Una lenta dimenticanza
S. provò a cercarlo con lo sguardo il giorno seguente al loro incontro, ma non lo vide.
Trascorsero diversi giorni senza che succedesse nulla. Come se qualche evento appena trascorso, oppure qualche giorno ancora indugiante dietro l’angolo potesse sbirciare il suo occhio sul presente. R. era ritornato invisibile, inaccessibile, lontano, come se nulla fosse mai successo, oppure come se tutto fosse ricominciato da capo.
Ma non si trattava della sua capacità di far passare la sua presenza sotto silenzio, questa volta passarono diverse settimane intere senza che di R. si ebbe alcuna traccia.
A scuola avevano nominato un supplente ed S. aveva difficoltà a chiedere in giro cosa fosse successo, il perché di quella lunga assenza dal lavoro, anche perché provava un certo disagio nel chiedere e manifestare un interesse che avrebbe potuto destare qualche perplessità. Le capitò così per puro caso di sentire il nuovo supplente scambiare qualche parola con un impiegato e da questi apprese che il prof. R. era in aspettativa.
Non appena capì la natura di quella repentina assenza, restò vagamente sorpresa. Se ne era andato senza un saluto, senza un cenno, in fondo l'essere riuscita strappargli qualche dialogo aveva riempita moderatamente di soddisfazione. Per questo però avvertiva di aver maturato un particolare diritto a sapere qualcosa in più, almeno per rendere grazia alla inusuale curiosità che quello strano individuo aveva suscitato in lei.
Pensandoci qualche minuto davanti alla sua tazza di cioccolata calda, ritenne però che quella improvvisa scomparsa era perfettamente coerente con le caratteristiche bizzare che aveva imparato ad osservare nel prof. R. Per questo si sentì un po' sollevata da una'incomprensibile sensazione d'offesa e sgarbo che per un attimo aveva creduto di provare.
Si strinse nelle spalle e tornò al suo lavoro in quella mattina chiara e soleggiata.
Il trascorrere dei giorni aveva sedimentato pensieri che drenavano la sua distratta contemplazione verso quella figura inaccessibile con sempre minore frequenza, una lenta dimenticanza che si scioglieva nei giorni.
S. non seppe mai se fu un caso, o se fu uno scherzo della sorte, e pur ripensandoci a lungo alla luce di quello che le sarebbe sucessivamente accaduto, non seppe mai darsi una risposta precisa. Una mattina a scuola, mentre indugiava nella sala professori a completare il suo registro, le parve che una strana sagoma molto alta avesse attraversato il corridoio dinanzi a lei. Non fece in tempo a catturare l'immagine nel suo sguardo che questa era già sparita, e raggiunta celermente la soglia s'accorse che il corridoio era deserto. Lasciò le carte del suo mestiere disordinatamente sulla scrivania dove era stata intenta fino a quel momento, raccolse la sua borsa, e nel prenderla le sembrò di vedere l'impronta di un calcione ed i contorni di un ricordo.
Non c'era molta gente in giro, in uno dei tanti meriggi che cominciava ad assolare le strade e a smorzare gli intenti.
Giunta davanti alla macchinetta del caffè, S., guardandosi intorno, vi inserì nervosamente le monete, l'ultima di questa le cadde maldestramente a terra. Mentre si piegava a raccoglierla le sembrò di udire un passo familiare, lento e silenzioso. Allungò la schiena ed il collo per scrutare eventuali presenze e s'accorse che qualcuno effettivamente c'era. Prese il suo caffè rapidamente, e bevendolo si avviò verso la sala professori. Vi entrò. Scorse tra il bicchiere di plastica e la mano che lo reggeva, una figura. Ebbe un sussulto.
Era solamente il preside.
Pensò che per quel pomeriggio ne aveva avuto abbastanza. Raccolse le sue cose e andò via.
Mentre si avviava verso la sua macchina le squillò il telefono, aprì lo sportello, gettò confusamente la sua roba, e rispose.
"Ecco un fantasma che torna a farsi vivo", pensò, salutando un vecchio conoscente che non sentiva da tanto tempo. Un sorriso si spalancò sul suo viso. Per tanto tempo aveva sperato di ricevere quella chiamata da quella persona. E mentre ogni singolo pensiero e ogni lieta fantasia si dirottava improvvisamnte verso colui che la stava cordialmente invitando a riincontrarsi dopo qualche anno di lontananza, ogni minimo guizzo della memoria che per un attimo la stava confondendo in segnali che accendevano l'immagine di R. nella sua mente, si spegneva inesorabilmente lasciando tutto il suo cielo a disposizione di quell'inatteso incontro, così tanto sospirato...
