefiguri scambi di sorta, o carenze, o abbondanze. 
Cercare è una pratica da giovani speranzosi, riemergere senza motivo è un salvacondotto della maturità verso il ripostiglio delle intemperanze nostalgiche. Le parole sono importanti.
Questo vestito non si addice certo ad un posto nella platea di reprobi vincitori. Ti permetterà piuttosto di assistere allo spettacolo da un palchetto defilato, dove lo sguardo degli attori non si incrocerà mai col tuo, e starai al sicuro.
Ma copriti, fa freddo.
Io non conosco altro tuo profilo che questo. 

venerdì 21 febbraio 2014

Pensionati

Collega che mi telefoni mentre sono tre ore che ascolto Mentana con l'inquadratura fissa su una porta che non s'apre, con il toto-ministri in loop, e mi rammenti i giorni trascorsi insieme tra zona telecomunicazioni, terminali, prefetture, invio dati, ispezioni, sigarette, trasferte.
Provi una nostalgia che ti ha financo spinto a chiamarmi per ben due volte in tre mesi. Noi che ci si sentiva al ritmo di una cometa di Halley.
Ebbene, non indugiare nella tristezza dell'anzianità che irrompe bruscamente nel quotidiano andare dei tuoi giorni, celando  l'angoscioso approssimarsi della tua fine col più nobile abito del ricordo lieto di una maturità proletaria e consegnata da tempo all'INPS.

Rimembra tosto il nervosismo di quegli uffici, le inefficienze burocratiche, gli stress dei sottoposti inconcludenti, e le ansie di collaboratori poco dediti alla fatica. Ricorda i mal di testa, i colpi di tosse, il desiderio magnetico di riporre il cartellino nel suo tabernacolo naturale.
Ecco, rimembra gli attimi di libertà assaporati fuori dall'ambiente tossico dei nostri uffici, rimembra con concentrazione l'insalubrità di quei giorni.

Rimembra e tira un respiro profondo. Bravo, adesso spingi fuori l'aria inspirata. Sì, è lui. Il rimpianto che se ne va.

domenica 9 febbraio 2014

Il socio ACI

Ci ridi con distacco, ti sembra che quella tessera ACI numero 917655 barra UT non potrà mai entrare nel tuo portadocumenti che tua moglie dimenticherà in preda all'esaurimento e agli psicofarmaci.

Una pittoresca galassia di parodistico stupore.

Poi un giorno ti capita di telefonare ad un meccanico per prenotare una visita medica alla vettura attualmente a disposizione in comodato d'uso gratuito.

- Buongiorno, chiamo per una vettura in gestione della società X, volevo chiederle se siete nelle condizioni di fare il tagliando?

- Sì...

- ... Controllo delle pastiglie dei freni?

- Sì...

- ... Sostituzione di una luce di posizione fulminata?

- Sì...

- ... Cambio di olio e filtri?

- Sì...

- ... Pulizia dei filtri del condizionatore?

- Sì...

- ... Rimozione degli adesivi aziendali dalla carrozzeria?

- Sì...

- Però presumo che essendo un intervento fuori dalla manutenzione ordinaria, la rimozione degli adesivi aziendali presupponga che dobbiate giustificare l'intervento sotto forma diversa, perché molto probabilmente la società di leasing non contempla nelle condizioni contrattuali che si faccia carico delle spese dovute ad un'operazione che attiene un atto compiuto dalla società cliente e non da quella fornitrice che pure è tenuta a garantire la massima efficienza del mezzo fornito...

- Ce-ce-certo... Sì...

- Bene, mi dica quando posso portarle la macchina per la manutenzione.

- La chiamiamo noi.

- Perfetto. Ah! Mi scusi ancora un minuto, ma quando porto la macchina siete in grado di fare gli intervento in poco tempo? Perché altrimenti dovrei farmi accompagnare presso la vostra officina per non restare ad  aspettare a lungo...

Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu Tu 


- Pronto? Pronto? Che strano, deve essere caduta la linea.

