martedì 15 gennaio 2013
Strisce gialle
domenica 23 settembre 2012
I trapezisti spezzati
Non era il calore delle sue avare carezze a mancargli, no. Nemmeno le cantilene notturne. Il vero baratro consisteva nel non potersi più afferrare come se fossero trapezisti in volo attraverso il dissestato tragitto dell'esistenza.
Di queste miserie si nutre il famelico verme della mancanza, non di altre grevi inadempienze.
Hanna, umiliata, tentò di richiamarlo a sé, e cominciò ad insultare il nome di Maggie.
R. non rivolse immediatamente i suoi pensieri a Maggie, né a quanto l'aveva amata. Pensò a quella volta in cui lei lo tradì. Stavano insieme da poco e lui occultò il fatto dalle sue conversazioni con lei spazzandolo lontano con scialbe citazioni nichiliste. Pensava che gli servisse da monito, per ricordargli che nulla mai sarebbe stato scontato.
Per un attimò gli sembrò anche bella adornata da un'aurea di sottomissione e vergogna.
Allungò le sue braccia dure contro la donna in lacrime, e le strinse la gola tra le mani finchè un'espressione di morte non gli raccontò in pochi istanti di che sapore era stata la vita che lì cessava.
Il volto di Hanna sembrava aver acquisito dei contorni. Adesso aveva dei nuovi occhi, una bocca socchiusa che reclamavi baci onesti e labbra da non scassinare con prepotenza, ma da assoporare con delicatezza. R. la guardò e la vide emergere da un anonimato tragico ed equo che si scioglie nel rito dell'addio.
Lo stesso che accompagnava Maggie, quella sera in cui gli comunicò gelidamente che sarebbe partita.
mercoledì 27 luglio 2011
Le invasioni barbariche
R. accese una sigaretta, chiuse la macchina e si diresse verso la porta di casa. Man mano che si avvicinava teneva la sigaretta il più possibile nascosta nel palmo della mano piegato a coppa, e con il braccio steso, tendente a celarsi dietro la schiena.
Tirava fumate rapide e frequenti. Se qualcuno l’avesse visto fumare non sarebbe successo nulla, ma lo sguardo riprovevole di suo padre, che di lì a poco sarebbe giunto anch’egli in prossimità del portone, era quanto di meno sopportabile vi potesse essere, soprattutto dopo una serata di indigestione da parenti.
Una volta s'era abbandonato ad uno sfogo nella cui requisitoria ricondusse, con deplorazione, le cause della sua irascibilità sociopatica all’attrito vischioso con cui si sviluppavano le conversazioni apparentemente più innocue tra lui e i suoi vecchi.
Suo padre, che riteneva di essere invaso da una innata condizione di impunità, non riteneva plausibile l’ipotesi sostenuta dal figlio, secondo la quale sarebbe stato lui l’induttore della condizione disadattante del proprio pargolo, e che l’incessante opera di messa in luce delle manchevolezze da parte di quest’ultimo rientrasse nel novero delle indispensabili competenze paterne, volte al progressivo ripristino della perfettibilità dei propri derivati cromosomici.
In virtù di questa missione egli sarebbe stato l’infallibile censore di ogni azione dei propri figli, nonché il vate pronto a svelare anzitempo le conseguenze di ogni loro proposito, facendosi beffe del simulacro ordinario dell’imprevedibilità degli eventi.
Era un rigido assertore della programmazione, e non riconosceva smentite, poiché negli anni aveva accumulato un forziere di giustificazioni applicabili a qualunque situazione.
Mentre R. indugiava con la sua sigaretta sotto il portone, osservava con una parvenza di invidia la leggerezza con cui gli avventori del bar lì vicino seguitavano ad accumulare vuoti a rendere di birra, discutendo animatamente circa le modalità di conservazione della ‘nduja calabra, e dei processi di lavorazione dello champagne.
Parole distinguibili tra rombi di motociclette, palle di biliardo che rimbalzavano al suolo, bestemmie di ogni genere e risate accalorate.
La contemplazione di tale eldorado fu bruscamente interrotta dall’arrivo della macchina paterna. Il finestrino si abbassò e lo sguardo del padre conducente si fece più distinguibile.
Quei pochi secondi di silenzio sembrarono pesantissimi ad R., che senza alcun motivo, sentì di dover giustificare l’indugio sotto il portone. Fece finta di frugare nelle tasche della sua giacca ed estrasse solo foglietti a caso.
- Non trovo le chiavi di casa. Le ho lasciate in macchina. Spero ci sia qualcuno che possa aprire il portone.
Il padre non disse nulla e andò a parcheggiare il mezzo. R. suonò il campanello e rientrò a casa.
Sentì d’essere scosso dopo che s’era appena assopito dinanzi alla tv che trasmetteva la rassegna stampa del giorno dopo.
- Vai a recuperare le chiavi di casa dalla macchina. – Impose suo padre.
- Ci andrò domattina.
- Ci vai adesso, così impari a dire ad alta voce che le chiavi di casa tua sono in macchina, informando la platea dei probabili scassinatori che popola il bar, su come svaligiarci senza fare tanto rumore.
R., si convinse del pericolo, si rivestì e tornò verso la sua auto per recuperare le chiavi di casa. Aprì lo sportello e le chiavi non c’erano.
Cercò dappertutto ma delle chiavi di casa, in macchina, non vi era traccia.
Rientrò a casa e comunicò a suo padre l’esito negativo della missione, lasciando che fosse lui a far emergere le conseguenze di quello stato di cose.
E per suo padre non vi era alcun dubbio: gli scassinatori che popolavano il bar, appena furono edotti dell’ubicazione delle chiavi del loro appartamento, dalle avventate parole di quello scriteriato di suo figlio, cessarono immediatamente di conversare sui metodi di conservazione della ‘nduja calabra e avevano provveduto ad aprire la macchina di R. per impossessarsi delle chiavi in maniera pulita e senza lasciare traccia, riuscendo persino a richiuderla per non destare sospetto.
Egli sapeva benissimo quanto si fossero evolute le tecniche raffinatissime di scassinamento eseguite in maniera delicata e chirurgica.
Una volta il padre di R. sentì di scassinatori che usavano un particolare gas sedante che consente l’esecuzione notturna dei furti mentre le vittime sprofondavano in un sonno quasi comatoso.
Era sicuro che il loro appartamento prima o poi sarebbe finito in cima agli obiettivi sensibili delle bande che imperversavano in tutta la provincia.
Quell’idiota di suo figlio aveva agevolato la scalata nella top ten dei colpi “sicuri”.
Quella notte non dormì, perché prima o poi sarebbero giunti e avrebbero aperto facilmente il portone con le chiavi di R., avrebbero liberato il gas, e lui al suo risveglio non avrebbe trovato neanche i cessi del bagno.
Ogni minimo rumore lo insospettiva e gli imponeva di alzarsi da letto per controllare che non vi fosse nessuno in casa. Girava per le stanze da letto, e giungendo nella stanza di R. lo vide dormire tranquillo, digrignando come sempre, e sprofondato nel suo sonno indifferente alla perniciosa sorte che di lì a poco sarebbe capitata per causa sua.
Avvertì un senso di frustrazione e rabbia per la mancanza di condivisione del dramma, proprio da parte del suo principale responsabile.
Ma la notte trascorse senza alcun tentativo di scasso. Il padre di R. asserì che era prevedibile, che una banda di professionisti non avrebbe agito immediatamente, perché si sarebbero aspettati delle contromisure immediate che notte dopo notte sarebbero state allentate da una falsa rassicurazione.
Egli non sarebbe stato gabbato, a differenza di quello che i malfattori pensavano.
Ogni notte avrebbe vigilato per controllare l’origine di ogni minimo scostamento d’aria in casa. Ovviamente non si fidava minimamente della collaborazione di moglie e figli, soprattutto quando la causa di quell’imminente sventura era stata proprio la noncuranza di uno di questi.
Era cosciente che avrebbe dovuto compiere quell’eroico salvataggio da solo. Non dormì per giorni divenendo sempre più intrattabile e severo, intollerante e iroso.
Dopo una settimana molto complicata R. decise che avrebbe dovuto porre fine a quel tormento da lui cagionato e che si ripercuoteva sulla tenuta mentale del padre, minando la consistenza stessa della sua famiglia.
Approfittando di una passeggiata investigativa del suo vecchio, decise di agire autonomamente, per dimostrare che anche lui era in grado di fare la sua parte per tutelare l’integrità dei suoi cari.
Fece cambiare la serratura della porta di casa, in maniera tale che anche se gli scassinatori fossero giunti non avrebbero potuto utilizzare le chiavi che egli aveva incautamente dimenticato in macchina.
Si sentì soddisfatto perché per la prima volta aveva posto rimedio ad un danno gigantesco derivato dalla sua insicurezza insanabile, ed alla quale s’era ormai rassegnato. Quel gesto riparatore lo avrebbe riabilitato al severo giudizio del padre e gli avrebbe infuso la tranquillità di non essere una merda di livelli irrecuperabili.
Per la prima volta attese il ritorno del padre per giovarsi del meritato premio al coraggio.
Il padre tentò di aprire la porta di casa con le sue chiavi e non ci riuscì, così, sospettoso, suonò il campanello. R. corse ad aprire.
- Che è successo qui?
- Perché?
- Le mie chiavi non funzionano, e cos’è tutta questa polvere intorno all’uscio?
- Papà ho fatto cambiare la serratura, per stare più tranquilli. Adesso non c’è più da preoccuparsi. – Pronunciò quelle parole con insolita fierezza.
- Sei un coglione, R.
- Perché papà?
- Una volta giunti sull’uscio di casa, annusata la preda, pensi che si fermeranno dinanzi ad una contromisura così scontata? Possedere le tue chiavi, stronzo, li avrà talmente allettati che una serratura nuova non basterà a farli desistere. Scassineranno la porta, ecco che cosa faranno! E magari diventeranno anche violenti se qualcuno dovesse tentare di intervenire per via del rumore che saranno costretti a fare. Potrebbe scapparci il morto, imbecille, capisci!!! Tua madre o tuo padre potrebbero morire perché un cazzone come te ha dimenticato le chiavi di casa in macchina, e lo ha urlato ai quattro venti.
- Ma io pensavo che….
- No! Tu non devi pensare! Dov’è la vecchia serratura?
- Nel ripostiglio.
- Vai a riprenderla.
- Vuoi rimontare la vecchia serratura?
- Certo, imbecille, continueremo le ronde. Anzi, TU continuerai le ronde.
Dopo qualche giorno, la madre di R. lavando la giacca di R. vi frugò nelle tasche, e vi trovò le chiavi che si pensava fossero state trafugate dagli scassinatori.
- È un cazzone, lo sapevo io. – Sentenziò il padre di R.
sabato 2 luglio 2011
No-è
La pioggia torrenziale diventava sempre più insistente. R. controllò i materiali a sua disposizione e si rese presto conto che non avrebbe raccolto abbastanza legname per costruirsi un'arca capace di trasportare un rappresentate per ogni specie vivente del suo microcosmo.