Continua...
Ce ne sono tanti di avanzi di cabaret (ovunque, non vorrei essere giustamente accusato di essere parziale, pur essendolo abbondantemente ed orgogliosamente), ma pochi riescono a farmi andare di traverso il brodino come quest'uomo. Sempre lì, fido e costante alle spalle del padrone. Lo avvolge con la sua presenza, appiccicato col veltro alle spalle del boss, a farsi venire la gobba come il dromedario di Alì Babà. E' il verbo pubblicitario incarnato nel seno di sua madre e fattosi persona per annunciare a noi tutti i suoi formidabili mega-spottoni deliziosi.

Il prof. R. aveva capelli nerissimi tra i quali la luna avrebbe confuso il suo alveolo dissipando le notti in un cielo sbagliato.
Oh, qual nobile mente è qui sconvolta! Occhio di cortigiano, lingua di dotto, spada di soldato; la speranza e la rosa del giardino del nostro regno, specchio della moda, modello d'eleganza, ammirazione del genere umano, tutto, e per tutto, in lui così svanito!... Ed io, la più infelice e derelitta delle donne, ch'ho assaporato il miele degli armoniosi voti del suo cuore, debbo mirare adesso, desolata, questo sublime, nobile intelletto risuonare d'un suono fesso, stridulo, come una bella campana stonata; l'ineguagliata sua forma, e l'aspetto fiorente di bellezza giovanile guaste da questa specie di delirio!... Me misera, che ho visto quel che ho visto,e vedo quel che seguito a vedere!
Da qualche giorno la voce nella segreteria era pressoché sempre la stessa, era come se quell'aggeggio avesse rubato un'anima e se la fosse bevuta nei circuiti. L'immaginazione che associa un viso ad una parola aveva quasi rimosso un volto per associare quella cadenza e quelle tipiche espressioni ad una spia rossa ed intermittente. Sollecitazioni quasi del tutto sistematicamente ignorate. Dove stava? Come stava? Cosa faceva? Perché non chiamava? A che cosa serviva dar conto di tutto questo... Se quella che ormai era diventata solo un led su una scatolina nera coi pulsanti grigi lo conosceva almeno un po', avrebbe già dovuto comprendere che la distanza non era un confine scavato dal rancore, ma un solco che si nutriva da sé, tra la piazza gremita e l'inquieto silenzio. Spiacente vocietta dispiaciuta e sempre più incalzante, ma non si torna indietro; un'onda del mare non rimetterà mai nello stesso antro la sabbia sollevata dall'impeto. Quando tutto si sconvolge e la verità appare più infame, sarebbe meglio intascare il biglietto di sola andata dell'ultimo treno, le ruspe sono pronte a demolire anche questa stazione nel deserto. Da qui puoi andartene, ma non sarà qui che farai ritorno.
