venerdì 9 novembre 2007

Giorni e Nuvole


Sono andato a vederlo con un'amica, sprofondando su una poltroncina in prima fila (prenota i posti la prossima volta, idiota di un Alcor!), e devo dire che mi è piaciuto tantissimo, anche perché son tornato ad andare al cinema dopo tanto tempo. A volte capita che una persona cara parli di un argomento nel suo blog ed io mi senta impedito nel riparlarne a mia volta, anche se abbiamo bacini d'utenza diversi. Stavolta infrango la norma perchè ci sono delle spigoalture di questo film che mi hanno coinvolto non poco. E non parlo della mera  questione lavorativa, perchè secondo alcuni io sono un disoccupato, per altri sono uno studente, per altri ancora (tra cui io stesso) sono un ricercatore universitario. Dipende dai punti di vista, se consideriamo il "lavoro" in funzione della retribuzione sono disoccupato; se consideriamo il lavoro qualcosa che sia "altro" dallo stare sui libri, allora sono ancora una specie di studente; se pensiamo che da quelli come me forse dipende parecchio della competitività di una nazione, allora io lavoro eccome!
Ma sono fermamente convinto che questo film utilizzi la mancanza di lavoro come un pretesto narrativo anzichè come il quid in sé. Questo film si inquadra nella scia di tutte quelle storie felici minate da uno shock negativo imprevisto che sconvolge ogni cosa, mettendo a dura prova i legami della vita. Mi viene ad esempio in mente "La Stanza del figlio", anche se lì i toni erano parecchio più drammatici. La sensazione di "precarietà" si vive non tanto nelle difficoltà materiali, quanto nella loro sopportazione emotiva. Ci si sente nudi all'improvviso di quella nostra anima che l'abitudine della esistenza ha provveduto, col tempo, a trasferire dal nostro IO in tutto quello che ci circonda, nelle attività in cui esercitiamo il nostro essere. Non voglio riprendere i discorsi sull'alienazione
del lavoro di Marx, ma voglio elevare questa situazione ad una più generale condizione esistenziale. L'uomo che violentemente strappato dalla sua dimensione di vita, qualunque essa sia. Ho avuto questa impressione nella scena in cui il protagonista (Albanese) si mette a fare lavoretti casalinghi ai vicini di casa, e all'improvviso scappa via perché s'accorge di quanto sia lontana la sua vera essenza da quella prassi di realtà. E poi trascorre giorni e giorni a letto senza alzarsi, senza trovare il coraggio per un colloquio, annegato in un'apatia disasatrosa che avvilisce l'umanità alienata, e potrebbe condurre a destare nel partner quel senso di pietà e misericordia che è la tomba dell'amore.
Ho rivissuto il non senso della mia sussistenza che ho dovuto auto subire in diversi giorni non così remoti, quando mi son sentito strappato dagl artificiosi equilibri nei quali avevo raggiunto una stabile accettazione della vita quotidiana, intonacata da abitudine e routine senza alcuno spazio. Non sempre un ergastolano che riceve l'amnistia si trova a suo agio nel mondo libero...
La rottura di equilibri, positivi o negativi è sempre un cataclisma imprevedibile, che si fuoriesca dalla gabbia o dal paradiso, alla fine, le due cose finiscono sempre per assomigliarsi.
Ma nello stesso tempo è qui che emerge la grandezza del personaggio di Elsa (Margherita Buy), che non cade mai nella pietà verso il marito, anzi, nella scena in cui si lascia sedurre dal suo capoufficio emerge anche la sua voglia di riscatto morale, il suo diritto a non doversi mai accontentare, che impedisce di sviluppare quel sentimento di compassione nei confronti del povero marito smarrito nella sua nuova inettitudine con la vita. Un apparente peccato di debolezza diventa l'àncora di salvezza per la donna che in quella piccola fuga fissa la sua libertà che le consente di esserci davvero alla vita, e lo consente anche ai sentimenti che possono rigenerarsi  genuinamente. E' così che l'amore tra i due potrà trovare una via di speranza nonostante le incertezze. Per questo motivo la storia si "interrompe" così, quasi bruscamente nel finale.
La vera storia è data dalla parabola compiuta dai sentimenti dei due, che si conclude lì. Non sapremo mai se lui troverà lavoro, se lei continerà a fare i suoi sacrifici, non ci serve saperlo; ci serve sapere che l'amore ha superato la prova più difficile, ha oltrepassato le nuvole. Ancora una volta si giunge alla salvezza dei sentimenti grazie ad un peccato, a quell'attimo di infedeltà riprovevole che può apparire crudele. La salvezza passa attraverso il giogo perverso di un male inaccettabile, perché la vita è profondamente ingiusta ed ogni cosa ha un suo prezzo. Bisogna far finta di nulla, e si riesce ad andare avanti; quindi alla fine un po' di sana, ma non cieca, indifferenza riesce a mantenere in piedi anche una personalità fragile. Chiamatelo orgoglio, per chi ci riesce.

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