Nemmeno una zattera monoposto, neanche un veivolo in fibra di carbonio che avrebbe consentito una docile trasvolata ai piani ammezzati del cielo, dove si preservava una fredda quiete.
Per costruire un'imbarcazione non sarebbe bastata la cartapesta ottenuta da un miscela di colla e carta straccia ricavata dalla sua immacolata biblioteca personale. Per questa ragione decise di uscire con un ombrellino del tutto inutile per i colpi trasversali e ventosi.
Tutto ciò che non vale la pena combattere, lo si aiuta ad invaderci.
Ché quell'imperfezione sarebbe risalita da un lato fino alle sue ginocchia, discesa dall'altro nei rivoli che avrebbero attraversato il suo capo e gocciolato a terra dalla fronte.
La sua casa era un brodo inquieto. Dove nottetempo fiorivano acidi nucleici elettrici.
I momenti topici sono sempre state puntine di compasso intorno a cui disegnare la circonferenza della retromarcia. Lungo la curva insistono innumerevoli centri di ristoro con offerte stracciate su cataloghi di alibi in svendita ai saldi di fine giovinezza.
- Ti va di parlarne, Alcor?
- No.
If I were afraid
I could hide
If I go insane
Please don't put your wires in my brain
mercoledì 22 dicembre 2010
Immobilità - chapter 4
Ancora una volta, in quegli occhi, si rinvenivano i tratti di un dipinto fatto di colori, adesso completo di una nuova presenza, in basso, nel lato opposto a quello in cui lui era relegato, ancora, e vi era anche quella donna, adorna di una bellezza che il tempo era riuscito a portarle via, che spasimava, triste, i suoi sguardi erano rivolti in alto.
Perché quell’incontro rispolverava vecchie immagini sepolte, che sembravano generate dalle riga del libro che aveva visto nella libreria?
Com’era fragile la resistenza illusoria che impediva alla sua coscienza d’emergere così vendicatrice dal confino in cui era stata relegata dalla vergogna.
Abbassò gli occhi ed ebbe una risposta, che forse la percezione inconscia aveva trovato già prima, ma che la sua persona non capiva, per i continui ostacoli che poneva tra sé, e la realtà che non poteva, o non voleva riconoscere, per una giusta paura.
Ecco ciò da cui un giorno era fuggito, ecco ciò che lui spiava alle sue spalle nel dipinto, per ingannare se stesso e la sua solitudine.
Mai più s’era voltato, dopo l’ultima volta, ad ammirare un mondo ricamato d’armoniose tinte celesti a cui aveva dato tanto, ma da cui non accettava nulla, nemmeno parole che dovevano incoraggiarlo a non spiare più oltre le sue spalle, ma a lasciarsi abbracciare dalla vita.
Lui fu capace solo di disprezzo, per timore di se stesso o per orgoglio, o per incapacità.
Mai l’aveva rimpianto.
In piccoli istanti che avevano la forza di centinaia cristalli di ghiaccio pioventi, sembrarono tornare a vivere due figure strette nel freddo, che nel gelo del passato erano rimaste scolpite, sotto i riflessi di una luna estranea che zampillavano sul lenzuolo di quel fiume, che entrambi solcarono su di un rumoroso battello, e che lei, quella donna non più ignota, coprì di gemiti silenziosi, gocce di un sibilo eterno, emesso dall’indimenticabile volto dei rimpianti, che diventava forse sincero con le sue illusioni, sapendo che quei momenti sarebbero rimasti lì, perle incastonate di quella notte lontanissima, che adesso, in quel viale immerso nell’inverno misterioso, stava ricominciando per loro, per altri deboli istanti ancora.
Lui le volle bene, semplicemente come emblema di ciò che anche lui avrebbe voluto essere, con la consapevolezza che sarebbe stato impossibile diventarlo. Rideva, rideva, il giovane professore, quando lei sosteneva che sarebbe stato un’amicizia eterna, un legame lungo più dell’età, lo diceva nei pochi momenti in cui sembrava che ciò fosse davvero realizzabile.
Ma lui conosceva l’orda distruttrice del tempo.
L’ultima volta che s’erano visti, mentre lei lo salutava con un “arrivederci” pur sapendo che ciò sarebbe avvenuto chissà quando, dopo un commiato che sapeva tanto d’addio, lui, consapevole la lasciò, annunciandole che se il destino li avesse fatti rincontrare, lei non l’avrebbe nemmeno riconosciuto.
Il tempo, li avrebbe uccisi entrambi, trasformandoli da come essi si ricordavano di essere.
Si era voltato, dopo che ebbe pronunciato quelle parole, nascondendo nella voce le lacrime che le spalle occultavano.
In tutti quegli anni, una volta sola, senti il bisogno di comunicare con lei, le scrisse così una lettera dove le rivelava dove viveva, dove insegnava, e che era felice, soddisfatto, menzogne che dovevano illudere entrambi.
Adesso quella lettera era posata di nuovo dinanzi a lui, ad esigere il fio per quelle menzogne, di cui s’era fatta messaggera anni addietro.
Lei, era madre, doveva esser anche moglie, ed era lì. Forse non l’aveva riconosciuto.
Forse per caso era lì, a confondere una realtà colma di finzioni, forse per condurlo, come un tempo, verso la vita, tendendogli quel nastro salvifico, nonostante anche lei sembrava giacere in basso adesso, nel dipinto dell’esistenza, anche lei vittima della speranza, una speranza di cui da giovane parlava con ardore, ma di cui ora non ne comprendeva più né il linguaggio né tanto meno le promesse.
Ed era triste, come in verità era sempre stata, in quell’ultimo attimo che il destino offriva loro.
La donna salutò l’estraneo con cordialità, per sempre, ma i ricordi non seppero più allontanarsi con lei.
Lui non rispose al saluto, si voltò di spalle, quasi rannicchiato su se stesso e i suoi occhi la spiavano allontanarsi nell’infinito, che forse lei aveva ancora volontà di conoscere. Che cosa sentiva di poter meritare da lei? Nulla, come nulla meritava quando erano entrambi ragazzi, quando lei gli sedeva accanto, e dal nulla gli diceva di volergli bene. Lui non le credeva. Non avrebbe mai creduto a nessuno che avesse mai detto di volergli bene, non avrebbe creduto ai sentimenti di nessuno nei suoi confronti, neppure se questi si potessero toccare, vedere, assaporare, e godersene fino in fondo.
Eppure lei pensava ancora che ci potesse essere qualche via di salvezza, perché? No. Non poteva essere così. Ma se invece lo fosse? Come avrebbe potuto non riconoscerlo?
E se invece fosse stato lui a non voler essere riconosciuto? Perché sempre egli aveva agito come credeva, e lei sempre aveva rispettato ogni cosa, pur soffrendo un terribile distacco che i suoi sentimenti non meritavano. E forse anche questa volta, questa ultima volta, è stata come sempre la stessa cosa, e lei, e lui, avrebbero accettato e patito allo stesso modo, senza pensare che fosse possibile cambiare il corso della storia di entrambi.
Pur ferito come da una lamina rovente, il professore che fino a quel pomeriggio uggioso credeva d’aver vinto, soffriva, per non essere mai stato anonimo al mondo come invece s’era illuso di essere,
Colui che lei cercava, esisteva ancora? Non l’avrebbe mai più saputo, perché era svanito con lei, nei ricordi, nei sensi di colpa, e nelle attese di quella donna.
Come le disse quel giorno, è stato poi per davvero.
In ogni caso, riconobbe che quella era l’ultima punizione che s’era inferto, sapeva che non avrebbe nemmeno meritato che lei lo riconoscesse, la vita lo puniva, esimendolo da quei sentimenti che lui non volle conoscere e che stimava troppo poca cosa per estinguere la colpa di esistere. E lui stesso era conscio di non aver mai vissuto, mai però la vita gli era passata tanto vicina, quanto in quel momento, offrendosi come ultima scorciatoia per rifiorire, dimenticando le macchie di un passato fin troppo mescolato al presente, denso di vergogna, e lui, quella vita, l’aveva lasciala andare oltre, senza catturarla.
Avrebbe continuato, nel disgusto di un copione che sembrava recitare identico ogni attimo, da sempre. Sarebbe tornato a casa, come se nulla fosse accaduto. Pronto a ricostruire quel fragile equilibrio di sopravvivenza, sospeso tra i due estremi di ricordo e speranza, ma che non avesse nulla né dell’uno né dell’altra, solo, murato vivo dal presente.
L’indomani avrebbe riscoperto il viale che s’affacciava sulla valle, avrebbe riassaporato le scene delle sue remote origini, si sarebbe recato nella libreria. L’avrebbe fatto soltanto con un indelebile rimorso in più da nascondere nella sua invecchiata marmorea espressione, e si sarebbe ancora di più ingannato dicendo, che in fondo, era quanto meritava, la sua colpa.
I monti pacati erano ancora prede del buio, le piccole luci tremanti come stelle in agonia cadute e stesesi al suolo, al freddo, sonnecchiavano appena.
I picchi lontani sarebbero rinati all’aurora, quando la mattina avrebbe ridipinto ogni cosa identica a come s’era assopita al tramonto, per un altro giorno in più, con nuovi sgualciti ricordi da riporre con cura negli stipi serrati, e una strada da percorrere al pomeriggio.
Sarebbe rinato identico il mondo anche per lui, che poteva solo immaginare da qualche parte oltre le colline, l’umanità vera e lontana che stesse brindando alla vita, nonostante non riuscisse a non credere, che nei preziosi calici che l’esistenza generosamente offriva nel meraviglioso convito, non ci fosse altro che nulla.
[the end]
lunedì 20 dicembre 2010
Immobilità - chapter 3
- Mi scusi - esordì la donna con voce ansiosa, abbassando celermente il finestrino della sua vettura, mentre accostava nervosamente ai margini del marciapiede. - Sa dirmi la strada per raggiungere la stazione? -
Il professore percepì quelle parole pronunciate velocemente, con un tono molto strano o camuffato, come se fossero usate per nascondere delle menzogne senza avere la capacità di mentire, anche se lei lo faceva con molta innocenza e paura, come una bambina che si rivolgeva con ingenuo inganno ai genitori.
Ebbe subito la sensazione che la donna avesse più anni di quelli che dimostrava.
La pausa che seguì la precisa richiesta fu interpretata dalla donna come dovuta alla raccolta delle informazioni necessarie ad esaudirla. Invece il professore restava a fissare qualcosa che aveva catturato la sua tensione, che si agitava alle spalle della signora, un giovinetto che al massimo avrebbe potuto avere quattro anni dallo sguardo severo e beffardo allo stesso tempo, scurissimo di capelli, che si dimenava forse per impazienza di un viaggiotroppo lungo come evidentemente le valigie ammassate rivelavano.
Quasi basito nello scrutare il volto di quel fanciullo dall’aria euforica, ma stranamente familiare, continuava a tacere.