E a quel punto rifletti, e comprendi che la tessera ACI si materializza nel tuo portadocumenti nell'esatto momento in cui smetti di avere fiducia negli uomini, e nella loro autonomia di comportamento, e ti senti costretto a raccontare loro i passi da compiere per vivere e operare in nome di un mondo che non te lo mette nel culo, mascherando la mossa con la benda dell'insufficienza di prove, o di una buonafede smorfiosa e bugiarda.

giovedì 24 gennaio 2013

Out Out

Le ultime cose che ho scritto fanno davvero pena, a parte l'avvincente episodio di una sega giustiziera della notte.
Occorre chiedersi se non sia necessario provare a scrivere qualcosa di diverso da una pippa sul perchè si scrive o non si scrive. A ben vedere sto per impipparmi anche adesso.

Ma  io ho cominciato a scrivere in una fase di risorgimento la bellezza di 6 anni fa, con alterne fortune. E per me ha rappresentato tanto, forse tutto. E non tutte quelle cagate da centrometristi della crisi esistenziale, o del sottoprodotto grafomane dell'astinenza da svuotamento della sacca scrotale. A tratti questa dimensione ha assunto contorni che hanno fagocitato tutte le altre vie di espressione normali per un umano medio di caratura insignificante.
Ma quando ad un certo punto ti pettini come alcor, ti vesti come alcor, magni come alcor, pisci come alcor, rispondi male alla gente come alcor, ti imputtani la vita al solo scopo di poter esaltare il tutto con quattro mirabolanti frasi su un blog disabitato, la cosa comincia a scadere nel patologico.

E lo è stato, patologico. Il bilancio di questo pasticciaccio nel suo periodo di massimo splendore nel recinto limitato di una community di provenienza (splinder), son stati il prosciugamento dei miei risparmi, la presa di coscienza che fare il ricercatore sarebbe stato l'equivalente di un'evirazione, tre o quattro fellatio guadagnate, l'illusine di poter apparire interessante, una temporanea via d'uscita dall'onicofagia alternata al fumo intensivo, ed infine mi ci son anche fidanzato grazie a 'sto blog del cazzo.

Poi il vuoto più vuoto e la necessità di sloggiare e ricominciare. Un bisogno sempre vivo ma mai assecondato nelle giuste dimensione.
Capita anche di beccare saltuariamente qualche frequentatore di quella sporca dozzina che ha prese parte a quella terapia di gruppo mascherata da estro e creatività, e una sorta di depressione latente è il minimo comune multiplo che si percepisce da una breve analisi del precipitato di queste vite che procedono senza contatti.
"Ma scrivete, cribbio, scrivete", suggerisco loro, spiegando le ragioni di uno sport liberatorio da assumere come terapia di convalescenza permanente dopo l'urto di una guerra quotidiana. La verità è che sono un bugiardo malefico, perchè sono io a ad aver bisogno di loro.
Il bisogno di ricostruire un presepe dove la storia si ferma, e far rinascere gesù bambino all'infinito, e mantenere gli attori nella stessa posizione a prosueguire i loro racconti, talvolta così ben scritti, senza fine. A scavare goliardicamente e sarcastcamente 'sto pozzo becero che è l'animo umano alla ricerca di non si sa che cosa. Il tutto nella semplicità di un fine a se stesso.

Perchè è da questo confronto permamente che mi son nutrito e mi sono ononisticamente dato un tono  con il quale riuscire aa riconoscermi. E nella lunga e lenta fase di autodistruzione incerta che permea l'esistenza, rinascere in una forma propria e autonoma ha rappresentato un fittizia ma divertente salvezza.
E vai così: pettinarsi come alcor, vestirsi come alcor, magnre come alcor, pisciare come alcor, rispondere male alla gente come alcor. Esserlo senza alcuna distinzione.

E se la didascalia sul copione mi suggersice di non nutrire alcuna speranza sulla qualità dell'umanità, ecco, lo registro senza colpo ferire.

E chi se ne frega del pubblico. La benzina non è mai stata il consenso di cui pure ho ampiamente goduto, no, il carburante è stata la compulsiva lettura di quanto producevano queste anime disperse nella lora naturalezza, nella loro così splendida insostenibilità del crescere.

