giovedì 5 giugno 2008

La luce che non siamo








Un po' piove ed un po' smette. Giorni senza un forse. La freddezza della gente mi uccide. Senti il rumore di favole spente? Non voglio sentirlo. Vaffanculo.

Cadono sempre da nord-ovest grandi, grosse, grasse gocce inclinate che rimbalzano facendo tlon tlon per come sono pesanti, ma senza riuscire a bagnare nulla di quello che colpiscono. Il lentissimo fruscìo che producono mi ricorda mio padre che tentava di indurrmi la pisciata prima di andare a letto le prime sere dopo che mi tolsero il pannolino.
C'è un calore intimo che prosciuga tutto immediatamente, ogni traccia; si smacchia ogni cosa che miro svanire lentamente nell'alone piovasco che si ritrae scomparendo dal cerchietto timbrato vicino alla mia lucida scarpa nera. Non c'è già più testimonianza di quello che non son mai stato un attimo fa. La vita si ricicla e non bada a chi è fermo su una panchina a sperare che nulla venga mai perso nelle firme impresse dalla pioggia.





Una goccia di pioggia precipita tra tutto ciò che penso. Tamburello un motivetto sulla targhetta dell'artigiano che ha creato 'ste panchine lignee da museo dell'inutile indispensabile. La traduzione di "Comptine" dal francese è semplicemente "comptine", il resto del titolo della melodia di Tiersen lo traducete by yourself.
Mi cade addosso l'acqua e non mi tocca. Scrivo sugli ultimi angoli sgombri della mia agenda che una forma di capolinea dovrà pur esserci a tutto questo insopportabile vuoto.
Lo sai che colore han le nuvole basse?
Le parole che già qualcuno dovrebbe aspettarsi sono le più difficili da pronunciare. Aleggiano come fossero già state scritte. Ma il gioco delle parti... è il gioco delle parti.

Alla sera acerba c'è stranamente molta gente in giro. E le panchine sono tutte piene, i gatti si arrampicano in cerca di nidi sugli alberelli posti al centro di vasconi inguardabili, ridotte a simil-aiuole che qualche scellerato cultore della bruttezza molti anni fa fece installare. Erano state concepite come fontane, in principio.
E quando si giocava ancora a pallone in questa piazza era un problema recuperare la palla che finiva in quella fanghiglia stagnante sotto le grate delle vasche ricettacolo di sorci.
Una volta vi rovinai un pessimo modello di scarpa alta fatta di un tessuto simile al camoscio chiaro costato non so quanto, per recuperare un pallone da 500 lire che avevo maldestramente mandato lì dentro.

È sempre una questione di costo-opportunità. La VITA con i suoi surrogati, non ha un valore venale. Le cifre sono materia da gente molto triste. E a proposito del valore delle cose evito di tirar fuori l'aforisma più sputtanato di Oscar Wilde.
Un prezzo non ce l'ha un calcio a un pallone stando attenti a non farsi scoprire dal padre severo che teme che tu possa sudare e ammalarti al vento umido di novembre, non ce l'ha un viaggio azzardato, una bottiglia di Zabov, non ce l'ha una telefonata, non ce l'ha un cazzo di niente.
L'economia come teoria generale fallirà nel mondo perchè la si vuole fare a partire dai numeri e non dai sentimenti. Un uomo, per quanto sia oggigiorno razionale a metà e sensibile a un decile, non è una funzione di utilità, dentro questo mio petto non glabro non soffro di ipertensione cronica perché mi batte una Cobb-Douglas con l'esponente deviato... ed i sentimenti immotivati che ti fanno fare sciocchezze non si possono tradurre in una variabile proxy.
Non siamo regressori di una speranza che non raggiungeremo mai. Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni.

