mercoledì 22 dicembre 2010

Immobilità - chapter 4


Ancora una volta, in quegli occhi, si rinvenivano i tratti di un dipinto fatto di colori, adesso completo di una nuova presenza, in basso, nel lato opposto a quello in cui lui era relegato, ancora, e vi era anche quella donna, adorna di una bellezza che il tempo era riuscito a portarle via, che spasimava, triste, i suoi sguardi erano rivolti in alto.
Perché quell’incontro rispolverava vecchie immagini sepolte, che sembravano generate dalle riga del libro che aveva visto nella libreria?

Com’era fragile la resistenza illusoria che impediva alla sua coscienza d’emergere così vendicatrice dal confino in cui era stata relegata dalla vergogna.
Abbassò gli occhi ed ebbe una risposta, che forse la percezione inconscia aveva trovato già prima, ma che la sua persona non capiva, per i continui ostacoli che poneva tra sé, e la realtà che non poteva, o non voleva riconoscere, per una giusta paura.
Ecco ciò da cui un giorno era fuggito, ecco ciò che lui spiava alle sue spalle nel dipinto, per ingannare se stesso e la sua solitudine.
Mai più s’era voltato, dopo l’ultima volta, ad ammirare un mondo ricamato d’armoniose tinte celesti a cui aveva dato tanto, ma da cui non accettava nulla, nemmeno parole che dovevano incoraggiarlo a non spiare più oltre le sue spalle, ma a lasciarsi abbracciare dalla vita.
Lui fu capace solo di disprezzo, per timore di se stesso o per orgoglio, o per incapacità.
Mai l’aveva rimpianto.

In piccoli istanti che avevano la forza di centinaia cristalli di ghiaccio pioventi, sembrarono tornare a vivere due figure strette nel freddo, che nel gelo del passato erano rimaste scolpite, sotto i riflessi di una luna estranea che zampillavano sul lenzuolo di quel fiume, che entrambi solcarono su di un rumoroso battello, e che lei, quella donna non più ignota, coprì di gemiti silenziosi, gocce di un sibilo eterno, emesso dall’indimenticabile volto dei rimpianti, che diventava forse sincero con le sue illusioni, sapendo che quei momenti sarebbero rimasti lì, perle incastonate di quella notte lontanissima, che adesso, in quel viale immerso nell’inverno misterioso, stava ricominciando per loro, per altri deboli istanti ancora.

Lui le volle bene, semplicemente come emblema di ciò che anche lui avrebbe voluto essere, con la consapevolezza che sarebbe stato impossibile diventarlo. Rideva, rideva, il giovane professore, quando lei sosteneva che sarebbe stato un’amicizia eterna, un legame lungo più dell’età, lo diceva nei pochi momenti in cui sembrava che ciò fosse davvero realizzabile.
Ma lui conosceva l’orda distruttrice del tempo.

L’ultima volta che s’erano visti, mentre lei lo salutava con un “arrivederci” pur sapendo che ciò sarebbe avvenuto chissà quando, dopo un commiato che sapeva tanto d’addio, lui, consapevole la lasciò, annunciandole che se il destino li avesse fatti rincontrare, lei non l’avrebbe nemmeno riconosciuto.
Il tempo, li avrebbe uccisi entrambi, trasformandoli da come essi si ricordavano di essere.

Si era voltato, dopo che ebbe pronunciato quelle parole, nascondendo nella voce le lacrime che le spalle occultavano.
In tutti quegli anni, una volta sola, senti il bisogno di comunicare con lei, le scrisse così una lettera dove le rivelava dove viveva, dove insegnava, e che era felice, soddisfatto, menzogne che dovevano illudere entrambi.

Adesso quella lettera era posata di nuovo dinanzi a lui, ad esigere il fio per quelle menzogne, di cui s’era fatta messaggera anni addietro.
Lei, era madre, doveva esser anche moglie, ed era lì. Forse non l’aveva riconosciuto.
Forse per caso era lì, a confondere una realtà colma di finzioni, forse per condurlo, come un tempo, verso la vita, tendendogli quel nastro salvifico, nonostante anche lei sembrava giacere in basso adesso, nel dipinto dell’esistenza, anche lei vittima della speranza, una speranza di cui da giovane parlava con ardore, ma di cui ora non ne comprendeva più né il linguaggio né tanto meno le promesse.

Ed era triste, come in verità era sempre stata, in quell’ultimo attimo che il destino offriva loro.
La donna salutò l’estraneo con cordialità, per sempre, ma i ricordi non seppero più allontanarsi con lei.
Lui non rispose al saluto, si voltò di spalle, quasi rannicchiato su se stesso e i suoi occhi la spiavano allontanarsi nell’infinito, che forse lei aveva ancora volontà di conoscere. Che cosa sentiva di poter meritare da lei? Nulla, come nulla meritava quando erano entrambi ragazzi, quando lei gli sedeva accanto, e dal nulla gli diceva di volergli bene. Lui non le credeva. Non avrebbe mai creduto a nessuno che avesse mai detto di volergli bene, non avrebbe creduto ai sentimenti di nessuno nei suoi confronti, neppure se questi si potessero toccare, vedere, assaporare, e godersene fino in fondo.