Che quattro o cinque cazzatelle per un volumetto ci starebbero anche bene, ma questa indolenza a rifiutarsi di completare il giro è proprio disarmante. E ad un certo punto, quando si hanno trenta anni suonati, diventa una sorta di baluardo identitario e incorruttibile.

- Preferisci il mare o la montagna, Alcor?

- Mah, non so né nuotare né sciare...

- I boschi allora...

- Meglio il salotto.

martedì 15 gennaio 2013

Strisce gialle

Il concetto di fondo è il seguente: traferire la libertà in un alveo esclusivamente introspettivo, amplificarne i recinti angusti, e le pareti strette. Pescare la forma dell'inesorabile dal secchiello in cui possiamo conservarla, e riscoprire la fuga come atto di presa di coscienza per dominare il mortifero inesorabile.

Ma la fuga non è intendersi unicamente come atto di ribellione e contravvenzione alle convenzioni (steccati) dell'umano persistere. La fuga è l'accendere la luce sul cammino, la fuga è una chiave interpretativa. La fuga è un confronto a doppio binario con se stessi e con gli altri. La fuga è voler misurare le distanze provocate dall'incursione di migliaia di variabili impazzite.

Una riscoperta in cui anche l'immobilismo appare dinamico su una traiettoria costante, sapendo che tutti i tragitti terminano "inesorabilemente" verso un muro. Si può decidere di correre o di restare immoti su un pianeta destinato a collassare.

Ok,  ho finito di recensire le idee di una notte insonne, insidiata dai malware della mente, a proposito di una storia che vorrei essere bravo a saper scrivere.

domenica 23 settembre 2012

I trapezisti spezzati


Ogni volta, dopo l'ennesimo tentativo di chiamata abortita, si trasportava inconsapevolmente agli argini dove i sassi incontravano la sabbia sottile.

Maggie, ormai, non voleva più saperne, e s'era convinto anch'egli che ne aveva le giuste ragioni.

Non era il calore delle sue avare carezze a mancargli, no. Nemmeno le cantilene notturne. Il vero baratro consisteva nel non potersi più afferrare come se fossero trapezisti in volo attraverso il dissestato tragitto dell'esistenza. 
L'assenza era fatta di assenza di risposte a interrogativi che da soli non si era in grado neppure di esplorare, di assenza di comprensione a stati di disfatta in guerre ancora da dichiarare. Di incontri sempre puntuali perché la felicità non richiede appuntamenti concordati.
Di queste miserie si nutre il famelico verme della mancanza, non di altre grevi inadempienze.

Ed R. prese dunque a raccontarsi le sfumature di un'agonia talmente lancinante da non fargli provare alcun dolore, che piuttosto si vestiva di una quiete amara interrotta di frequente da fragorose risate di rigetto.
Nelle sue storie i volti degli umoni perdevano ogni connotato: si riempivano le fosse oculari, si asciugavano le labbra, si levigavano i nasi. Una comune tragedia si riconoscerebbe sulle pallide fronti di  ciascun uomo, senza sprecar sguardi ad individuarne i motivi dei volti e delle disillusioni.
 Le uniche sfumature che rendono speciale il dramma di ogni uomo, è la porta d'accesso da cui questo si presenta.

Allora occorrerebbe tenersi stretti, senza neppure riuscirsi a sfiorare, come trapezisti integri che si riconoscono senza neppure chiamarsi, volteggianti e certi che all'acme del proprio volo, al cambio di rotta che introduce al precipizio, ci sono le mani dell'altro.
Il sogno di questa straordinaria empatia l'aveva del tutto abbandonato. Maggie se ne era andata, e non rispondeva più. Lei era tornata ai luoghi verso cui sentiva il suo richiamo.
Investigare sulle ragioni di quel fato infelice avrebbe significato rinnegare la tragedia alla base dell'inconciliabilità tra gli esseri, e di riflesso, ripudiare quei volteggi di profondo amore che aveva vissuto lassù con lei, sul trapezio, prima che questo si spezzasse.