Quelle volte si gettavano i giubbotti per terra e si sudava a scazzottare per poter battere un rigore sotto la nebbia d'inverno. Pronti a scappare alla vista dei vigili urbani che oltre a sequestrare il pallone minacciavano multe alle nostre famiglie, perché eravamo rei di disturbare la canuta quiete pubblica dei vecchi assiepati.
Una volta mi ero fermato a guardare non so che cosa. Le solite abbabbiate. E non mi accorsi del sopraggiungere di un  vigile che già da lontano mi chiedeva le generalità per compilare un verbale che non sarebbe mai stato spedito. Perché chi io fossi l'hanno sempre saputo tutti, e per la stessa ragione ero immune da ogni giusto scotto per le ridicole malefatte sociali che ci imputavano. Barbari privilegi di chi è cresciuto nella casta infelice dell'aristocrazia dei porci. Scappai ugualmente perché volevo sentirmi come gli altri, e nello svoltare l'angolo mi ritrovai tra le braccia di un inatteso secondo tutore della legge che mi afferrò, e mi condusse di forza nel loro comando.
Mi sottoposero a un falso interrogatorio. E a 8 anni vivere di queste esperienze suonava bellissimo, avere un'avventura fuorilegge da raccontare! E invece no. Io ero uno "noto", mi chiesero solo di fare i nomi dei miei amici, con la minaccia di avvertire mio nonno e mio padre del mio sconsiderato comportamento da teppista del cazzo.
Non sputai loro in un occhio perché mi facevano pena già da allora.  E la mia saliva sarebbe andata sprecata. A che serve uccidere questa gente che è già morta...(cit. Erostrato)
Ne feci solo uno di nome, perché costui mi stava sulle palle. E diedi informazioni pure sbagliate. Perché l'ingiustizia ha una palpabilità disumana nell'azzeccare. L'ha sempre avuta, anche quando non è errato fare l'infame.

Ho la vaga sensazione che qualosa non va. Ottimo.
Il tabacchino non ha resto per le mie 50,00 euro che tiro fuori per un pacchetto di pall mall blu da dieci. Sono costretto a recarmi nel bar e a prendere il pacco da 20, e guardo il cellulare con la tentazione di fare una cosa che da giorni mi bolle dentro.
Come rendere straordinaria una cosa ordinaria? Io sono un maestro a fare questo.
Mi sembra più facile vivere lo straordinario in maniera ordinaria che il contrario. Ma questa è un'altra storia, non sono un santo per fortuna, e non ho mai letto le opere di Sant'Agostino che su questo topic trattano abbondantemente.
Sono tante le cose che non so. Ma ne ho consapevolezza. Conoscere è un vezzo d'elìte che non aggiunge molto alla propria apparente capacità di vivere ed essere felice. L'intelligenza è altra cosa, signori, è roba da paraculi. Io non sono intelligente.
Scegliere la vita non equivale a scegliere la felicità. E se la scelta non la fai, la subisci da qualcos'altro. Che ci si dimentichi di noi è il sogno più irrealizzabile.

Anche per le cose più spicciole e meno minchiose alle tenui sinapsi. Mi fanno i soliti squilli sollecitatori, gli altri, quelli che insistono e che aspettano sempre me per iniziare a pensare che è meglio cominciare a decidere di prendere in cosiderazione l'idea di non perdere tempo.
Li saluto quando sono ancora tutti fuori davanti la sede delle nostre infaticabili riunioni psico-politiche.
Immediatamente mi cade un'altra goccia d'acqua e realizzo che avrei fatto meglio a starmene a casa a far finta di scrutare quel manuale da 600 pagine di consigli su come guadagnarmi agevolmente il mio prezioso lascia-passare per Glasgow.

- Ciao tesorino. - Mi fa una che mi prende per il braccio.
- Passi il ridicolo "tesorino" con cui chiamerai tuo padre, ma lasciami il braccio...

Una goccia. E mi rendo conto che preferisco sfiorare la spalla di una persona con la mia mano timida e incerta ma vera, piuttosto che dover ricorrere alle carezze delle parole spalmate per sporcare l'altrui pensiero.