- Perdonatemi signore, ma... - irruppe spazientita la madre di questi come per mettere ordine a quelle circostanze e pensieri che s’erano affastellati di colpo nella mente del professor R., esibendo tutta l’ansia che provava e che non riusciva camuffare.
Egli rinvenne confuso e indicò lentamente il percorso osservando la strada che avrebbe dovuto attraversare, come se stesse scoprendo quella via adesso per la prima volta.
La donna prestava attenzione, ma la sua aria non convinse il professore che dopo aver indicato la strada, indugiò in silenzio, non scorgendo nessun segnale d’appagamento in quel volto, che sembrava avere nel buio una collocazione naturale e spontanea come quella della luna o delle stelle. Forse il professore si aspettava ancora qualcosa, qualcosa d’insolito che non tardò ad arrivare.
- Mi scusi ancora, è lontano il liceo... - mentre cercava di ricordare qualcosa che le sfuggiva, prese un foglio molto stropicciato, che dimostrava d’essere stato letto chissà quante volte, dalla sua borsa e, leggendo tra quelle righe, sembrò calmarsi lentamente come il vento che s’intorpidiva sul mare. - ... il liceo classico “C. Pavese” ?
Il professore sibilò soffocato e incredulo; ebbe un evidente sobbalzo, come se avesse ricevuto un poderoso pugno nello stomaco, al sentir pronunciare il nome dell’istituto dove aveva insegnato per circa quattro anni e che da tre ormai era scomparso nell’attesa di essere riedificato dopo il terremoto che lo aveva distrutto. Un imprevedibile tuffo nel suo imminente passato, che per la prima volta gli si parava dinanzi, l’ultimo dei suoi rimpianti veniva così sobriamente evocato, mentre spalancava senza pietà il cancello da cui un torrente di rimorsi sconfinò nella coscienza, ed un tifone di rabbiosa afflizione eruppe violentemente straripando ovunque.
Si sentiva avulso da quanto accadeva in quel momento, isolato da tutto, senza significato, incomprensibile, ove la notte assurgeva a nido incombente da cui partoriva ogni illuminazione insensata e senza vita, ove trionfava mostruosamente l’espressione di quel bambino che continuava ad agitarsi, che si muoveva sempre più avidamente, sempre più rideva come se si stesse dilettando a vederlo travolto in quel vorticoso tumulto di follia, come fosse proprio quel moccioso a manovrare la sua coscienza a lungo immota, adesso strapazzata come una pagina nivea, mai scritta, in preda alla bufera.
- Si sente bene? Ha bisogno d’aiuto? - la donna si rese conto che il professore ebbe uno strano mancamento e sudava parecchio, e mentre s’affrettava ad uscire dal veicolo per aiutarlo, il professore si riebbe immediatamente e con un cenno, seguito da un rassicurante sorriso, respinse cordialmente l’assistenza della signora, per ricomporsi immediatamente.
- La scuola, è chiusa...è crollata tre anni fa... il terremoto… - emise quelle parole sciorinando in esse lo spirito dei ricordi angosciosi legati a quell’evento, vittima com’era di quell’inspiegabile confusione.
Qualcosa non andava, era evidente, come se qualcosa che lì si trovasse non doveva esserci affatto adesso, come se appartenesse ad un altro tempo, ad un altro mondo, e fosse lì a sconvolgere il suo, coinvolgendolo in quello sconcerto. Era forse il bambino? Ma cos’era, un diavolo nei panni di quel moccioso fremente?
- Peccato... mi dispiace, davvero - sospirò una delusione che dissipò tutta l’ansia accumulata, il che poteva indurre a pensare che alla donna la stazione non importasse granché, o non abbastanza quanto la scuola. Si sentì in diritto di sapere.
- Posso sapere, perdonatemi, perché cercavate l’istituto? - provò in ogni modo a non tradire un interesse personale nella sua domanda, per farsi sentire, e sentirsi, del tutto estraneo alla faccenda.
- No, niente, ci tenevo a salutare una persona che……Giuseppe! Basta! - urlò rivolta contro il birbante alle sue spalle, con un’energia ed uno sdegno di cui non la si sarebbe ritenuta capace. C’erano stati attimi in cui quel ragazzino aveva arrecato disturbi maggiori, e la madre l’aveva ignorato, forse perché fin troppo assorta in un pensiero dal quale ora restava svuotata dalla delusione, o forse il disturbo era solo un fastidio che quel bambino arrecava con la sua semplice vitale presenza, tanto difforme dal clima torbido che si stava vivendo. La donna, scaraventò sul sedile accanto al suo il vecchio foglio che non aveva mai posato fin da quando lo trasse fiori la prima volta, e le sue parole divennero traboccanti di tristezza.
Tutto, era triste, in quella donna.
Quei sospiri d’ansia, le mani, piccole piccole, che poggiavano sul duro volante, l’aria stanca sul viso tondo e delicato dalla pelle chiarissima, quei lineamenti che sembravano carpiti da una statua effigiante una qualche divinità greca, e tanto più s’avvertiva quest’impressione di tristezza, quando stringeva le docili labbra in un disappunto arrendevole che, nel poter accarezzare quel viso, avrebbe reso tangibile a chiunque quella tenerezza. Poi... gli occhi, erano tristissimi, le pupille muovevano lentamente mentre offrivano a chi adesso le fissava, una luce fatta di gratitudine e perdono, come se si fossero misteriosamente accorte del disagio che il professore stava provando, e lo condividevano. Quasi ne conoscessero persino i motivi, finanche fossero andati a scrutare nell’anfratto più depresso per apprendere un segreto, che adesso tenevano esposto tra le palpebre, in un’espressione di pietà e di conforto, e volessero dirgli “Non temere, il tuo mistero morirà in me ad un batter di ciglia”.
I suoi occhi erano talmente lontani da lei, come se fossero appartenuti ad un’altra espressione, forse di una vita che giaceva sepolta in un qualunque angolo di lei stessa, che sopravviveva agli anni, e che il professore sentiva tanto vicino alla sua intimità molto più di quanto non fosse la persona che gli era di fronte.
Improvvisamente il professore si sentì tradito senza capire da cosa o da chi.
Dove aveva già ravvisato quelle sensazioni d’oltraggio, che demolivano in un istante la sua falsa e malferma perspicuità?
[to be continued...]
domenica 19 dicembre 2010
Immobilità - chapter 2
- Ah! Buonasera professor R., come mai da queste parti? - si fece avanti un vecchio dall’aria gracile e attenta, che sembrava conoscere davvero bene il professore, giacché quella sua piccola libreria era uno dei pochi luoghi che a questi non dispiacevano affatto.
Il professore difficilmente avrebbe definito amico quell’ometto, dal volto contrassegnato da un tempo che sembrava averlo incoraggiato a calcare affannosamente gli anni per raccogliere i frutti di quelle promesse ancora senza risposta. Sembrava non aver avuto tregue, ma anche di non essersi mai arreso; anziano e piegato, di certo era una di quelle poche persone che incontravano il professore con piacere, con cui talvolta aveva trascorso lunghi e piacevoli pomeriggi nella libreria. Dal suo canto, il libraio aveva da subito inteso che nell’austera figura dal fiero portamento, fosse celata una personalità del professor R. invverità sempre percepibile sul suo volto, ma che pochi riuscivano a cogliere, in quello sguardovgenuino e timido, diffidente per paura; i suoi occhi emanavano lo sfavillio di un bambino chevnon aveva mai conosciuto l’infanzia e che si era sforzato di cercarla in ogni momento, per poivriscoprirla ogni volta diversa.
Passava da quelle parti e vedendo la libreria ancora aperta aveva pensato di affacciarsi evsalutarlo. Caricava la sua voce di un senso di devozione, come sempre faceva nei confrontivdel vecchio, da qualche tempo relegato nella solitudine della sua attività, che questi rimasevcommosso al punto che, se anche il professore fosse andato via senza comprar niente, sarebbevstato in ogni modo contento per l’importanza che qualcuno finalmente sembravavriconoscergli.
- Ah! Se non fosse per quei pochi che sanno ancora come si sfogliano quattro pagine,vpotrebbero anche chiudere tutte le librerie e le biblioteche! Comincio a credere che oggigiorno non resti che la miseria per quelli come me... tutta colpa del... - mentre questi seguitava a parlare senza prendere fiato, professando una lunga serie d’invettive in un linguaggio quasi ancestrale, il professore gironzolava tra gli scaffali della libreria, che in verità, tra i suoi casellari annoverava più polvere che libri.
Seppure il suo studio fosse colmo quasi quanto quel mercato della cultura avrebbe dovuto essere, il professore indugiava ancora tra i titoli che vi erano esposti, annuendo ogni tanto con un incoraggiante sorriso verso l’anziano che proseguiva il suo monologo con vera passione, gesticolando e imprecando.
Ad un tratto, lo sguardo che per un po’ sembrava aver cercato senza sapere cosa esattamente volesse trovare, si arenò in un indeterminato istante su un volume dalla copertina azzurrina, e vi rimase ad esaminano rigirandolo tra le mai.
- Ehi figliolo, cosa hai trovato di tanto interessante? Eh, eh, possibile che ci sia ancora qualcosa qui dentro che tu non conosca già? Fa vedere. Come?! Non dirmi che non lo conosci! - Esclamò il buffo libraio sbalordito, mentre si avvicinava zoppicando appena, sotto il peso dell’esperienza. S’affrettò ad interrompere il suo sopraggiungere inveente prima che si evolvesse in un’interminabile recitazione di notizie circa quel libro. Restò per qualche minuto immobile con quel volume tra le mani, ne sfogliava avidamente alcune tra le prime pagine, ma dalla direzione lontana del suo sguardo, sembrava che stesse sfogliando l’agenda dei ricordi, che in un certo senso, la vista di quel titolo aveva destato da un sonno a lungo cercato.
Non ebbe il tempo di pensare, neanche in seguito, come mai quel volume l’avesse cosè stranamente colto, non trovava alcun nesso tra quel titolo e ciò che sembrava animarsi nel suo inconscio. Capitavano spesso quegli improvvisi scivoloni della mente in vie mai considerate, a causa della parziale inerzia nella quale i suoi pensieri preferivano scorrazzare senza logica, piuttosto che rassegnarsi all’inattesa e amara inoperosità di quell’età, matura benché ancora inconcludente.
Preso da quell’emozione, decise di riporre il libro al suo posto e di tornarsene subito a casa, per evitare che la sua mente approdasse laddove avrebbe volentieri posto confini invalicabili per la coscienza, temendo il riaffiorare di una memoria tutt’altro che dolce, che appesantisse oltremodo il senso della sconfitta, che in silenzio coagulava in fondo alla sua pallida parvenza d’impassibilità.
La valle giaceva totalmente coperta dall’oscuro abito di velluto che la sera aveva indossato, piccole luci tremavano in lontananza, come lucciole impaurite che avevano di colpo perduto la via in quel pozzo di tenebre; la fievole luce dei lampioni illuminava l’aria fitta d’umidità, accerchiando le lampade di un alone di bianco sbiadito, cosicché la via pareva costeggiata da una lunga fila di spettri che si dissolveva nel buio indistinto.