Semplicemente, senza plasmare i connotati della vittima, o del carnefice, durava nei suoi giorni in attesa che una smentita epocale facesse crollare il circo delle verità svuotate che aveva allestito intorno alla propria gabbia di pelle e parole.
Una sera, mentre assaporava un cognac, incontrò Hanna, sua vecchia conoscenza. A lei piacevano le sue espressioni marmoree e dure, che sembravano scolpite da un senso di forte controllo sulla realtà.
La trovò ingrassata e provata, e con le coscie scoperte.

Hanna lo guardava, e lui si lasciò sedurre, come se la cosa non lo riguardasse. A casa di Hanna c'era una cucina ordinata e un corridoio tappezzato di foto, quelle pareti trasudavano dalla voglia di convincere chi le abitava che un'identità propria è raggiungibile anche a buon mecato. Basta pagare con una buona memoria.
Hanna, spogliata, urlava appoggiata contro il muro, mentre R. spingeva con forza da dietro, e lei, piccola,  sembrava piegarsi a quell'irruenza, quasi strozzata. R. non cercò di capire quanto piacere ci fosse nelle urla di Hanna, sembrava quasi immune da ogni ascolto, e fece presto.
Appena ebbe finito, R., ancora nudo, si versò del vino bianco e si preparò per andarsene. Hanna, nel letto, imprecava  avverso la sua nota indifferenza, ancora singhiozzando.  Ma fu completamente ignorata.

Hanna, umiliata, tentò di richiamarlo a sé, e cominciò ad insultare il nome di Maggie.

R. non rivolse immediatamente i suoi pensieri a Maggie, né a quanto l'aveva amata. Pensò a quella volta in cui lei lo tradì. Stavano insieme da poco e lui occultò il fatto dalle sue conversazioni con lei spazzandolo lontano con scialbe citazioni nichiliste. Pensava che gli servisse da monito, per ricordargli che nulla mai sarebbe stato scontato.
R. aveva ancora il sigaro in bocca. La raggiunse e la guardò mentre si azzittiva e si copriva le nudità con terrorizzato pudore.
Per un attimò gli sembrò anche bella adornata da un'aurea di sottomissione e vergogna.
Hanna cominciò a piangere. Un pianto infatile nutrito da un desiderio malriposto, un pianto che manifestava lo strazio di non poterlo rapire per sempre, e tenerlo con sè. Un pianto che aveva il gusto della maledizione agognante un possesso illeggitmo che R. non seppe sopportare.

Allungò le sue braccia dure contro la donna in lacrime, e le strinse la gola tra le mani finchè un'espressione di morte non gli raccontò in pochi istanti di che sapore era stata la vita che lì cessava.

Il volto di Hanna sembrava aver acquisito dei contorni. Adesso aveva dei nuovi occhi, una bocca socchiusa che reclamavi baci onesti e labbra da non scassinare con prepotenza, ma da assoporare con delicatezza. R. la guardò e la vide emergere da un anonimato tragico ed equo che si scioglie nel rito dell'addio.
Lo stesso che accompagnava Maggie, quella sera in cui gli comunicò gelidamente che sarebbe partita.

- Puttana.

R. non si scompose, prese il suo sigaro e scomparve. 

martedì 31 luglio 2012

Sulle fronde dei lecci

Questa piazza è importante. Qui ho sporcato per la prima volta i miei pantaloni bianchi scivolando sul pavimento bagnato. Su quella panchina di sedevo repentinamente tutte le volte che giocavamo a pallone e mi accorgevo che mio padre stava per sbucare dal corso, e che non avrebbe gradito di scoprirmi lì, sudato e sporco, con la tramontana e il freddo. 

Da quella strada lì, invece, scappavamo alla vista dei vigili urbani. Una volta mi capitò di scappare da un vigile e di infilarmi proprio in quella strada, ma di ritrovarmi improvvisamente un altro vigile di fronte non appena girai l'angolo. 

Mi trascinarono di forza nel comando, mi conoscevano bene nonostante avessi otto anni, eppure non dissero nulla quando diedi loro false generalità. 

Le notti sino alle 3.00 sentivi di essere padrone assoluto di quegli spazi deserti che spopolati davano impressione di dilatarsi spropositatamente. E quelle nostre chiacchiere adolescenziali assurgevano a rango dei migliori discorsi che in quei luoghi furono mai stati condotti.