Effettivamente è ancora presto. Mi si sollecitava perché rompermi le scatole è un vizio largamente diffuso che tollero. Prendo il quotidiano di oggi, nella fattispecie L'Unità, e mi siedo alla panchina antistante in attesa che succeda qualcosa,  we are accidents waiting to happen... giusto?
No, la cronaca non mi piace, omicidi, stupri, incidenti, morti, perchè inondare pagine con cose che appartengono di default al genere umano. Queste cose non devono indignare ipocritamente perchè non ce ne liberemo mai... cerchiamo di perseguire il crimine e la violenza senza celebrarla agli altari della sorpresa e dell'evento... che squallore, neanche il male e la morte possono godere di un sano, indifferente rispetto. Preferisco la politica e l'economia, e penso che il vertice della FAO sia una buffonata di immani proporzioni. Se si cominciasse a rimodulare la PAC e a ridiscutere i trattati sull'agroalimentare in seno al WTO, forse questo genere di summit non sarebbe solo un pretesto per lauti banchetti tra pochi eletti che hanno crisi di fame di altro genere.
Il reato di clandestinità, invece,  è una palese violazione dei diritti umani, non è pensabile di utilizzare la ghigliottina contro gli irregolari abituè soltanto perché i procedimenti amministrativi d'espulsione e la certezza della pena in Italia sono dei feticci. E lo dice uno che è cresciuto nel mito di Robespierre. E poi... il prestito ponte ad Alitalia, oltre ad essere utile alla stregua d'un carciofo di chernobyl, è tanto lecito quanto io sono biondo e bello. Ryan Air e British Airways si incazzano, e fanno bene.

Neelie Kroes, facci sognare.

Ok, ho assolto al patetico dovere di chi si redime in un periodo in cui sta scrivendo sempre auto-stronzate ignorando che fuori c'è un mondo con problemi più degni di essere assaliti.
Ma a che serve? Uomini e no (cit. Elio Vittorini). Ed oggi io vorrei dirlo, no. Tanto... sono stanco di essere atteso. Quel poco per cui mi si può apprezzare è quanto più vorrei allontanare da me.

Prendo un foglio di carta dalla sede che lentamente si va popolando. Da quanto tempo non mi capita di prendere la parola in una assemblea?... mah, non importa. Non è uno spazio che mi contiene più.
Cade una goccia un po' più grossa. Impreco a denti stretti, e non pienamente convinti, qualche consueta bestemmia da posto in prima fila sulla piana dello Stige ipotizzando che non mi sia piovuta addosso acqua stavolta. Quando ci si siede su queste panchine di legno sotto gli alberi è facile sentirsi come il cesso degli uccelli che regolarmente scambiano la tua giacca per il loro vespasiano preferito.
Accendo la prima della serata e tiro su un fumo che respirerò poco. Sogno di un sigaro cubano.
Prima intestazione: "alla segr. del ...", seconda intestazione: "al segr. del ...", e "per conoscenza a..."; oggetto: "basta così".
Testo: "Non ho più nulla da dire, e da dare, buona fortuna."
Firmato: "G. F." Tanto per capire... le mie vere iniziali, quelle del pupo. Non mi firmo mai "dott." perchè non me ne fotte un cazzo.
Consegnerò questo foglio di carta scritto in un attimo decisorio estemporaneo al termine del palio dei maiali volanti a cui sono stato convocato a presenziare.
Ho sempre preso le mie decisioni così. Ponderate inutilmente per lunghi giorni, e poi graffiate nella mia vita in un unico decisivo strappo oltre il quale ho conosciuto solo ferite e qualche volta brevi sospiri d'aria pura.