Un brivido strano lo scosse, come una fuga d’emotività che evadesse dalle rigide gabbie silenziose di quelle giornate che trascinava con sé, impedendo a qualsiasi rimpianto di riproporsi sulla scena del presente. Tante volte aveva temuto la minaccia di timidi ripensamenti che avrebbero potuto minare quell’artificioso equilibrio, ma il tempo, la consuetudine e l’indifferenza riuscirono ad isolare i suoi timori. Adesso però, come blocchi ghiacciati che emergono dalle acque allo sgretolarsi della banchisa, quei pensieri stavano tornando a galla di prepotenza. La sua esistenza, ormai, aveva perso del tutto quel gusto d’imprevedibilità, tanto che sarebbe stato vulnerabile a qualsiasi insolito capovolgersi di circostanze; i suoi attimi si susseguivano sempre identici come freddi binari di un treno immersi in un soffio di tedio dal quale cercavano tregua, senza voltarsi, ad occhi chiusi, senza scopo, senza un forse.
C’erano stati giorni, dove l’abitudine era solamente la cornice esile di un dipinto del quale avrebbe chissà quanto voluto essere sia l’artista sia il soggetto ritratto; i temi che vi raffigurava, erano trame intrecciate tra loro, da cui talvolta spiccava qualcuna che s’allontanava, per rintanarsi in un angolo in basso, dove l’artista avrebbe posto la sua firma, il sigillo che racchiude nelle forme a lui più gradite, sentimenti ed anime senza voce. Nulla lo spingeva laggiù, anzi spesso, un ricamo d’armoniose tinte celesti scendeva, forse per sollevano e trascinarlo via, ma non poteva vincere quei toni scuri che allora s’incupivano ancora, occludendo ogni volta quella speranza.
Una schiena ricurva, rannicchiata su se stessa, abbandonata in un angolo di un’enorme scatola, vuota, dimentica, e le pupille rivolte laddove era quanto lui disertava.
Ciononostante, in un tempo o nell’altro ancora, anche per lui poteva esserci stato altro, oltre l’illusione, e quel libro n’aveva ridestato il gemito sepolto, in fondo al ruscello mite dei ricordi, ed una nostalgia diversa prese a comprimergli il fiato. Forse, proprio per questo adesso si trovava in città, conduceva una vita regolare scandita come dai battiti di un orologio il cui pendolo oscillava nel vuoto, per non badare a quella notte priva di luna che s’addensava nel suo intimo.
All’improvviso, qualcosa interruppe la sua assenza, un lampo di realtà lo rapì per un momento inconsapevole e popolò i suoi visionari pensieri di nuove presenze, che quel corpo senza coscienza incontrava lungo il cammino.
Un’auto di piccole dimensioni procedeva lentamente verso di lui, pareva che avesse bisogno d’aiuto, tuttavia, scosso com’era, il professore sembrò ignorare in un primo momento l’automobile che s’avvicinava, poi attese che questa si facesse più prossima. Prima che il mezzo si fosse fermato, riuscì a distinguere una donna alla guida; probabilmente estranea a quei luoghi.
[to be continued...]
venerdì 17 dicembre 2010
Immobilità - chapter 1
I tranquilli passi incontravano la strada bagnata e sembravano non risentire affatto della solitudine con cui percorrevano il solito tragitto che riempiva quei vuoti pomeriggi, traghettando il tempo fino alla tiepida luce della prima sera.
Scorgeva quel sole introverso cedere lentamente il dominio della via, come se fosse svogliato nel tornare padrone per quei pochi minuti, che di lì a poco avrebbero annunciato l’arrivo del vespro, oppure, come se avesse paura di schiarire un cielo scialbo e velato, ignorato per tutto quel giorno, del quale si vergognava a raccogliere le ultime briciole, lasciando che l’ombra trionfante limitasse la vista, impedendole di smarrirsi e giungere laddove un cielo più azzurro si tuffava alle spalle dell’orizzonte incolore, oltre le colline argentate che cingevano la valle, coronandola di cime levigate e dalle semplici fattezze.
D’estate, la valle che stava volgendo in punta di piedi al crepuscolo, si diffondeva di colori e profumi che si stentavano a ricordare nella landa grigia che si stagliava ora dinanzi, dove fragili banchi di foschia si dissolvevano, spandendo qua e là un senso di sterminata stanchezza, il desiderio di un riposo che nulla avrebbe dovuto violare e impedire, mentre si dileguava ogni istante un’eco remota dei giorni lieti fra i bassi picchi dei colli, sempre più vicini alla notte, sempre più lontani.
In una confusione di malinconia e ammirazione, poggiava le sue braccia affacciandosi al muretto oltre il quale si poteva scorgere quella piccola immensità, mentre le prime luci della strada s’accendevano pigre. Sapeva che quella sera sarebbe durata più a lungo e che avrebbe volentieri ritardato il suo rientro a casa.
Dalla piazza del centro proveniva ancora il frastuono delle automobili immerse nel traffico serale, e il vocio dei passanti, che pullulavano vispi attraverso le vie avrebbe riempito i marciapiedi finché l’orologio non avrebbe rispedito ognuno a compiacersi dei sapori della cena, o forse ad agghiacciarsi dinanzi la televisione.
Da quando aveva smesso di lavorare, egli evitava di percorrere quelle strade colme di persone, tanto che il viale costellato da pozzanghere, che s’ergeva sul fianco del colle su cui era adagiata la cittadina, era per lui quanto di più caro e insostituibile la giornata potesse offrirgli; ogni attimo trascorso lungo quella strada era una finestra aperta alla memoria del suo paese, e la nostalgia, quantunque non lo visitasse mai, poteva incontrarlo unicamente in quel luogo, in cui ugualmente non avrebbe mai avuto alcuna possibilità di rivalsa.
Non poteva essere certo un senso d’insopportabile nostalgia per delle radici di cui mai s’era sentito germoglio sano e felice a rendere pavido il suo incedere quotidiano lungo quel mirabile belvedere che l’ospitava, ma nei sospiri che la terra acerba d’autunno emetteva, sembrava arenarsi ancora più saldamente quel vivo sentore intrinseco di disfatta, per una fuga senza movente che all’improvviso s’era arrestata, dopo un incauto peregrinare che avrebbe dovuto dare un’anima ai suoi giorni, ai suoi sollievi, che avrebbe dovuto comporre il volto della speranza e di una presenza delle quali essere artefice.
Ancora non era riuscito a capire, ancora sentiva di dover tornare a cercare, senza che le ombre e le tentazioni di disperati e umilianti ritorni potessero capovolgere il suo irrequieto intento di conquista. Ma in quella conquista s’era smarrito da tempo, E tra quella cinta di colli si spegneva la sua nebbia, il dubbio che l’aveva spinto ad andare, che ora s’indeboliva in quelle che non erano crude certezze, ma indefinite benché tangibili prigioni concentriche incatenanti e infiacchite dal tempo, del quale mestamente egli tutto ora accettava, e quella stanchezza irresoluta, e quella sua inefficacia, e il suo silenzio, l’avevano vinto.
La valle era adesso sgombra dai suoni e dai sapori del temporale che s’andava sfogando lontano, le piccole botteghe del quartiere del borgo antico s’accingevano a salutare quel giorno che si disponeva a tacere. Soltanto la vecchia libreria era ancora aperta, aspettando la sua quotidiana razione di soddisfazioni, che quel giorno non le aveva ancora portato.
Non appena giunse nei pressi dell’entrata e ne varcava la soglia, un docile motivo dai precipitati lamentosi disegnava i contorni di un piccolo ambiente rosicchiato dall’umido, ad accoglierlo era come sempre un’affettuosa voce familiare, destata da un’inattesa fiducia, pregustante la possibilità che finalmente sarebbe potuto entrare qualcos’altro, oltre al cliente.
[to be continued...]
sabato 27 novembre 2010
Saturday Night fever
Si tratta del terzo sabato sera consecutivo che trascorro a lavorare. Non che me ne sia fottuto mai una mazza della collocazione delle mie esigenze in una convenzionale casella del calendario.
Anzi, una volta mi è capitato di leggere un proclama emanato da una delle menti più sottili che mi sia mai capitato di incontrare, che proponeva una petizione a favore dell'abolizione del culto del sabato sera.
Io il sabato non mi faccio la barba e non cambio cappotto. Ma continuo a chiedermi se non fosse più sano tentare di guadagnarmi un ruolo standardizzato stile ragioniere anni '50, con gli orari predeterminati ed un salario che non riserva sorprese di nessun verso vettoriale.
Le toppe ai gomiti, il fordismo da ufficio, i mocassini, i furti d'ombrello e il pandoro aziendale.
La cervicale.
Ozio programmato con cui acconciare le tesi idonee ad essere confezione ad arte e consegnate nelle improvvide menti che bussano alla ricerca di comprensione e pietà.
La normalità è una santa e dignitosa conquista all'interno della quale preservare un'integrale unicità. Per questa ragione mi sta bene anche trottorellare senza tregua e senza trincee.
Senza sosta, come una particella di sodio nella vescica di un vecchio incontinente.
venerdì 8 ottobre 2010
Back upping life
Dopo tanto tempo. E tornarono a chiamarlo prof.
Quando non occorreva più nemmeno la barba a sancire il lasso di tempo speso ad esistere formalmente.
Quella stazione offriva cubature abitative senza feritoie in cielo, che mietevano presto il mattino autunnale. Da lì erano state sigarette ansiose, valigie zoppe e sformate, e tramezzini col tonno e salmone.
Cimeli jacopini verso un hub delle ambizioni proteso verso vasti bacini di tetti stranieri, loggie di speranza larghe quanto le pazienti cosce di una puttana. Dove sembrava possibile sistemare i mattoncini e le intercapedini in modo tale da produrre una discreta coerenza cogli insegnamenti pagati caramente ai refrattari depositati ai bordi del binario di partenza.
Ogni tanto si scorge qualche fumo lontano dalle balaustre del porticciolo, e gli ultimi ciuffi della coda montuosa tra le cui estremità è narrata con dovizia tutta l'epica di un distacco.
Che come un faro stanco, affanna la sua rotazione intorno all'asse del proprio coraggio. Mansueta e ubbidiente luce esso posa sulle rotte tracciate da chiglie più affilate.
Dà l'idea di poter passare, di dover smettere, e mi scova ancora.
venerdì 23 ottobre 2009
La corsa al seggio
Gli scrutatori boccheggiavano alla fame e alla noia. Qualcuno riempiva i propri polmoni di fuliggine.
Il presidente aveva mangiato involtini di melanzane con mortadella e formaggio, era già al quinto caffè, ma non c'era verso: la stitichezza non sembrava avvertire le inondazioni di grappa e bicarbonato.
Qualcuno inveiva sullo spreco di denaro in manifesti, qualcun altro poneva in risalto la contraddizione insanabile del nostro secolo: definirsi democratici ed eleggere assemblee con le liste bloccate.