Quando si spegnevano le luci, tra le fronde dei lecci, si scorgevano queste stesse stelle che ci videro crescere, e che testimoniano di tutte le promesse infrante.

Quando una strada ti è cara, cerchi di percorrerla con il maggior numero possibile di bagagli, e chiedi alle persone più care, di condividere un tratto del tragitto. Non lo chiedi maii esplicitamente, attendi in cuor tuo che la sensibilità altrui arrivi a colmare lo spazio reso libero dai passi indietro di domande sottaciute.

E capita sovente di non riconoscersi più. Di mancar gli incontri perché le rispettive voci hanno provato a rintracciarsi parlando lingue diverse. Per queste ragioni sembrerebbe superfluo interrogarsi sulle ragioni del silenzio.

Un tempo ti emozionavi se ti indicavo Giove, e quella direzione riusciva a riempirsi di una poesia che ha ammutolito i suoi versi, e non scorre più.

venerdì 27 luglio 2012

Over the glass

- Be', che te ne pare di questa vetrina, Alcor? 

- Trovo che sarebbe bellissima, se non la guardasse nessuno. 

Dacchè fruisco di estati civilizzate è sempre stato così, altissima propensione all'isolamento audiotermofatmologico e tattile dai miei simili, fenomeno largamente riscontrabile se analizzato nelle ore successive al tramonto.

- Questo abito? Come credi che ti starebbe?

- 'Na merda, devo supporre.


Chissà come si starebbe comodi su un letto di tegole. Piuttosto. I primi quindici minuti trascorsi nel fruire di spettacoli ipocondriaci di ossessionate affermazioni artefatte di se stessi, sono estremamente indigesti. Forse perchè rubano la scena a chi saprebbe esser ancor più indigesto.

- Così facendo, non dando risposte, col risponditore automatico "niente", attiri odio.

- Lo so. 

Quando la domanda più frequente che ti viene rivolta è: "sei sposato, hai figli?", comprendi che la faretra sta diventando scarica. E che non si vede più tanto bene per mirare degnamente.

lunedì 20 febbraio 2012

mercoledì 14 settembre 2011

Also spracht Alcor - la vita è uno stato mentale


Domani parto, again.

Tra la stasi esogena e la convalescenza che mi ha immobilizzato tutto ciò che esiste tra il mio basso ventre e le mie ginocchia, il mio pensiero corre e ricorre al racconto Infanzia di un capo, di Sartre. Quello del concetto della "immensa attesa", per intenderci. Omosessuali a parte (con tutto il rispetto), esistono parole che si attaccano alla pelle come elettrodi, e sembrano raccontare i picchi e i precipitati attraverso il diagramma che quotidianamente si tende ad arginare.

Uso l'impersonale, o un'anonima prima persona plurale, ma è di me che parlo, visto che il residuale tessuto di esseri terrestre mi è tuttora sconosciuto.

Dovremmo ripartire da alcune costanti: da Nietzsche, dal tonno con la maionese, dai cappelli ottocenteschi, dal nodo windsor alle cravatte, dal tiramisù, dai sudoku e dall'indifferenza imperatrix mundi.
Ricevo la telefonata di un caro amico che non ha del tutto perso la voglia di rantolare nel torbido. Del resto, perché biasimalo, ha solo 24 anni è assolutamente comprensibile che egli sia ancora in grado di invocare una solidarietà generazionale nell'erezione di un fronte battagliero contro questa manica di cialtroni che si proclama classe dirigente.

Mi veniva in mente che il porto vicino casa mia non riesce a sviluppare il suo potenziale di affari perché è poco profondo. Il pescaggio inferiore lo rende poco competitivo perché impedisce alle navi più grandi di poter attraccare.
Si potrebbe scavare. Si potrebbe, no?

Peccato che vi abbiano sversato tanta di quella merda, nel corso degli anni, che smuovere un sassolino dai fondali significherebbe mettere in circolo tossicità allo stato puro.
Ecco cosa accade quando si smuovono consolidati strati di schifo, per riconvertirsi e non crepare.