Me lo metto in un portafoglio senza contanti ma con tanta cellulosa.
Mi piace conservare ogni biglietto di treno preso, e ogni ticket di metropolitana. Significano tante cose, sono segnati dalle sensazioni che recano impresse sopra. Ad esempio il biglietto dell'Eurostar al mio ritorno da quelle 3 settimane a Milano. Mi ricorda l'aver percorso tre volte avanti e indietro Corso Buenos Aires con mio zio prima del treno; oppure le mie solitarie attraversate che lì si sono concluse quel giorno con le opportunità professionali poi gettate alle ortiche per fare il ricercatore fantasioso... il lettore mp3 rotto dopo averlo comprato alla MediaWorld il giorno prima; nel treno del sempre maledetto-ritorno-a-casa, il signore di Brindisi che leggeva le quotazioni dei titoli e che ho battuto in una sfida a sudoku di Repubblica, livello avanzato. Lui rinunciò, io ci misi il tempo da Ancona a Pescara distrazioni paesaggistiche incluse; ed i metro ticket di tutte le città che ho toccato, poche, ma a fondo. Li porto nel portafoglio con me questi ultimi, insieme ai biglietti da visita che mi porgono persone che non contatterò mai. Avvocati, giornalisti, commercialisti, diplomatici australiani, istruttori di yoga...
Conservo i biglietti del primo teatro e del primo cinema ingiallito che condivisi con una persona evaporata così presto in una maniera impensabile... e conservo le ombre.
Conservo ogni cosa che possa essere per me la vita che ho scelto, o quello che non sono mai stato. E non sarò mai.

E la pioggia non mi bagna. Lo senti un aereo che porta lontano? Possesso. Non posso sentire nulla. Ho solo 13 canali di merda in tv tra cui scegliere.

Gocce che mi par di individuare nei rigagnoli nell'aria non perfettamente linda.
Non mi bagno, non mi bagno. Piove fuori, piove dentro anche se spunta il sereno e si accendono le luci. Ma non mi bagno.
E i maiali volanti si stanno scannando nella riunione.

Esco fuori e torno alla mia panchina, e lo aspetto. Non viene. Non si ingiunge su questa provocatoria posa di indolente sbeffeggiamento della sorte. No che non viene, il dolore.  Accendo la seconda, la penultima della serata. E lo cerco il senso di tutto questo. Dei rimpianti e delle rivincite, dei ricordi e delle persone lontane nello spazio e nel tempo. Mi chiedo che cosa rappresentano ancora, ciascuna di loro. Nulla.
Mi chiedo poi che pensano loro. Una vaga curiosità di cui, sì, non mi frega poi granché. Perché il cielo non cambia, e lo Scorpione il suo giro lo fa. Anyway.

Faccio poi una cosa di cui mi pentirò un secondo dopo averla conclusa.
Penso che dovrei prendere il mio telefono, e poggiarlo su un cassonetto anche se è un modello vecchio che non si prenderà mai nessuno. E andarmene in Africa.
Terza sigaretta.
Le dieci cose che più detesto in questo preciso istante: le inutili newsletters sui cambi di riferimento di Bankitalia; le convocazioni per l'assistenza agli esami; il pomodoro fresco rifilatomi a tradimento nelle pietanze senza preavviso; chi su msn intrattiene altre conversazioni mentre parla con me; i cani morti per strada mentre corro; rispondere a messaggi idioti, anzi ricerverli, perché tanto non rispondo uguale; quando mi si ringrazia; le donne che parlano esclusivamente il dialetto senza conoscere l'italiano corrente; discutere con chi presumo stia lì con la sola funzione di fregare l'ossigeno che potrei respirare io; rivedere i vecchi filmini con gente che è morta, come sta facendo quello stronzo di mio fratello in questo momento.

Si alimenta un po' questo schizzo di pioggia. E non arriva nulla, e le boccate stanno per terminare.  E parte di noi è anche nelle rinunce, e le rinunce sono parte di noi. Lasciamo una traccia anche in quello che non tocchiamo, in quello che non vogliamo.
In coloro che rifiutiamo. O semplicemente non prendiamo nemmeno in considerazione.