9:32 - Casini: "Cuffaro è stato perseguitato, sarà candidato"
Il telefono continua a pungolare i miei assilli sonnolenti con singoli squilli saltuari, alla caccia di una risposta ad un dubbio trascurato. Ogni volta che qualcuno mi cerca mi assale sempre un attimo di sconcerto. La sera emetteva un freddo che intacca la stessa consistenza della pelle e la capacità di aprir bocca. Il sedile alla mia destra è vuoto in maniera surreale, la precoce notte raramente s’era accompagnata con la solitudine, e la consueta frequenza alla radio non passava la quotidiana solfa, ma stasera la musica è sempre la stessa. E resta fuori dai cancelli del mio pensiero, e adesso che farò, non so che dire. In questo luogo tanto detestato dove il fiato di chi scialacqua il dono della parola in orride espressioni, allo sgabello prossimo al mio, è peggiore di quel che s’emana da quel barilotto succhiato sino all’ultimo sorso dai sifoni dell’imperturbabile sconcezza. Sono qui, perché tu odiavi questo posto non per lo squallore dei suoi frequentanti ornati da sciarpe firmate, ma per la dubbia qualità del prosciutto crudo all’interno delle piadine. E l’arcangelo Gabriele sa quanto preferisco l’epatite alle idiozie che infestano l’aria. Sì, l’Arcangelo Gabriele… il titolare dell’Empireo non sa molte cose di me, m’ha sbattuto fuori di casa a calci nell’osso “sacro” perché non santificavo le feste, non onoro il padre e la madre, non rubo ma desidero spesso la donna d’altri. E di questo sono sinceramente dispiaciuto, e non faccio ironia. Un pianoforte ha sempre capito come cogliermi in contropiede, la verità che ti congestiona le vene e tira fuori il veleno dal sangue molto più contaminato dai miei pazienti e silenziosi assensi che ancora bruciano come l’unica vera vergogna per cui sentirmi dannato per sempre. La costellazione dell’Acquario è poco nitida nel cielo. Avrei acceso fiaccole in ogni pistillo di rosa per festeggiare ogni tuo sorriso riflesso nel tetro dei miei occhi nerissimi. Avrei cosparso di vento ogni angolo del tuo sguardo per ripulirlo da ogni polvere invisibile o inesistente che avesse potuto minare il chiarore del tuo viso con la sua impercettibile ombra sotto i tuoi occhi. Avrei scavato con la forza della mia mascella una galleria ai tuoi piedi sino al centro della Terra per consentire alle meraviglie di tutto il mondo di guardarti e venerarti strisciando ai piedi della tua bellezza. Avrei sputato in faccia alla mia balia se avesse provato a rimembrarmi un calore più fremente di ardore di quello che tu, intenta nelle braccia, cingevi intorno al mio collo distratto a volgere gli occhi all’aurora di Marte e al pendere di Cassiopea prima dell’approdo di Pegaso. I tuoi occhi distinguevano nel cielo tutto il sentimento che avevo covato e conservato nella speranza di non risvegliarmi mai dai sogni che mi proteggevano dall’incubo che quel castello di cera potesse sciogliersi ad minimo scorcio di verità fra le nubi della consuetudine. Mentre il dubbio ha scavato una fossa intorno ai miei occhi, uniche isole di supplizio nelle quali deprimere la mia volontà e il ripudio ancestrale verso ogni forma di loggia senza barriera pronta a spingerti nel baratro ad ogni tenue sussulto dell’equilibrio aereo turbato dalle ali di una disorientata farfalla a cui hanno reciso le antenne e cerca solo un petalo sul quale emettere l’ultimo dolce respiro.
Ce la posso fare, sì, sono pronto... sono quasi pronto, mi basterebbe solo un altro mese, anzi due, facciamo anche tre, ma se mi ci impegno mi basterebbe anche una settimana. Lo sapevo che l'avviso sarebbe arrivato prima o poi, lo sapevo perché è scritto nel regolamento del mio lavoro che ogni sei mesi dobbiamo rendicontare su quello che stiamo facendo. So anche che i mesi si son dati la mano per volatilizzarsi in un lampo lasciandomi senza aver concluso un accidenti. Con le idee più confuse di un tapiro in cerca di formiche in Siberia. Son due giorni che riempio la mia stanza di una bella canzone che dovrebbe suggerirmi dei pensieri. Il fatto è che determinati pensieri su determinati argomenti non fanno breccia nel mio cervello, franano come le radici della lattuga in un terreno d'argilla. Sono così rivestito d'indifferenza che non provo nulla. Asciugato, intonso, a tratti quasi invincibile. Così calcolatore e razionale dal non sopportare tutti i passaggi di un'equazione lineare nelle umane interazioni, così tremendamente semplice, ma così carica di inutili tautologie. Le possibili variabili esogene del modello: io ed un'altra qualsiasi persona col cervello e vagina-dotata, che appaia più o meno gradevole ai miei occhi e non solo, che sappia formulare i periodi ipotetici con necessaria correttezza, che abbia una cognizione alquanto precisa della consecutio temporum, che non mi annoi in quelle due ore che dovessi decidere di concederle ciarlando circa corbellerie variegatamente assortite; l'output dell'equazione: un tranquillo, scontato e così razionalmente placido scambio di fluidi. Non ho più la testa adeguata per annusare, insinuare, far trapelare scabrosi intenti tramite pastrocchi ritmati abilmente artefatti in suadenti sonetti che fungano da testa d'ariete nelle mura di cinta dell'ipocrita consuetudine del cerimoniale sancito da un falso buon gusto. 