 








 

domenica 4 settembre 2011

La vita interiore


- Ma lei è un giocatore di rugby?

- No, pratico attività più tranquille, come la briscola.

- Fuma?

- Sì, ho un'insana propensione al carsismo polmonare.

- Diamo una controllata alla prostata?

- No! Sono diventato obiettore di coscienza pur di non far visitare la mia prostata! La prego...

- Ma giunti alla sua età un controllo sarebbe opportuno, suvvia, non faccia il bambino, si volti.

- Le ho detto di no! E comunque sono ancora giovane per badare alla mia prostata!

- Lei "giovane"? Ma sta scherzando, vero?

- Perchè?

- Lei crede davvero di essere ancora giovane?

- Ma... è scritto qui, legga, sui miei documenti.

- Quali documenti?

- Ecco, questi... ma.... che cosa è successo alla mia immagine?

- Che cos'ha la sua foto?

- Sembra essersi ingiallita, all'improvviso, e il mio nome è sbiadito, la mia altezza dimezzata, che scherzi sono questi?

- Tenga, si guardi allo specchio.

- Ma, chi è questo vecchio canuto?

- Come chi è? È lei, non si riconosce?

- Ma non  posso essere io! Avevo il viso tondo e i capelli neri quando sono venuto qui.

- Quanto tempo crede che sia trascorso da quel momento?

- Come sarebbe, quanto tempo... Un'ora al massimo...

- Un'ora al massimo, dice? Lei ci sta lasciando lentamente, figliolo. Su, si giri, dobbiamo controllare la prostata, è necessario.

- Ma vuole darmi una spiagazione? Che cosa c'era in quel bicchiere che mi ha offerto?

- Dei drenanti naturali.

- E cosa significa tutto questo? Perché sento le gambe cedenti e un forte mal di schiena?

- Che lei deve svegliarsi, giovanotto. Che lei deve necessariamente svegliarsi  e andarsene da qui.




Le scelte sono gli angoli in cui si depositano le scorie della solitudine in cui è confinato ogni uomo. Ai bordi del pavimento, lungo i muri delle stanze, basta una passata di un panno umido per ristabile una parvenza di chiarezza. Agli angoli, invece, resta sempre qualcosa che si deposita col tempo. Lì, dove i contorni si fanno irregolari, dove è obbligatorio svoltare per non andare a sbattere contro un percorso nottambulo, e dove fa più male se ci si rovina contro.

Dopo aver fatto i gargarismi col suo colluttorio rosso, e avendo avuto cura di riporre il suo deodorante ascellare nel bagaglio, andò incontro a suo padre che lo aspettava battendo la pianta del piede.

Allargò il nodo della cravatta per non lasciare che l'ansia lo strozzasse. Qualche felpa per la sera l'aveva portata con sè. Doveva ancora interpretare gli adattamenti del suo corpo ad un clima diverso a quello a cui era abituato. Ogni tanto si schiariva la voce con un grugnito silenzioso per modulare meglio le sue parole. Aveva capito che plasmando bene le parole avrebbe potuto rendere meno infettivo il suo accento marcatamente distintivo.

Durante il volo provava a intavolare discorsi con se stesso per saggiare i suoi progressi nel tenere  a freno le mani, per controllare meglio gli effetti dell'ansia.
Che avrebbe avuto a disposizione poche altre occasioni lo sapeva bene. Non si è giovani per sempre. E la resa dei conti inesorabilmente è depositata sempre là, all'angolo della stanza.

Avrebbe sciorinato ancora una volta il novero delle sue esperienze. Una ad una, come un susseguirsi di stazioni deraglianti che non avrebbero mai conosciuto un approdo. Avrebbe provato ad offrire alla commissione una rilettura di quegli eventi che fosse meno ufficiale. Avrebbe tracciato il filo conduttore di quella rincorsa alla normalità affrontata con tanto coraggio ma con pochi apprezzabili impronte nel corso evolutivo della specie umana.

Giunto a destinazione lei lo venne a prendere, e lo abbracciò. Per un attimo ebbe il sospetto che vi fosse una larga pozzanghera che separasse la realtà monolitica e immutabile dall'idea che costei in quel momento stava stringendo tra le sue braccia piene di ardore.