Ed ogni scelta contiene in sè il dubbio opposto, ogni bivio un'orma della propria volontà sulla sorte.
Siamo 0 ed 1. Come un interruttore non direttamente gestibile sugli eventi, come il sistema binario che è alla base dei modelli matematici che consentono questo splendido trionfo della tecnologia schifosa che consente di comunicare meglio di quanto non si è capaci di fare di fronte ad un eletto bicchiere di vino.
Ed i pugni in bocca ed i calci in culo sono come lo scalpello di Michelangelo sul bianco marmo della nostra vita. Anche tutte le sozzure che abbiamo ingoiato, la merda a cui abbiamo assistito per noi e per gli altri a cui volevamo bene. Chi se ne è andato lasciandoci una mano senza calore in nostra assenza, chi con una promessa da mantenere con arduo coraggio. Le bruttissime parole con cui si demolisce la fragile vita di una persona che, nonostante i suoi difetti e problemi, mi voleva bene. Le colpe e la condanna a vedere un baratro laddove gli altri vedono un forellino da uncinetto.
La amara constatazione che non riesco più a sentirmi infelice. Che non ho più nemmeno il coraggio di piangere per qualcosa.
Che non riesco più a bagnare di lacrime il mio viso.
Che non ho più compassione per coloro che soffrono dei propri limiti e della propria angosciosa incapacità di risollevarsi dai propri complessi di qualsivoglia natura, che l'angoscia è un sentimento pericoloso per gli sciocchi (cit. Kierkegaard).  Li comprendo nella mia razionalità più aberrante che s'è eretta a furia di conservare troppe cose, ma dinanzi ai quali non sarò capace di riuscire ad elargire consigli, e nemmeno una sacrosanta, commossa, compartecipe pietà.
Non esiste un dannato manuale di istruzioni per vivere, e ciascuno deve arrangiarsi il proprio tragitto.
La gente mi cerca, mi cerca, mi cerca e si rivolge a me, alla mia figura, al mio pupo. Si offre di ascoltarmi proprio quando io vorrei chiedere a chiunque intorno di mettermi a tacere.
E poi finisce col riversare il suo sé addosso al mio caos calmo (porca puttana se non le rivivo quelle situazioni).
Che le cose o sono tutto o sono niente, per me.
Che accontentarsi di arrivare secondi equivale a non aver mai partecipato.
Che dentro si sa benissimo che tutto è stato ardimentosamente costruito per cercare di sentirsi sempre uguali agli altri ragazzini che correvano perchè impauriti dall'essere catturati dai vigili perché rischiavano di rompere i vetri di qualcuno col pallone. Mentre il tuo culo era parato dal nome e dalla discendenza che prevedeva per te grandi progetti... voglio una canna, e la voglio adesso.
Che quando si è deprivati dell'istinto al dolore è peggio dell'essere privati della felicità.
Che le colpe si depositano come metri che allungano soltanto quella solitudine e quella minima distanza con cui si è già fatto il punto di doversi confrontare nel profondo più profondo.
Che si attende solamente chi in quel profondo più profondo è capace di mettere le mani e capire in silenzio.
Che far star zitta la ridondante eco di una vita che si ripropone sottolineando ogni singola frase che non è mai, mai, mai, mai lasciata al caso è un compito penoso, anzi uno strazio.
Che non me ne fotte niente di dover stare attento alla diplomatica tensione tra burattini permalosi di cui si abbevera questa fitta trama di relazioni interpersonali.
E se faccio qualcosa per gli altri è perché non si può accettare passivamente tutto infibulando la speranza...
Chi dice che sono pessimista è un ciuccio di quelli registrati all'anagrafe dei cialtroni.
Se amo è solo per una forma di egoismo estremo che si compiace ed eleva fino alla completa rinuncia a se stessi.

