domenica 22 maggio 2011

La casa sul mare - 3


III
Corse accecato dal tetro presentimento. Vicino alla sedia del suo letto, un lago di sangue, e suo figlio con un buco alla gola ancora bruciato dalla pallottola, steso a terra senza vita.

Ora lui fissava quel vetro torbido, attendendo che il fragore del mare grosso gli riecheggiasse quella eco di morte che gli aveva strappato suo figlio. Perché ciò soltanto gli infliggeva quella pena da cui il suicidio lo avrebbe forse inutilmente salvato. Non cercava pace, né perdono, né altro, cercava il silenzio interiore di chi non è mai apparso a questo mondo.

Tragica fatalità, il responso della corte penale. Non era più nulla, non gli era rimasto più nulla. Nemmeno la colpa per aver lasciato che suo figlio fermasse il suo tempo a sei anni, lasciando lì inchiodata in quell’attimo tutta un’intera esistenza, tramutando i sogni in un epigrafe incisa su una lapide bianca. La pistola era stata ben conservata e nascosta, solo una stupida e tragica fatalità.

Era innocente secondo i canoni della civiltà umana, lindo, immacolato, il mondo gli consentiva di proseguire i suoi giorni come più egli gradiva, come se nulla fosse successo. Si era soltanto distrutto il suo unico motivo di vita.

La moglie andò via portandosi via con sé presente e passato, ricordi ed oggetti, lasciando che il futuro restasse a marcire solo per lui, per sempre prigioniero del fetore di morte di cui erano intrise le decrepite pareti della casa sul mare.

Qualcun altro al suo posto avrebbe pensato che un altro ridondante urlo della sua rivoltella, od un qualsiasi altro metodo di azzeramento di quei giorni inutili, sarebbe bastato per porre a compimento la deviazione che la vita aveva sancito per lui in quel giorno maledetto. Ma no, sarebbe stato troppo facile, la sentenza vera e propria non era ancora stata emanata, l’attesa prima del capestro sarebbe potuta durare ancora molto a lungo.

Depauperato della sensibilità attendeva, mite e freddo, che proseguisse quella miseria.
Mentre annegava nel suo nulla, all’istante sentì ridere, ed all’improvviso ricordò di possedere quella carcassa abbandonata dalla peluria canuta e senile, riuscendo persino a decifrare in quei suoni lontani un genere di sensazione a cui non ebbe modo di collegare un significato preciso. Credeva d’aver rimosso l’esistenza di tali versi che s’erano estinti dalla sua memoria dacché non li avrebbe più intesi sulle labbra e sulla gioia del suo bambino.
Ma qualcosa forse c’era ancora nella baia. Forse non tutto s’era riempito di morte.

Quasi senza volersi separare dalla seggiola carceriera che pativa la sua presenza addosso, si trascinò via in accenni di quelli che rimembrava si chiamassero passi. Si sentiva, si sentiva respirare, sentiva la presenza del suo corpo, dei suoi organi, del cuore che pompava il sangue che percepiva scorrere attraverso il suo corpo. Scoprì d’aver fame e sete, da quanto tempo non aveva inserito alcunché nei cunicoli dell’addome…

Scoprì la puzza che lo circondava, capì cosa fosse il sentore del disgusto, ma non s’accorgeva che molto emanava da lui stesso.
Aprì la porta della casa sul mare, alla ricerca di quel suono improvviso che lo aveva destato. Scoprì un mare che s’infuriava ai piedi di un cielo torvo con nubi dai contorni squamosi che accludevano ampie porzioni d’azzurro. Tutto intorno c’erano ammassi di travi in legno e carboni spenti di un fuoco che aveva arso lì vicino. Immerse i suoi piedi nella cenere e sollevando polvere e sabbia, scalciò via un passero morto che si consumava tra i carboni.

Osservò la presenza di un blocco di tufo nel silenzio interrotto dal mare e dai gabbiani. Il suo tremore nell’inetto cammino non gli permetteva di indugiare a lungo in piedi. Si diresse verso la pietra sabbiosa per appoggiarsi a scrutare quello scenario che gli si manifestava dinanzi. Le gambe subivano nel piegarsi uno strano turgore, una tensione rocciosa penetrava dalle caviglie per cementargli le membra ogni volta che un’onda si scagliava violenta contro la riva esacerbando il fragore del suo impeto.

C’era un’eco in quell’infrangersi che ancora lo atterriva, come unico contatto con l’esistenza, sentiva quei rigetti del mare come una frusta arroventata che impattava inferocita sulla sua coscienza… sentì qualcosa toccare il suo piede.
Eccolo, il patibolo forse si stava approssimando.

1 commento:

  1. "Scoprì un mare che s’infuriava ai piedi di un cielo torvo"

    ...stupendo

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