Ogni minuto che da allora trascorse assomigliava al campanello del giudice istruttore che freddamente enucleava le ragioni di una speranza malriposta.

(I vincenti li riconosci subito, riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di te? Io avrei puntato tutto su di te, Noodles. E avresti perso.)

Lei le offrì una granita all'anice, preparata come solo sua madre sapeva fare. Era diventata consuetudine da un po' di anni. Egli guardava il suo bicchiere di granita nel quale giaceva l'ultimo sorso. Pensò che non aveva sempre bevuto granite. Che per larga parte della sua vita le granite erano fluite in maniera indifferente senza che gli venisse mai venuta voglia di berne un bicchiere. Tanti anni erano trascorsi senza che le granite fossero mai esistite.

Un giorno, invece, s'accorse che faceva caldo e che non aveva fame, e che una granita gli sarebbe bastata per restare in compagnia di persone a cui avrebbe poi voluto bene.

Pensò che questa volta non sarebbe stato necessario avvisare a casa che il viaggio era andato bene.

Per anni gli avevano insegnato ad aspettare, a rinunciare, a restringere il ventaglio delle scelte. Si presentava al mondo dei vivi ricolmo di un amore che recava in dote miriadi di capitoli incompiuti. Storie affogate nel cesso al primo apostrofo erroneamente collocato.
Come quelle vecchie macchine da scrivere che andavano con i nastri di inchiestro nero. Bastava un dito un po' più disconnesso a rendere inaccettabili discorsi interminabili.

Infilò il suo pigiama invernale, e respirò a fondo il calore che da quell'abbraccio ancora s'infondeva. Una lacrima si addensò alla cornice del suo occhio sinistro, come un vetro rotto da cui penetrava la pioggia.
Sentiva il peso di tutta quell'inadeguatezza a cui aveva lasciato ampi metri di vantaggio, e che proseguiva lenta, lentissima, e lo precedeva nella risoluzione dei suoi algoritmi quotidiani.
Anche con il passo di Achille non l'avrebbe mai raggiunta, perchè essa conservava sempre una precedenza assoluta che le proporzioni dello spazio tempo avrebbero reso incolmabile.
Si nasce tartaruga, o si nasce Achille.
Si nasce compiuti, o si nasce appena.

Sul giornale dell'altro ieri vi era la consacrazione dell'incompiutezza come stagno nel quale la forza creatrice del linguaggio si edulcorava di arazzi pregiati nei riguardi di una cenciosa e scontata banalità a tratti quasi ripugnante.
L'irrequietezza è l'impeto ventoso che schiaffeggia l'insenatura al riparo del mare. Una conca aperta da cui la vita avrebbe lanciato affondi che un lago cheto e descrivibile non avrebbe mai appreso nelle sue computabili rive.
Una forma estrema di annegamento che ha come contorno incompleto la colpa, e come sbocco inevitabile la distruzione di ogni cosa.

Sentiva tutto il peso dell'umidità di un cielo in cui la sera non si rintracciano stelle.

A lei dedicò quei pensieri che si rivelarono gli ultimi. Pensieri che non sarebbe stato capace di replicare su carta per non lasciarsene privo. Ché scrivere è un impoverirsi senza ricevuta fiscale.
L'arte, un condono sull'inconcludenza.

E la smise all'improvviso, calpestato tra i binari di una metropolitana.


 

mercoledì 13 luglio 2011

Sussidiari illustrati di errori futuri


L'alfabeto è la chiave, non un susseguirsi annoiato di segni convenzionali. Una conquista del codice con cui attutire i colpi di maglio slanciati per scalfire il marmo e sancire una forma che non ammette errori. Perché se il colpo ferente è troppo brusco, le scaglie avvizzite non torneranno al loro posto. L'intera sagoma sarà ridiscussa, riconcepita, o al più tardi abbandonata.

Solo qualche graffio sugli stinchi, la stampella l'ho rifiutata finanche quando strisciavo.

Leggere è scegliere di appropriarsi, prestarsi al racconto è un deponente farsi scegliere da soppessare con immensa fiducia.