Si chiudeva un occhio sui troppi fac-simile che riempivano il seggio.
Il dibattito più acceso si concentrava sulla possibilità di attendere il termine della funzione in chiesa madre, per consentire ai cattolici di poter esercitare il proprio diritto, in conformità al Patto Gentiloni del 1913.
Qualcuno, accigliato, controllava il quadrante del proprio orologio con il cinturino di pelle nera, sfoderandolo sotto l'orlo del proprio maglioncino verde padano. Qualcun altro tardava ad arrivare, facendo aggravare a suo carico il macigno delle accuse di disimpegno.
La troppa gente ad osservare, e la mancanza di una serratura alla porta del bagno rappresentavano per il presidente minacce che stimolavano ulteriormente il suo desiderio di sbrigarsi.
E fu così che i tanto paventati brogli, e un'insperata avvisaglia di brusco risveglio del suo retto, rimpinguarono la solerzia con cui contava e ricontava i nomi apposti nell'albo degli elettori.
Ma lo scrutinio incombeva in tutta la sua sconcertante lentezza.
- Che cazzo di fine hai fatto? Non hai ancora votato! - contestò un astante ad un baffuto signorotto appena giunto.
- Perdonami, ho dovuto dormire. Stanotte non ho chiuso occhio. S. mi ha telefonato alle 3.00 di notte per farmi precipitare a casa sua ad uccidere un ragno formato King Kong che si annidava nella doccia. Queste son cose che destabilizzano.
Pochi minuti alle 20.00. Lo scrutinio era alle porte. E finalmente il presidente dichiarò concluse le operazioni di voto, destando le nevrosi dei candidati, e mobilitando i sederi degli scrutatori che si scossero sui lignei sedili.
In quel momento egli avvertì una spruzzata di acido gastrico e un tonfo in fondo all'addome. Il momento sembrava essere finalmente giunto.
All'atto della chiusura del voto per le primarie, il suo intestino rimboschito di enterogermina aveva lanciato il sengnale: stitichezza interrotta, il tempo della leggerezza dell'essere poteva compiersi secondo le scritture.
Incurante della natura del miracolo, se fosse stato chimico farmacologico, o adrenalinico per l'alta responsabilità di dover dirigere il contributo di duecento individui alla causa congressuale del partito, poco importanva.
Di certo una sola cosa agitava la sua mente, e la sua pancia: la breccia che si era spalancata nel suo intimo mistero doloroso.
Una scheda dopo l'altra... e benedette furono le liste bloccate così parche nel richiedere zelanti verifiche! L'attimo del bing bang era preceduto da fughe benigne che egli tendeva a rendere il meno percettibili possibili, sebbene avrebbe voluto giubilare come un volpino festante dinanzi al padrone che mostra il guinzaglio per la passeggiata urinatoria.
Nessuna protesta, la conta dei voti galoppava a ritmo felino. Gli altri segnavano, smorfiosi, a volte stupiti, in ultimo sospettosi.
Qualcuno aveva preso una decina di voti non previsti. E gli occhi correvano alla ricerca di qualche ghigno rivelatore del franco tiratore da mettere alla berlina.
Ma il presidente non temeva. L'uscita del tunnel si faceva più chiara. E mancava poco, solo le firme sui registi, affidando a qualcun altro il compito di inviare il messaggio alla federazione provinciale sull'esito delle urne democraticamente protette.
Perché a lui non interessava commentare, a lui premeva l'ansia e l'impazienza della sua libertà.
Si fiondò via.
Raggiunse la sua abitazione a piano terra. La moglie gli chiese se necessitava della sua solita tisana, ma lui rifiutò gaudente dicendo che quella sera, finalmente, non ne avrebbe avuto bisogno.
Ecco il suo seggio. La tazza a forma di conchiglia adriatica era pronto ad accoglierlo come un padre che perdona il figliol prodigo, o il culo avaro.
Si calò le brache avvertendo già il count-down di Houston.
Si sedette, sospirando, e poi gemendo, strizzando gli occhi e mettendo in tensione ogni nervo del suo corpo, pronto per sganciare...
Ancora qualche istante di tensione per rendere più glorioso il momento...
Ancora un attimo...
Dai, che ce la puoi fare... il bidet sarà il palliativo di ristoro dopo tanta corsa...
Uno sforzo...
Un altro...
Niente. Il suo ano non produsse nulla.
Guardava consternatamente in mezzo alle sue gambe il fondo del gabinetto immune da ogni traccia di cacca.
E allentò tutto nell'ennesima, sciocca pisciata in femminile posa.
Tirò lo sciacquone e si riallacciò con dignità la cinta. La vergogna si riparò alle spalle del nodo alla cravatta che strinse con vigore e fierezza.
Non bevette la tisana della moglie obesa. Spense la TV che parlava delle centinaia di migliaia di votanti al congresso.
Andò a dormire come ogni sera, tra stitiche nevrosi ed emorroidi.
mercoledì 3 giugno 2009
Il Sorpasso
Per questa ragione dobbiamo affrontare con lucidità la complessità e le articolazioni del mondo intorno a noi, indirizzare i processi mediante un protagonismo ritrovato della politica. Combattere senza ipocrisie coloro che parlano in maniera superficiale direttamente alla pancia delle persone.
Fermo restante che, da quel che emerge con le candidature di veline e sciacquette, non si parla più nemmeno alla pancia della gente.
Ora si scava nelle frustrazione più recondite dell'animo umano.
Si parla direttamente al cazzo delle persone..."
Finisce l'assemblea. L'uditorio si spopola tra qualche risata, i cellulari si riaccendono, qualcun altro resta ancora per sistemare le sedie, spegnere i microfoni.
Accende una sigaretta, strappa i foglietti su cui aveva frettolosamente appuntato qualche battuta, e guarda il telefono. Nessuno.
Stringe una mano ed elenca le prossime disponibilità, le prossime volte. Prima della partenza, quando calerà un massiccio spot con la scritta "Intervallo" su tutta la sua esistenza.
Sua madre è in ansia per le notizie che giungono dalla caduta del volo Air France. "Tranquilla, stai tranquilla", le diceva. Statisticamente me la sono scampata, anche se fa un certo effetto.
Be' in ogni caso ci potrebbe essere la soddisfazione di vedersi intitolata la federazione provinciale, non è mica roba da buttare.
- Vieni con noi?
- Aspetta. Forse vale la pena che io vada a salutare una persona...
Le si avvicina. Non è molto cambiata, in effetti. Non deve accarezzarla, è una questione di regolamentazione della vita umana. Un gioco di barriere all'entrata, come sempre.
- Come stai?
- Bene. Che fine hai fatto? Sei schivo.
- Conseguenze.
- Vedo che dopo tutto questo tempo la tua carriera ha fatto progressi. Io lo dicevo sempre.
- La meglio gioventù. Era splendido parlare con te, anche di tutto questo. Ho continuato da solo.
- Sei contento di tutto questo?
- Direi di sì, darling.
- Lo sapevo.
- Io non lo sapevo. Ora? Che ne pensi?
- Sinistra. Un po' più in là di te.
- Davvero?
- Sì.
- Perché?
- Sono delusa.
- Ah...
- Ma che fai?
- Me ne vado.
- Perché?
- Fammi un favore: non mi guardare neppure.
Il bar era la solita meta; pioveva. La tenda prendeva solo metà del tavolo con le gambe di vimini. Una chiamata. Chiuso. Spento.
Ordinava un Montenegro e depennava, da un foglio piegato in otto, impegni ottemperati ed altri indesiderati.
Giunto il cameriere con il suo bicchiere, lo guarda dal di sotto del mento.
- Lo sai, è come essere guardato. Non sei del tutto solo. Non vuol dire essere controllato, o schiavizzato, la libertà c'è, è protetta, esaltata. Esiste, però, una specie di ringhiera che accompagna la tua strada. Ragazzo, qualche volta i talloni si gonfiano. Nonostante tu abbia i polpacci pesanti, e lì che devi appoggiarti. Non puoi fare altro.
La vedi quella persona? Posso invitarla a bere qualcosa con me, farla attigere alla ciotola dei miei arachidi e poi farmi sorridere. Credi che in quei momenti io sia rimasto mai solo con quella persona lì? No, mai stato.
C'è un abbraccio verso il quale, con l'andare del tempo, non avverti più una nostalgia che si diluisce nelle incombenze del tempo. Resta un'autentica impronta alla quale ti abbandoni inconsapevolmente, alla quale cingi a rimorchio il decorso dei giorni. Alla quale affidi senza volerlo il transito pigro e la maniera con cui deviare gli ostacoli.
Come una risposta nascosta che fa deviare la decisione sospesa tra due diverse ed eguali opzioni. Pesa pochissimo, come una piuma di rondine.
Ma è quel soffio minimo, alla fine, che ti fa pendere un piatto da un lato anziché da un altro. E quella sottile e madida infiltrazione di vita diventa più dirompente di un grave che blocca l'obbligatoria via di fuga dell'accontentarsi.
Ogni rotta è segnata da questo tipo di incontri, ragazzo. Forse lo sarà anche per te. Te ne accorgi quando tutto questo, che si crea innanzi a te, crolla.
Hai capito, figliolo? Sinistra estrema... e le rette parallele divergono inesorabilmente.
Quel sedimento di certezze ti precipita addosso smascherando tutta l'intemperanza della tua mente. Quando pensi di vivere costellato di taluni immodificabili dati che sfuggono al tuo controllo quando non è la realtà a ponderarli. Bensì l'attesa.
Non si può attendere in eterno, figliolo, sappilo.
Primo poi dovrai lasciarti andare. Però oggi sono particolarmente stanco e scosso, caro ragazzo. Questo fedele bicchiere, oggi, non ci voleva.
Perché è tarda notte e devo tornare a casa.
C'è un amico che sostiene che faccio sorpassi azzardati, un po' al limite. Io rispondo che questa strada la percorro tutti i giorni quasi a memoria, quasi ad occhi chiusi. Ed è più pericoloso che le staristiche degli Airbus precipitati in fondo all'Atlantico.
Lo so.
Penso al mio appannamento in fondo alla sera, a capo di ogni casino e di ogni condivisione.
Penso al pericolo del non mantenere la distanza di sicurezza. Per arrivare presto a casa, attendere vigile il nuovo giorno e capire se qualcuno vi si affaccerà.
Come raramente accade, ma a quella finestra resto sempre inamovibile come una roccia, un po' scazzata. Erosa. Ma roccia.
Per questo ad ogni rischioso sorpasso sembra che ad esserne uscito vivo possa essere stato solo il mio spirito, o la mia volontà frammista. Punti un po' più forti di un'entità corporea perdibile nell'imprevedibilità di un incidente.
La materia imprevedibile e fragile, la volontà indeterminatamente decisa a proseguire indomita.
Ma non posso morire, no. Perché se lei domani dovesse svegliarsi io potrei avere ancora voglia di dirle qualcosa, e lei lasciarsi ascoltare.
