giovedì 14 febbraio 2008

Adotta un pirla, solo al tavolo di un bar










Il telefono continua a pungolare i miei assilli sonnolenti con singoli squilli saltuari, alla caccia di una risposta ad un dubbio trascurato. Ogni volta che qualcuno mi cerca mi assale sempre un attimo di sconcerto. La sera emetteva un freddo che intacca la stessa consistenza della pelle e la capacità di aprir bocca. Il sedile alla mia destra è vuoto in maniera surreale, la precoce notte raramente s’era accompagnata con la solitudine, e la consueta frequenza alla radio non passava la quotidiana solfa, ma stasera la musica è sempre la stessa. E resta fuori dai cancelli del mio pensiero, e adesso che farò, non so che dire. In questo luogo tanto detestato dove il fiato di chi scialacqua il dono della parola in orride espressioni, allo sgabello prossimo al mio, è peggiore di quel che s’emana da quel barilotto succhiato sino all’ultimo sorso dai sifoni dell’imperturbabile sconcezza. Sono qui, perché tu odiavi questo posto non per lo squallore dei suoi frequentanti ornati da sciarpe firmate, ma per la dubbia qualità del prosciutto crudo all’interno delle piadine. E l’arcangelo Gabriele sa quanto preferisco l’epatite alle idiozie che infestano l’aria. Sì, l’Arcangelo Gabriele… il titolare dell’Empireo non sa molte cose di me, m’ha sbattuto fuori di casa a calci nell’osso “sacro” perché non santificavo le feste, non onoro il padre e la madre, non rubo ma desidero spesso la donna d’altri. E di questo sono sinceramente dispiaciuto, e non faccio ironia. Un pianoforte ha sempre capito come cogliermi in contropiede, la verità che ti congestiona le vene e tira fuori il veleno dal sangue molto più contaminato dai miei pazienti e silenziosi assensi che ancora bruciano come l’unica vera vergogna per cui sentirmi dannato per sempre. La costellazione dell’Acquario è poco nitida nel cielo. Avrei acceso fiaccole in ogni pistillo di rosa per festeggiare ogni tuo sorriso riflesso nel tetro dei miei occhi nerissimi. Avrei cosparso di vento ogni angolo del tuo sguardo per ripulirlo da ogni polvere invisibile o inesistente che avesse potuto minare il chiarore del tuo viso con la sua impercettibile ombra sotto i tuoi occhi. Avrei scavato con la forza della mia mascella una galleria ai tuoi piedi sino al centro della Terra per consentire alle meraviglie di tutto il mondo di guardarti e venerarti strisciando ai piedi della tua bellezza. Avrei sputato in faccia alla mia balia se avesse provato a rimembrarmi un calore più fremente di ardore di quello che tu, intenta nelle braccia, cingevi intorno al mio collo distratto a volgere gli occhi all’aurora di Marte e al pendere di Cassiopea prima dell’approdo di Pegaso. I tuoi occhi distinguevano nel cielo tutto il sentimento che avevo covato e conservato nella speranza di non risvegliarmi mai dai sogni che mi proteggevano dall’incubo che quel castello di cera potesse sciogliersi ad minimo scorcio di verità fra le nubi della consuetudine. Mentre il dubbio ha scavato una fossa intorno ai miei occhi, uniche isole di supplizio nelle quali deprimere la mia volontà e il ripudio ancestrale verso ogni forma di loggia senza barriera pronta a spingerti nel baratro ad ogni tenue sussulto dell’equilibrio aereo turbato dalle ali di una disorientata farfalla a cui hanno reciso le antenne e cerca solo un petalo sul quale emettere l’ultimo dolce respiro.
Osservo lo stretto collo del piccolo bicchiere posato dinanzi ai miei occhi, e nel liquido rossastro vedo galleggiare a tratti e poi sedimentarsi piccole scaglie di una spezie di cui non so se riuscirò mai a cogliere la presenza nel sorso convinto e rapido. Se riuscirò mai ad isolare l’unicità del suo essere ed il senso del suo appoggiarsi sul fondo come relitto del mio dissesto annegato in quella brodaglia riscaldata dal tedio. Come le mie parole disadornate dell’abito candido che ricopriva un corpo ustionato dalla menzogna.
Questa solitudine non ha un sapore. Non mi assomiglia così come mi è del tutto insignificante vedere chi siede dall’altra parte di quello specchio, e che non ha più i capelli lunghi che ne ottenebravano la fronte e impedivano alle varie maschere di incollarsi ergonomicamente alla sua volubilità.
Stamattina ho incontrato la tizia della biblioteca armata di blocchetto e attenzione tra le date degli appelli e gli orari ricevimento dei scalda cattedre, non so se ha notato che c’era anche il mio di orario. Era molto carina al di fuori di quella scrivania che ne obliterava l’esistenza a studentessa part-time innestata nel disservizio generale tra volumi polverosi e roditori alla riscossa. Un caffè, le avrei potuto offrire un caffè e fare due chiacchiere. Si fa così, poi si racconta qualche idiozia inerente la propria slideshow di giornate pallose, fingendo e vituperando il discorso con qualche cavolata tragicomica che la faccia sorridere e che insomma riveli che in fondo sei un cordiale giullare che fa dell’autoironia un passaporto sereno per farsi prendere per i fondelli anche dallo scemo del paese. Confesso che a questo punto del mio flusso di coscienza mi pareva più consona una metafora parecchio in voga ma dai connotati scurrili. Lei avrebbe accettato il caffè, la mia ironia, la mia simpatia artificiale, non avrebbe capito un cazzo di nient’altro. Sarebbe uscita con me una sera, due, tre, quattro… le avrei riempito il sistema parasimpatico di un automatismo commuovente ad ogni mia scalata verbale sulle vette dell’anima che tanto ammaliano i cuori delusi e turbati delle docili belle addormentate che giocano a mosca cieca in una foresta di iene. In fondo la pietà per il tenero abbandono  sui morbidi cuscini dei miei “per sempre” hanno parecchio alimentato la mia perfida penetrazione nelle debolezze e nelle rassegnazioni violate.
Le parole salpate dalla mia lingua non mi appartengono un attimo oltre la deriva in cui si perdono nella mente di chi le accoglie. Ed un “per sempre” può durare persino meno di un istante se è profondo come il desiderio di riempire la propria vita di infinito. Senza catene e cappi di fibre intrecciate di steli di giglio.
Il caffè non preso con la ragazza della biblioteca si dissolve nella mente e nel fumo del sigaro di quell’ometto dai capelli che spruzzano a ciocche bluastre dietro le sue orecchie paraboliche. E non coltivo null’altro di queste note che un quieto ribrezzo verso la nostalgia di un’illusione. L’illusione che ci fosse una speranza dei deliziosi costrutti che un’infanzia piegata su ingialliti quaderni ha reso possibile nei polpastrelli variopinti di tanta venusta incapacità di tradurre la vita oltre la didascalia di un’opaca esistenza.
Hai portato via anche la stampella su cui ingannarmi ancora che quel passo claudicante mi appartenesse. E dai boccioli sparsi sembra sciogliersi un nutrimento di rancore verso null’altro che il mio respiro. Pretendo il silenzio meraviglioso della mia solitudine come unico ristoro. Dove riabbracciare gli inganni dell’età semplice, l’indipendenza agognata e fredda. Silenziosa, meravigliosamente silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri.
Scalavo ciliegi anni fa' come un furetto ai primi germogli, ora, invece, ci sono le ciliegie tutto l'anno, le fragole tutto l'anno, ma che ricordi avranno un giorno questi bambini…
Mia madre invecchia mentre la sua pelle resta ancora liscia e i suoi capelli neri come il mio vuoto.
Nessun uomo potrà essere mai amato come dalla propria madre. Ma questo silenzio si veste d’un ombra che inginocchia anche gli affetti inscindibili di un gomitolo che sfilaccia persino le trecce più solide. E non torni più, tu non torni nella solitudine della tua libertà, tua madre e il tuo albero non torneranno più.