Mamma, doveva essere così alto il muro? Perché io da qui non vedo nulla. Questo è l'orario dei battelli, ne salpa una tra tre ore, e per ora l'imbarcadero è deserto, la battigia restituisce scorie di porti distanti. Forse mi sono sbagliato. Non salperà nessun battello. Nessuno se ne cura, nessuno avverte il gocciolare lento dei momenti che si approssimano agli orari scritti sulla tabella in mio possesso.

Controllo la data, ma i giorni sono uguali, non ci sono stagioni, solo settimane composte da numeri neri e numeri rossi. È troppo presto, dici, mamma? Ma io sono andato via, e sei un'estranea per me questa sera. Ascoltarti non rende questa attesa meno normale di altre.

Il mio libro nero è un puzzle di alfabeti stranieri che non so più interpretare. Le ultime pagine mi ricordano quanto è importante spazzolarsi i denti prima di andare a letto.
Non provare a baciarmi, puzzo di fumo dalle dita fino alle labbra.

Mi perdo spesso, ma una direzione non l'ho mai cercata. La volta celeste gira su se stessa ed il cielo non cambia mai. Il suo moto millenario sfugge alla percezione che una inutile vita abbozzata dai carboncini del caso può ponderare.

Quando smisero di perquisirmi controllarono un'ultima volta l'immagine sul mio documento. Non capivo il loro linguaggio rapido e convinto. Mi condussero in una sala piena di monitor su cui sfogliavano li profili dei figli degli uomini. Ci misero un bel po' a capire chi fossi, ed io a ricordarmi di me.
Nelle mie tasche vi era un foglio di carta con scritto un'indirizzo e due numeri di telefono, un biglietto di autobus usato, un pacchetto di sigarette e un accendino.

L'accendino mi fu requisito da un agente sorridente. Poi mi lasciarono andare, e mi mancò l'algida freschezza di quelle stanze bianche e refrigerate dai climatizzatori.

Avevo la percezione che la vita facesse schifo, e che fosse terribilmente breve. Fuori c'era un'afa diluente, ed in quelle stanze occorreva una giacca ben stretta sui fianchi.
Sui giornali la notizia di un poveraccio che si era trasformato in un rogo per accorciare gli effetti della fame e della miseria.

Mamma non c'è nessuno questa volta, e mancano solo poche ore al mio battello. Nessuno si cura di questa partenza, forse restermo qui, e non incontreremo nulla al di fuori del perimetro pisciato dalle nostre anime.

Non mi hai salutato per non disturbarmi.



 

sabato 2 luglio 2011

No-è


La pioggia torrenziale diventava sempre più insistente. R. controllò i materiali a sua disposizione e si rese presto conto che non avrebbe raccolto abbastanza legname per costruirsi un'arca capace di trasportare un rappresentate per ogni specie vivente del suo microcosmo.
Nemmeno una zattera monoposto, neanche un veivolo in fibra di carbonio che avrebbe consentito una docile trasvolata ai piani ammezzati del cielo, dove si preservava una fredda quiete.

Per costruire un'imbarcazione non sarebbe bastata la cartapesta ottenuta da un miscela di colla e carta straccia ricavata dalla sua immacolata biblioteca personale. Per questa ragione decise di uscire con un ombrellino del tutto inutile per i colpi trasversali e ventosi.
Tutto ciò che non vale la pena combattere, lo si aiuta ad invaderci.

Ché quell'imperfezione sarebbe risalita da un lato fino alle sue ginocchia, discesa dall'altro nei rivoli che avrebbero attraversato il suo capo e gocciolato a terra dalla fronte.
La sua casa era un brodo inquieto. Dove nottetempo fiorivano acidi nucleici elettrici.

I momenti topici sono sempre state puntine di compasso intorno a cui disegnare la circonferenza della retromarcia. Lungo la curva insistono innumerevoli centri di ristoro con offerte stracciate su cataloghi di alibi in svendita ai saldi di fine giovinezza.

- Ti va di parlarne, Alcor?

- No.



If I were afraid
I could hide

If I go insane
Please don't put your wires in my brain