Ed anche se è mitologia, la frase della Genesi "andate e moltiplicatevi" racchiude l'unico cavolo di senso compiuto che si può dare all'esistere. Perché Courbet non è un idiota a dipingere determinati quadri che fanno sorridere solo i castrati mentali e i vermi. E che guarda caso si invecchia non appena si varca la soglia dell'età utile al raggiungimento dell'unico infinito che è possibile solo mediante la procreazione.
Siamo individui o siamo membri arruolati in una specie animale? La fortuna di essere cavallo, diceva Pirandello.
Circuìti a dover fenomelogicamente contenere moltitudini, tesi, antitesi e sintesi. C'entra anche Hegel? Certo che c'entra, il contrasto e la cenciosa soluzione mescolata che vien fuori sono il paradigma per non capire un cazzo e vivere felici senza chiedersi il perché di niente.
Al di fuori di questo architrave annichilente per l'uomo pigro, senza neppure la coscienza del proprio evanescente inglorioso destino, ci sono solo due strade: la nevrosi, o l'arte.
La sensibilità è quella dote non gratuita che consente di stare dappertutto e capire, o "sentire" empatia per quelle esistenze che in ogni caso narrano fuori qualcosa che in noi s'è già sviluppato. Solo chi ha vissuto conosce e può spiegare. Io ho vissuto? Non smetterò mai di chiedermelo. Dal punto di vista geografico, no. Del resto, francamente me ne infischio.

Quando si smarrisce l'illusione di essere eterni, tutta la vita che resta è segnata. Ed io l'ho smarrita troppo presto. L'ho persa a 13 anni. Come una specie di verginità cupa che ti protegge.
E una volta perduta ti consente di dare un valore, e non un prezzo, anche alla sofferenza che tuttora mi appare così banale. E che non mi è giustificata pressoché da nulla.
E quando nulla diventa degno delle lacrime, nulla è degno di esistere davanti ai tuoi occhi.

Ho sedato una rissa. Ho cercato due amici e li ho raggiunti. A piedi, senza quella macchina che pressochè tutte le sere passa Figlio d'un cane.
L'ultima volta che ho gironzolato da solo in notturna con la mia macchina ho ascoltato a palla il Dies Irae del requiem di Giuseppe Verdi.

Quando non voglio essere pensato, cercato, benvoluto, considerato.
C'è un grosso fascio di stecche di cioccolata nel frigorifero in cucina. Poiché ci si dimentica dei dolci in rari momenti di dolcezza che tuttora non esistono, e non avendo a disposizione un secchio di nutella gigante, ad essa mi rivolgo. E mentre mi accingevo a rifornirmi della dose minima di sopravvivenza compatibile con il regime monastico che ho imposto alla mia alimentazione, ho guardato mio padre dormire sul divano di casa.

E per un attimo ho pensato che se dovessi ridurmi così alla sua età, preferirei non arrivarci mai. Probabilmente diventerò anche peggio, ma intanto cominciamo a definire e a programmare. Perché io resto un leninista convinto, nonostante qualche sbavatura da parte di quest'ultimo.


L' angoscia che dà una pianura infinita? Hai voglia di me e della vita,
di un giorno qualunque, di una sponda brulla? Lo sai che non siamo più nulla?
Non siamo una strada né malinconia, un treno o una periferia,
non siamo scoperta né sponda sfiorita, non siamo né un giorno né vita...







1 commento:

  1. ora te ne suggerisco un'altra.

    Almeno credo.

    Magari la incroceranno i tuoi pensieri e le tue orecchie, nella stessa macchina che, pressoché tutte le sere, passa Figlio di un cane.


    ...qua nessuno c'ha il libretto d'istruzioni, credo che ognuno si faccia il giro

    come viene, a suo modo

    ...qua non c'è mai stato solo un mondo solo,

    credo a quel tale

    che dice in giro

    che l'amore chiama amore, credo...

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