Dopo la ciclica rottura di palle, ne riparliamo. Fanculo alle lampade votive, non servono a un cazzo. Diteglielo a quello stronzo nell'ufficio tecnico.
Puah.
sabato 13 settembre 2008
Le pont

R. parlava un po' meno, e si fermava a contemplarle il volto ridente, felice, specchiando in quella spontaneità tutto quello che gli impediva di rinchiudersi una volta per tutte. Come il forte richiamo ad un isolamento che non era che una folle e debole attesa della sua polverosa estinzione.
Quando si attraversano certe cose c'è un'ombra dentro che non si dirada mai, che rende quasi vergognoso e sprecato l'esservi sopravvissuti.
Guardava Simone ridere contenta. Pensava a tante cose che si recava dentro con sé, annaffiando tutto con quelle parole rimordenti che le aveva inutilmente detto. Per lei aveva fatto qualsiasi cosa. Come un pinball la vita li aveva fatti rimbalzare da un punto all'altro della forza del loro legame. Stretti e lontani, come un ventaglio che si allargava e poi si richiudeva senza che loro avessero mai potuto pronunciarsi.
E poi erano giunti, non si sa come, lì. In quella sera.
Intanto R. aveva deciso. Non avrebbe più scritto nulla da condividere col resto del mondo. Avrebbe covato dentro di sè, e per solo per sè, quel turbinio della vita nei prossimi brevi istanti.
Intanto Simone rideva, e non capiva. Intanto lui avrebbe voluto dirglierlo, ma non ci riusciva.
Intanto la scelta maturava. In un profondo spegnersi di tutti i suoni e nell'addormentarsi di tutte le voci.
La voleva accanto in quel momento. La strinse e la baciò con un fervore che sembrava affrettare qualche inspiegabile rincorsa dei giorni.
- Che hai R.?
- Nulla Simone...
E lei riprendeva a parlargli stringendogli il braccio in una maniera che se non fosse stata lei, gli avrebbe fatto male. Era quasi un trattenerlo lì. Un non volerlo lasciare libero.
Quasi che lei, quella parte di lei che ha sempre saputo tutto, stava comprendendo. Mescolando all'amore di non volerlo rinchiudere in una gabbia, quell'egoismo di trattenerlo forte accanto a sè.
R. non parlava ed era quasi impassibile.
Simone, ad un tratto, sembrò bloccarsi dal piangere.
Si affacciavano stretti da quel ponte tanto caro a Simone.
R. le accarezzava i capelli. E non l'amò mai così assordantemente come in quel momento.
Le accarezzò il volto, come avrebbe voluto fare tutto quelle volte che lei rifiutava ogni contatto.
- Hai un profilo splendido, Simone, quando alzi il viso e guardi verso il cielo. Fammelo ammirare un po'...
Le piegò il viso con le sue carezze, incontrando con le dita le diradate lacrime di lei. Lei gli sorrise, senza capire.
R. le fece scivolare sul mento le dita della mano, con l'attrito di chi, quella donna l'avrebbe portata sempre con sè, aprendole tutto il mondo profondo che egli si portava dentro.
- R. ... - ripeteva Simone.
- Non mi saresti mai bastata come nutrimento per i sogni e come anima del mio scrivere.
Costui la lasciò con molle ed evidente fatica. E si gettò nel fiume.
Questa era letteratura, la notizia del giorno è che probabilmente non scriverò più in questo blog. Per la semplicissima ragione che mi sono rotto le palle. E come disse Stéphane Mallarmé, non esiste eredità letteraria, perciò al momento opportuno, cancellerò tutto.
Ti amo, Simone.
Grazie a tutti.
sabato 19 luglio 2008
Le parole che non dico
Simone si faceva attendere, abitava in una palazzina al centro. R. non sapeva nemmeno a quale piano fosse il suo appartamento, lei gli aveva detto solamente che non sarebbe venuta sola. E l'ansia di R. cresceva e non s'affievoliva col prolungarsi dell'attesa che avvicinava quell'incontro.
La rivedeva dopo tanti anni, erano tornati a incrociarsi quasi per caso, durante una manifestazione pubblica.
Quella volta R. restò ammutolito nel rincontrarla in mezzo a tutta quella gente. Lei non lo aveva riconosciuto, sebbene il volto sorridente di R. fosse rimasto quasi intatto tra qualche incavo rugoso sulle guance, e i capelli un po' meno neri. Non aveva più la barbetta, lasciava visibile la fossetta sul mento che gli rendeva meno aguzzo il volto.
Lei, invece era sempre stata bellissima. Una bellezza che le era stata cucita addosso nell'attimo esatto in cui era stata pensata, e che non le sarebbe mai scomparsa. Vestita come sempre in maniera un tantino scanzonata ma profondamente aderente a se stessa, con quella larga sciarpa verde, ed i capelli lisci sciolti sulle spalle.
Gli sembrò che la vita si fosse immediatamente riaccesa dopo anni di buio e di silenzio; che si fosse rialzata da quella lettiga di contingenze senza importanza nella quale s'era adagiata, dopo che Simone era andata via.
Prima che lei sparisse definitivamente c'erano stati giorni di penombre e di silenzi congelati nella distanza che intercorreva tra loro. Giorni in cui R. sapeva di soffrire come un cane, ma non glielo diceva, un po' per orgoglio, un po' per non condizionare l'atteggiamento di lei, che voleva fosse il più naturale possibile nei suoi confronti.
Non era mentire. Era solo il desiderio di non voler dare troppa importanza a quella mancanza, a quella che era quasi una nostalgia che agli occhi di lei non aveva nemmeno poi tanto senso. Ma i sentimenti si propagano nella vita a prescindere dall'importanza che si vuol attribuire loro.
Ed R. aveva troppo sopravvalutato la sua capacità di resistere dinanzi a tutto questo.
Per poi ritrovarsi, nel giorno in cui l'aveva rivista in mezzo a tutta quella gente, a scoprire di essere sempre stato solo dal giorno in cui i loro rapporti s'erano lentamente spenti. A scoprire di non aver mai imparato a rivestire di un nuovo abito il suo voler bene. Che quel vestito che i suoi incessanti pensieri avevano cucito addosso a Simone, fin dal giorno in cui l'aveva vista per la prima volta, non s'adattava su nessun altro corpo.
Le si avvicinò dimenticandosi del suo nome, degli anni trascorsi che si sublimavano in ogni passo verso di lei, come fossero polvere sporca durante il gelo della sua accidia.
La chiamò piegando lo sguardo con cui la riscopriva nella sua mente, riaccogliendola nelle sue speranze. La voce di R. che scandiva le lente sillabe del suo nome con un più vasto carico di messaggi trapelanti nel fiato asperso, recava in sé tutta la vita che lui avrebbe voluto spendere per lei e che aveva disperato, ormai, di poter riafferrare.
Lei allargò le labbra in un sorriso che spalancava il mattino tra le nuvole, fece un passo e lo riabbracciò. Senza sollevarsi sulle punte dei piedi, gli premette il seno sul suo petto duro e freddo.
R. non la strinse a sé e restò immobile, impreparato, con un braccio languido e nolente, e l'altra mano che le si posava sui capelli.
- Tingi i capelli, Simone? - le sorrise R. - Sono tutti scuri. La prima volta che ti vidi avevi qualche impercettibile ciocca bianca.
Lei non rispose. R. la baciò sui capelli.
- E quella volta ti baciai anche i capelli. Tu forse non te ne accorgesti nemmeno. Non volevi nemmeno che ti abbracciassi.
- Non mi ricordo, R. Come stai?
- Lo vedi. Sono sopravvissuto anche senza di te. Ma non è stata un'esperienza invidiabile.
- Ero davvero così importante per te?
- Molto più di quanto io stesso mi sia reso conto. Più di quello che abbia mai provato a farti capire.
Simone sorrise, non sapeva che cosa rispondere. Era passato troppo tempo. E se anche fosse stato rimasto intatto un infinito presente fra loro, forse non sarebbe cambiato molto in quel destino.
- E tu come stai Simone? Che cosa hai fatto in tutti questi anni?
- Devo andare R. Mi aspettano.
- Anche io ti ho sempre aspettato, non sono mai stato bugiardo. La vita è stata davvero una lunga attesa.
- Ho sempre sperato che la tua fosse soltanto una vaga menzogna. La vita la devi aggredire, R.
- Sei riapparsa per questo, Simone?
- Devo andar via... una persona importante mi aspetta.
- Capisco, il colpo di grazia ci sta tutto. Rivederti e sentirmi la vita rimontare all'improvviso, solo per vedermela bruciare con più soddisfazione. - disse R. allargando lo sguardo intorno alla folla, senza mai farla sparire da dentro ai suoi occhi.
- Aspetta R. - e Simone trasse fuori una specie di moleskine, strappò un foglio con una data, e un indirizzo.
- Se ti trattieni in città, e vorrai, io mi farò trovare. Addio, R.
Se ne andò senza voltarsi. R. provò ad allungare ancora una volta il suo braccio, da cui lei fuggì. Di nuovo, come la prima volta alla stazione della metro, portandosi tutto via con sé.
La chiamò al numero che lei aveva scritto, per dirle che sarebbe venuto in città. Lei con aria indifferente e scevra da interesse o curiosità confermò. E ribadì non sarebbe venuta da sola.
Ed R. era lì, quel giorno, ad aspettarla. A riallacciare i nodi della sua vita, tra sogni, pensieri e ricordi. Giunse con la sua auto, e cercò un posto con buona visibilità per attenderla in macchina.
Era la prima volta che percorreva quelle strade, ma ogni cosa gli sembrava familiare. Le case, i volti della gente, i posti dove poteva lasciare la macchina, le strade strette e intasate. I negozi brulicanti di signore cicalanti.
Ogni cosa sembrava lentamente mutare in una scena familiare. In una cartolina della sua esistenza che lui vedeva dal di fuori, di cui avvertiva di essere un ospite tra i percorsi della sua stessa casa.
Simone giunse. Anzi no. Lei non giunse, lei apparve. Improvvisamente, sul sedile accanto a lui.
- Apri gli occhi, R. - lei sorrise - Non hai niente da dirmi?
- Dal giorno in cui ti ho vista, il sole sorge e tramonta con te.
- Ancora questa cazzata alla Jim Morrison... sei fatto vecchio R., sono sicura che potresti fare di meglio.
- Non riesco a togliermelo dalla testa...
- Che ne diresti se intanto cominciassimo ad uscire dai tuoi personaggi? Tu non sei R. ed io non sono Simone. Va bene, Giuse'?
- E con te, come faccio?
- Usa i pronomi. Facile, no?
- Sì, è facile. Ti sto sognando, vero?
- Sì, Giuse'. Come sempre. Qui dentro è tutto un po' più semplice. Ma non attenderti risposte, io sono solo frutto della tua fantasia.
- Vedo. Sei uno spreco di proteine.
- Forse sono anche uno spreco di tempo.
- No. Non azzardarti a pensarlo, sei tu che scandisci il mio tempo, cara mademoiselle. Però li vedi i miei capelli bianchi? Sono vecchio...