Eppure lei pensava ancora che ci potesse essere qualche via di salvezza, perché? No. Non poteva essere così. Ma se invece lo fosse? Come avrebbe potuto non riconoscerlo?
E se invece fosse stato lui a non voler essere riconosciuto? Perché sempre egli aveva agito come credeva, e lei sempre aveva rispettato ogni cosa, pur soffrendo un terribile distacco che i suoi sentimenti non meritavano. E forse anche questa volta, questa ultima volta, è stata come sempre la stessa cosa, e lei, e lui, avrebbero accettato e patito allo stesso modo, senza pensare che fosse possibile cambiare il corso della storia di entrambi.

Pur ferito come da una lamina rovente, il professore che fino a quel pomeriggio uggioso credeva d’aver vinto, soffriva, per non essere mai stato anonimo al mondo come invece s’era illuso di essere,
Colui che lei cercava, esisteva ancora? Non l’avrebbe mai più saputo, perché era svanito con lei, nei ricordi, nei sensi di colpa, e nelle attese di quella donna.
Come le disse quel giorno, è stato poi per davvero.

In ogni caso, riconobbe che quella era l’ultima punizione che s’era inferto, sapeva che non avrebbe nemmeno meritato che lei lo riconoscesse, la vita lo puniva, esimendolo da quei sentimenti che lui non volle conoscere e che stimava troppo poca cosa per estinguere la colpa di esistere. E lui stesso era conscio di non aver mai vissuto, mai però la vita gli era passata tanto vicina, quanto in quel momento, offrendosi come ultima scorciatoia per rifiorire, dimenticando le macchie di un passato fin troppo mescolato al presente, denso di vergogna, e lui, quella vita, l’aveva lasciala andare oltre, senza catturarla.

Avrebbe continuato, nel disgusto di un copione che sembrava recitare identico ogni attimo, da sempre. Sarebbe tornato a casa, come se nulla fosse accaduto. Pronto a ricostruire quel fragile equilibrio di sopravvivenza, sospeso tra i due estremi di ricordo e speranza, ma che non avesse nulla né dell’uno né dell’altra, solo, murato vivo dal presente.
L’indomani avrebbe riscoperto il viale che s’affacciava sulla valle, avrebbe riassaporato le scene delle sue remote origini, si sarebbe recato nella libreria. L’avrebbe fatto soltanto con un indelebile rimorso in più da nascondere nella sua invecchiata marmorea espressione, e si sarebbe ancora di più ingannato dicendo, che in fondo, era quanto meritava, la sua colpa.

I monti pacati erano ancora prede del buio, le piccole luci tremanti come stelle in agonia cadute e stesesi al suolo, al freddo, sonnecchiavano appena.
I picchi lontani sarebbero rinati all’aurora, quando la mattina avrebbe ridipinto ogni cosa identica a come s’era assopita al tramonto, per un altro giorno in più, con nuovi sgualciti ricordi da riporre con cura negli stipi serrati, e una strada da percorrere al pomeriggio.
Sarebbe rinato identico il mondo anche per lui, che poteva solo immaginare da qualche parte oltre le colline, l’umanità vera e lontana che stesse brindando alla vita, nonostante non riuscisse a non credere, che nei preziosi calici che l’esistenza generosamente offriva nel meraviglioso convito, non ci fosse altro che nulla.


[the end]

4 commenti:

  1. Allora Alcor, me lo sono smazzato tutto. Il primo capitolo non mi è piaciuto, ben scritto ma troppo pesante, ti ammazza, e poi non succede assolutamente nulla, potrebbe benisismo essere eliminato e la storia potrebbe iniziare dal capitolo 2 (il mio preferito). Bello anche il capitolo 3 e parte del quarto, il finale un pò moscio. Lo stile è ottocentesco e anacronistico (è voluto, lo so, lo so) ma guarda che si può scrivere mirabilmente anche con uno stile moderno, "classico" non è per nulla sinonimo di "bello" anche i classici hanno scritto esimie porcate, però evidentemente è uno stile che senti tuo e che ti si addice. Lo scrivere difficile e aulico in ogni caso non è sinonimo di qualità a tutti i costi, è molto più difficile scrivere semplice e bello allo stesso tempo. Comunque il mio (irrilevante) giudizio è complessivamente positivo. Mi piace la tua penna (e non pensare alla fellatio cazzo!)
    ;-P

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  2. Prova a usare per gioco "l'inversione dell'aggettivo"
    Per farti un esempio:
    "i tranquilli passi" (incipit capitolo uno)
    posso diventare:
    "I passi tranquilli" non senti come è più semplice, moderno e bello? E così via.

    P.S. Vedo che "il culo" è venuto a molestare anche te oltre che Bango e Chuckirvine :-) ahahah avete fatto colpo oppure ci prova con tutti.

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  3. Allora Signora, per un attimo sbuco fuori dal muro e ti spiego. Se dovessi riscrivere questo racconto oggi probabilmente non lo scriverei affatto, o lo farei in maniera un tantino differente.
    Penso che ad uno sguardo attento come il suo non sarà sfuggita la differenza di stile.

    Questo racconto, così come altri, risale al 2001. All'epoca mi nutrivo ferocemente di Joyce.

    Ho deciso di pubblicarlo in questi giorni perché ho pressohé abbandonato l'idea di rivedere i miei vecchi  racconti, ri-modernarli, e di tentarne la pubblicazione.
    Pubblicati qui per non morire alla prossima formattazione di HD.

    Quanto alla sua analisi del testo concordo punto per punto. Solo che utilizzare un frasario elaborato mi dà gli orgasmi.

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