E adesso che farò, non so che dire
e ho freddo come quando stavo solo
ho sempre scritto i versi con la penna
non ho ordini precisi di lavoro.
Ho sempre odiato i porci ed i ruffiani
e quelli che rubavano un salario
i falsi che si fanno una carriera
con certe prestazioni fuori orario

Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.

Ho speso quattro secoli di vita
e ho fatto mille viaggi nei deserti
perchè volevo dire ciò che penso
volevo andare avanti ad occhi aperti
adesso dovrei fare le canzoni
con i dosaggi esatti degli esperti
magari poi vestirmi come un fesso
per fare il deficiente nei concerti.

Non so se sono stato mai poeta
e non mi importa niente di saperlo
riempirò i bicchieri del mio vino
non so com'è però vi invito a berlo
e le masturbazioni celebrali
le lascio a chi è maturo al punto giusto
le mie canzoni voglio raccontarle
a chi sa masturbarsi per il gusto.

E non so se avrò gli amici a farmi il coro
o se avrò soltanto volti sconosciuti
canterò le mie canzoni a tutti loro
e alla fine della strada
potrò dire che i miei giorni li ho vissuti



Chiunque tu sia, che oltrepassi i miei arazzi arabescati. Non dirmi mai che mi vuoi bene. Perché sarà comunque una menzogna.  Ti farei a pezzi con le mie mani.

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