- Non cambia la sostanza delle cose. Stai posponendo la scena onirica.
- Non direi...
- Non importa. Arriviamo al sodo, perché l’alba incalza. Così impari ad andare a letto tardi. Sei innamorato di me?
- Non lo so. Non so dare nomi alle cose. Di certo sto in un bel casino. E non posso parlarne con nessuno. Tanto meno con te.
- E ti fai questi sogni da pippato mentale.
- Non ho il controllo su tutto. Sai, io vivo in profondità le cose. Tu mi hai travolto la vita, mademoiselle.
- Sei stato tu a farti travolgere, io te l'avevo detto.
- Non cambia la sostanza delle cose.
- È assurdo, non c'è logica a tutto questo. Te lo ripeto: noi non ci siamo vissuti.
- Ed è solo per questa ragione che non do un nome alle cose. Sento i tuoi occhi in ogni specchio vero o artificioso in cui si ferma la mia immagine. Mi sbuchi nei posti più strani, nel terrazzino del disco pub dove servono il frappé con le palle di gelato al cioccolato, all'assessorato regionale per la formazione professionale che mi paga lo stipendio, persino nell'arena comunale dove mi affaccio per vedere gente idiota che assiste a dei musical ridicoli senza capire un accidenti di inglese. Poi non ti dico ogni volta che vedo una frangetta, è un dramma. Quando qualcuna mi prende per il braccio vorrei strangolarla. Mentre canto, mentre parlo con la gente, mentre cammino, sei tu che mi circondi e trasfondi la vita in tutto quello che faccio. Nei rimproveri alla mia indolenza e alla mia sregolatezza, ci sei tu.
Parlo come se tu mi stessi ascoltando, agisco come se tu mi stessi vedendo, sorrido come se tu mi stessi di fronte senza sapere che cosa rispondermi quando ti metto al centro del mio mondo.
Scrivo solo e soltanto come se tu leggessi contemporaneamente, muovendo gli occhi mentre io muovo le dita.
Tutto questo trasforma la mia indifferente esistenza in vita. Lo so, tutto è solo una proiezione di me. Posso ripetertelo in eterno quello che sei per me...
- Sprechi troppe proteine inutilmente...
- Parla per te...io vhhhhhhhhhhh phhh te.
- Che dici?
- Io viv... hhhhhhhhh... peeer te.
- Vuoi essere più chiaro? Non essere pusillanime.
- Uh, madonna. Io vivo per te. Ecco l'ho detto. E tu nemmeno puoi capire quanto mi costa ammetterlo. Accettarlo è bello, ammetterlo un po' meno. C'è troppo orgoglio. Quello che un po' mi frena tutto...
- Questo tuo orgoglio pare piuttosto una maschera alle tue debolezze...
- Non è così. Io cerco sempre di pormi dalla parte di chi mi ascolta. Trovo buffo che qualcuna possa volermi bene e così non combino mai niente. Alla fine non credo che alla gente possa importare quello che dico. Questo mi rende libero di dire quello che voglio fregandomene dell'importanza. Ma non funziona così coi sentimenti. Il confine tra quello che vorrei dirti e quello che vorrei tu comprendessi da sola senza farmi sentire ossessionato da te è molto sottile.
- Quindi non sei sincero con me, Giuse'...
- Lo sono, ma vedi, quando tu mi chiami e mi dici "ciao", io vorrei immediatamente raccontarti quanto si impenna la mia felicità in quei momenti che io mi sforzo di mantenere normali. Vorrei cominciare a parlare per non farti andar via. Vorrei riempire la tua vita. Mademoiselle, la normalità è un riposo che il mio cuore non riesce più a concedersi da quando ci sei tu.
- Giuse'...
- Lo riscrivo il mio nome, mettendolo sulle tue labbra, anche solo nella mia immaginazione. Perché mi riempie tu non sai quanto. Non è una forma di reietta masturbazione cervellotica, è un desiderio di sentirti pronunciare il mio nome.
- Continua...
- Mi esorti a parlare, perché qui non ho barriere. Qui non devo tenere tese le corde del buon senso che spesso mi ammutoliscono. Non voglio metterti a disagio. E poi mi pento di tutte quelle parole che non dico. Di quelle che lascio stare su quelle panchine che non tornano. Un po' come quello che ti scrissi una volta, ricordi? La vita fa sempre il suo giro, e dagli errori si impara poco.
A furia di sbagliare non impari a vivere, impari solo a riconoscere un po' prima e un po' meglio le occasioni mancate. Occasioni che non assicurano la felicità, ma che rendono la coscienza certa di aver provato fino in fondo a scegliere la vita.
Tu sei la vita mia adesso. Per quanto mi sforzi di farlo passare inosservato.
- Non sono sforzi che ti riescono bene. Perché ti sforzi, vuoi che tutto questo ti passi?
- Troppo cerebrale, troppo cerebrale... non passa, non passa. Non per via della mia volontà. E poi io non voglio che passi un bel niente. Sto male perché ti desidero, tu non puoi capire quanto. Ma se il mio desiderio sei tu, sto bene. Ma io non mi accontento. Vado fino in fondo.
- Hai paura?
- Che tu possa decidere di estinguermi, sì. Temo solo questo. Perché sarebbe veramente uno strazio inutile.
- Che cose ti aspetti adesso?
- Che tu mi venga a trovare. Di rivederti presto. Solo questo. E poi…
- E poi?
- Mademoiselle, ho bisogno di tornare a scrivere il mio racconto, così come lo avevo pensato, con R. e Simone.
Simone questa volta giunse. R. la vide arrivare dallo specchietto retrovisore, e scese dalla sua auto. Lei sembrava guardare oltre, attendere qualcun altro.
- Hai ancora le mani disastrate, R. - Gli diceva senza prestargli poi tanta attenzione. Lui sorrise. - Scrivi ancora?
- Oh sì, un po' meno, però... – disse stringendosi le spalle - che cosa hai fatto in tutti questi anni?
- Ho vissuto. Tu?
- Ti ho amata.
- Non me ne sono accorta.
- Lo so. Ed è l'unico rimorso che mi porto addosso.
- Così è questo il modo in cui ubbidisci ai tuoi imperativi, R.? Molto diligente, non c'è che dire... Ah... è arrivata!!!
Simone si illuminò sul volto e si bloccò improvvisamente, una ragazza bionda bassina con gli occhi verdi ed il viso abbronzato portava un passeggino e le fece cenno da lontano. Andarono incontro l'un l'altra. Si salutarono. Simone diede un bacio alla bimba. La prese in braccio e la piccola rideva.
Simone, nonostante il suo temperamento, era molto dolce.
La ragazza andò via. E lei rimase sola con la bimba. Tornò da R. che la attendeva su una panchina al fresco. Faceva molto caldo. Ora che aveva infranto l'ansia dell'attesa, cominciò ad accorgersene.
- Adriana, questo è il signor R. Saluta, su! Di': "ciao signor R.", ma sta’ attenta, con quel sorriso austero, se sbagli a parlare, ti prende a morsi sul culetto! - E mimò una smorfia solleticante che fece scoppiare a ridere la bambina. Aveva una frangetta bionda la bimba. Ad occhio sembrava avere tre anni.
- Prima che tu possa farmi domande cretine R., ti dico subito: è mia figlia e l'ho cresciuta da sola. Prima che ti possa venire in mente di chiedermelo, non farmi domande sul padre.
- Adriana... è bella. Come te. Ha gli occhi chiari, ma l'espressione è la tua... Simone... io...
Si incamminarono verso un giardino. Simone parlava alla bambina e R. ascoltava sentendosi davvero piccolo in tutto questo. Pensava che durante quegli anni quella donna aveva davvero vissuto, aveva morso la vita come lui si limitava a poter mordere il culetto di chi sbagliava a parlare.
Simone era rimasta intatta perché era vera. Lui aveva appeso un ritratto nella sua stanza, lo ammirava e si ammirava, cospargendosi di rimorsi e nostalgie. E rinunciando a tutto.
- Lei ha tutto il mio amore, adesso R., perciò non farti troppi pensieri, anche adesso che ci siamo rivisti - gli disse sedendosi molto sensualmente, conservando il travolgente fascino che lo aveva ammaliato; mentre lui restava ancora in piedi a vedere la piccola seduta sul prato a qualche metro da loro, che giocava ad acciuffare l'erba scivolosa e ridendo ad ogni tentativo mancato, verso gli occhi attenti della madre.
R. aveva vissuto davvero per lei. Egoisticamente, senza dare il proprio amore a nessun'altra. Mettendo in gabbia ogni cosa. Adesso non riusciva a badare alla bambina, che pure lo aveva sorpreso, perché mai come in quel momento voleva afferrare Simone tra le braccia e amarla con ardore senza indugio, senza badare nemmeno allo sguardo della piccola Adriana. Perché in quel momento lei era ancora più completa, invincibile, irraggiungibile. Talmente piena di sé che se lui l'avesse avuta, avrebbe sentito da vicino il profumo della totale immersione di due vite che si riempivano a vicenda.
- A cosa stai pensando? Non ti siedi? - chiese lei. R. si sedette e accese un sigaro.
- Penso che vorrei tanto far l'amore con te, adesso, in questo momento. Senza darti il tempo di renderti conto di dove ti trovi e di chi ti guarda.
- Sei rimasto il solito pazzo di sempre. - Rise lei.
- E tu sei sempre più adorabile. - Rispose lui fissandola concupiscente, e serio.
- Ma lo vedi come mi sono ridotta?
- Siamo sempre noi, Simone, con qualche anno, qualche rimorso, qualche casino in più e basta.
- Rendi tutto troppo semplice, tu. - si interruppe, sospirò - Non sei geloso?
- Di cosa?
- Di lei - ed indicò la bambina.
- Perché dovrei esserlo? L'amore di una madre non sarà mai identico a quello tra le persone.
- Mi è piaciuto tanto. Adriana l'ho desiderata. Ho sempre pensato che dovesse essere lei, prima ancora che incontrassi la persona con cui averla. E ho amato profondamente nell'attimo in cui l'ho sentita accendersi in me. Questo amore tu non me lo hai dato. Non c'eri. Eri da solo chissà dove, a farti vessare dai rimorsi, mentre io amavo immensamente, al punto di avere lei. - Si fermò nuovamente. Indicò la figlia con un gesto del mento, e senza attendere che R. potesse dirle qualcosa, riprese a parlare. - Guarda Adriana, lei è la vita che tu avresti sempre voluto, che qualcuno ha assaggiato per un po' al tuo posto e senza darci nemmeno il valore che vi avrebbe dato una persona come te.
R. la ascoltava restando in silenzio. E per quanto si era sempre sforzato di comprendere le donne, non era mai riuscito a toccare davvero l'egoismo con cui esse vivono. Di come, per quanto sappiano voler bene, i loro sentimenti sono elargiti come briciole di una loro speranza che è tutta personale. Perché è la vita che le ha rese così. Sono loro che consentono all'umanità di perpetuarsi.
Un po' umiliante per qualsiasi orgoglio maschile che ci si soffermi a pensare.
- Che fai? Non dirmi che adesso tirerai fuori la tua agendina e comincerai ad appuntare le tue evanescenze mentali? - disse lei ridendo a denti stretti.
R. la guardava in silenzio.
- Sei stata l'unica persona che è riuscita a farmi sentire a disagio con l'esistenza in maniera così evidente. - Strizzò gli occhi, sorrise, e tirò al sigaro. E aggiunse: - comunque no, non parlerei di gelosia. Mi facevi accenno a tante cose, mi parlavi delle tue vicende, dei tuoi incontri. Non ero geloso. Desideravo sommessamente di essere ogni oggetto che tu sfioravi, volevo essere ogni persona che ti riempiva lo sguardo. Ogni persona che attendevi, baciavi, accarezzavi, che accoglievi tra le tue braccia. Ma bada bene, Simone, a come descrivo le cose: perché hai determinato sempre tutto tu nella tua vita, almeno da quando io ti ho conosciuta. Quello che ho più desiderato in maniera folle è essere la persona dalla quale ti saresti lasciata baciare, accarezzare, e che avresti lasciato che ti accogliesse. Quella persona con cui avresti condiviso completamente, senza accorgertene e quasi sbarazzandotene davvero, la cosa che tu hai di più prezioso.
- E cioè?
- Te stessa.
lunedì 30 giugno 2008
Such a night

R. si vide costretto a forzare, spingendo con le mani e tenendo tutto bloccato con un piede. Spostò quella colonna di bottiglie, facendole suonare come un campanello. Si affacciò Mario, allarmato, per vedere che cosa stava succedendo. Stai a vedere che qualcuno gli stesse rubando anche le bottiglia di birra.
- Ah. Sei tu - disse. - Ma sto chiudendo. È quasi l'alba - aggiunse poco dopo.
- Vedo. Però tu fammi entrare lo stesso.
- Va bene.
R. entrò seguendo Mario che camminava a gambe divaricate facendo sventolare uno straccio umido che ogni tanto schizzava qualche goccia di acqua puzzolente.
La televisione, posta su una mensola elevata ad un angolo, dava uno di quei programmi amarcord pieno di ballerine mezze nude che avevano cominciato a spopolare con i primi vagiti della tv commerciale, negli anni '80.
Il volume era molto basso, però sibilava. E dava fastidio. Perciò anzichè sedersi al bancone, R. andò a poggiarsi ad un tavolino lontano sul quale giaceva ancora la Gazzetta del giorno prima.
- Pure!
- Che c'è?
- Sto pulendo, cazzo! E ti vai a sedere al tavolino che ho appena lucidato? Vieni al bancone, sennò vattene a dormire. - Nessuna risposta. - Ehi! Parlo con te! E poi ti devi decidere a smettere di bere!
- Sta' zitto e preparami dell'acqua tonica - rispose R. infastidito ma indifferente.
Mario allargò le braccia, e si sentì dopo un po' un bicchiere che s'andava riempendo.
- Ecco. Però vieni al bancone.
R. s'alzò, si diresse verso il bancone, prese il suo bicchiere e cominciò a sorseggiare. Camminò lentamente, guadagnò il suo tavolo, si risedette e decise che non avrebbe prestato più la minima attenzione a quello che gli sarebbe stato detto, o urlato.
"Ci sono io che faccio testo a parte", pensava. Ed immaginava qualcuno, molto lontano, che stesse ridendo a denti stretti. Emise un sorriso e vuotò il bicchiere. Restò poi a fissarlo. Non rifrangeva nessuna luce.
Sentì vagamente dei passi che si avvicinavano e notò l'ombra di Mario che si era sviluppata su quel tavolino in modernariato arrugginito e bianco che si poggiava al muro.
Costui bonariamente sorrideva sotto i baffi grigi.
- Altra notte insonne, eh?
- Sì. Ma ci sono abituato. Dormo scarso un paio d'ore al giorno.
- Dovresti darti una ripulita, ragazzo. Via i capelli, snellisciti, basta sigarette e basta la merda liquida che ti vendo io.
- Dovrei.
- Perché non te ne torni a casa a riposare?
- Spegni la tv, Mario. Ancora a fare il pieno di questo schifo stai.
- Mi fa compagnia, idiota.
Meglio star soli. Meglio star soli, se la compagnia è questa. "Dannazione, parla. Per la miseria, di' qualcosa. Fammi sentire che diavolo pensi veramente! Non posso tirare sempre a deduzioni". Si sentiva un pochino canzonato, confuso. O forse non lo era a giusta ragione. Solo che lui parlava schietto entro certi limiti. Prese il taccuino e cominciò a scrivere, a dar sfogo alla sua inconsistente ricchezza. A quelle lodi inutili che sbattevano davanti al muro. Pensava ancora a Simone che dormiva da sola chissà dove. La mattina prestissimo faceva sempre freddo, ed una volta tanto non sentiva dentro di voler abbracciare, ma di voler essere abbracciato. E per la prima volta non confondeva quel desiderio ad un'umiliazione.
Perché il bastarsi non è in concorrenza col desiderio d'averla accanto. L'errore madornale sta nell'alienare altrove un punto di ancoraggio alla vita che è singolare, individuale e talmente problematico da non ammettere altri carichi in groppa su questo delicato equilibrio. Ma tenersi stretto a quella mano che spazzasse via una parte di quella solitudine, no, di quello sentiva un gran bisogno.
E quando sentiva montare il silenzio, ed irrompere la solitudine era solo a Simone, e soltanto a lei, che pensava.
La sentiva riempire quelle strade e quel riposo. La sentiva in tutta la sua assenza che affollava quel suo vuoto. La sentiva mentre al buio d'una notte più acerba un po' lo canzonava e un po' lo arginava. Come se delle volte lei si mettesse una mano davanti agli occhi per non ascoltarlo. Perché voleva mantenere la coscienza di ripararsi, ma allo stesso tempo voleva incontrarsi in quelle parole.
- Ma che diavolo c'è su quel libricino che ti porti sempre appresso? - tornò ad esistere Mario.
- Un manuale di istruzioni, lo aggiorno io.
- E funziona?
- Per una vita da stronzi, forse sì. Non lo so, non è il mio caso.
- Ma ti ci attieni?
- No.
Mario si avvicinò con un altro bicchiere d'acqua tonica.
- E quando ti muovi al di fuori del manuale, funziona?
- Non lo so. Non mi è dato di capirlo. Oppure lo so, e faccio finta di non vedere per non starci male. Oppure è tutto l'opposto. Chi cazzo ci capisce più niente... - ringraziò alzando il bicchiere e lo vuotò d'un sorso.
- Dimmi un po', ma che ti senti preso in giro?
- No, macché. Ci provassero... Nessuno mi prende in giro. Si gioca un po' probabilmente, e faccio finta, ma io ci indovino. Non sono mica scemo.
- Tu pensi troppo.
R. lo guardò. Si tolse gli occhiali. Afferrò il bicchiere fissando un punto imprecisato nel muro. Poi i punti aumentavano, e aumentavano i rapidi guizzi delle sue pupille. Uno strano bollore gli si colorava sul volto. Picchiava lentamente ma incalzante il bicchiere vuoto sul tavolo.
Poi si fermò. Parallelamente Mario che aveva notato con crescente affanno questa mutazione in R. si tranquillizzava. Poggiò sulla fronte la pezza umida e abbassò lo sguardo.
R. riprese il bicchiere vuoto.
Lo lanciò oltre la testa Mario con inaudita violenza.
- Ma vaffanculo. - urlò.
Mario si spaventò al tonfo d'un bicchiere che non si ruppe. E restò basito a guardare.
R. s'alzò e si diresse verso il bancone. Guadagnò la posizione della cassa vicino alla quale c'era il bicchiere a terra. Lo raccolse e allungò un braccio sulle bottiglie che avevano dissetato i vizi degli ultimi avventori, e che Mario non aveva ancora riposto.
Versò qualcosa che non profumava nel bicchiere ancora intatto. Bevve in un sol sorso.
Mise una mano in tasca e cavò delle monete che lasciò davanti alla cassa.
- Io non ho bisogno di pensare. - disse - io le cose le so senza pensarle.
Uscì dal bar e ripose la pila delle casse di birra così come l'aveva trovata. Ascoltò un po' del racconto di quell'alba che faceva a pugni con le nuvole. Un fresco sorriso gli spalancò la faccia. Ed era la risposta a tutte le burrasche.
La differenza era che quelle burrasche facevano spazio ad un ristoro ancora più luminoso. Che quando si è tremendamente complicati si pensa a quanto debba dar fondo il male e la sensanzione di galleggiare sulle intemperie. Ma non si pensa a quanto è più profondo il mare. A quanto è più luminoso il sole. A quanto è più caldo un abbraccio con chi svuota la vita di tutto il resto, quando arriva anche solo per un minuto a bussare all'uscio della tua trasparente reticenza. A quanto fanno più male i pugni ma a quanto son più soffici le carezze. A quanto tutto è estremo, folle, esaltato e vibrante come un brivido che graffia ogni lembo di pelle.
"Ma perché non mi parli, perché le mie parole cadono al suolo senza colpire, e senza neanche rompersi, come quel bicchiere."
Prese il telefono intanto che il cielo schiariva e il venticello si improfumava di aghi di pino. Trovò il numero di una persona che aveva cacciato fuori a calci dalla sua vita.
Senza sapere perchè prese a far squillare quel numero.
- Ehi, mi senti. Come stai?
- ...
- Lo so ti sveglio. Scusa - disse con voce seccata.
- ...
- Che fai dopo? ...Senti non cominciare a fare quella voce di cazzo che vuole fingere di trattarmi con cortesia. Se hai da mandarmi a cacare, fallo sinceramente.
- ...
- ...Non ti ho chiamato per sapere come stai. Non me ne fotte un accidenti di niente della tua vita.
- ...
- ... Hai da fare dopo? Passo a prenderti al posto di una volta?
- ...
- ... Non hai capito un cazzo, non ho alcuna voglia di parlare. Che voglio fare? Voglio solo scopare. Senza se e senza ma, senza dirci ciao, senza dire niente. Con la stessa merda da sconosciuti incatenati l'un l'altro con cui abbiamo vissuto cinque anni fingendo di conoscerci un po'. Però stavolta ti infilo con quella indifferenza che ci riconcilia almeno nel rispetto di essere sinceri, una buona volta. Si scopa. E poi torniamo a maledirci reciprocamente per l'eternità. Se ti va rispondi subito, sennò va' al diavolo anche stavolta.
- ...
- Ok, va bene. Vattene a fanculo tu, e tutta la razza tua. Stronza.
R. non rimpianse. R. si sedette su una panchina di cemento sporca di resina. I suoi jeans si sarebbero rovinati. E attendeva Venere alta a sud-est.
"Dove sei, Simone? Perché non mi dici niente, perché... io ti..."
Se la spezzò in bocca quella parola. Perché era limpidamente vera. Pianse. E sorrise.