mercoledì 30 gennaio 2008

Una maschera bianca

Quel tardo pomeriggio era piombato nella sua vita come un indigesto polpettone che mediante frequenti conati singhiozzanti, segnalava la propria tenace resistenza alla bile e agli acidi duodenali, nonostante fosse stato trangugiato diverso tempo addietro, e nonostante i diversi forsennati tentativi di liberarsene.
Sedeva al suo consueto tavolino all’angolo della vetrata del Caffè, sorseggiava una tazza contenente una dolciastra miscela liquida a base di Cointreau, Baileys e Zabov, ben riscaldata, mentre con la mano sinistra reggeva il suo giornale che copriva un biglietto recante queste parole: “Quando ti rivolgi alle persone con saccenza, in maniera presuntuosa e tronfio del tuo sapere scompari...non esisti più. Non è di alcun valore lo sfoggio che tu fai di te stesso...non ti fa una persona migliore, umanamente parlando. Non hai la capacità di rapportarti al normale e questo è francamente molto triste. Che tu ti sia costruito il personaggio di colui che ha grandi contenuti è comprensibile, e in fondo è anche vero... ma che tu tramite questo personaggio bistratti gli altri, con parole sulle quali dovresti riflettere, è francamente inaccettabile.” Un biglietto che teneva ben saldo come un asso di cuori da calare alla puntata decisiva, ed i suoi semoventi occhi sorridevano dietro le lenti scure.
Attendeva, come sempre gli accadeva di fare, dacché coltivava il vizio di precedere i  suoi appuntamenti. Tutto intorno un pullulare di zanzare disgustose che reggevano bicchierini adornati di ridicoli ombrellini e cannucce, ridendo, schiamazzando, sorridendo placidamente al lerciume esistenziale, ragliando.
Scomodamente appoggiato alla sua poltroncina pensava alla compagna di viaggio che lo aveva lasciato con quella piccola missiva, fattagli recapitare un giorno lontano nella sua camera d’albergo, insieme ad un sacchetto in cellulosa gialla contenente le spoglie di un mazzo di fiori tritato dalla rabbia insieme con la cordiale frasetta di scuse, corredata dalla canonica istanza di perdono, ed in allegato, le solite ipocrite promesse di una vita migliore, di un rapporto più equilibrato, con la patetica declamazione di impegnarsi a rimuovere la propria impazienza congenita. 
Da quel giorno visse ogni esperienza ed ogni incontro come l'albero di una zattera senza né poppa né prua, vacillando alla marea degli entusiasmi, sforzando di farsi assalire da una candida accondiscendenza verso tutti, elargendo sorrisi come il benefattore di orfanelli abbandonati al destino, a cui però non  riusciva di tendere la mano sfilandosi il rigido guanto di pelle. Parlava senza guardare negli occhi.
Quel pomeriggio era un atto di cortesia previsto dalla sua cura riabilitativa trascinatasi stancamente nel tempo dopo l’epifanica autocoscienza sulla sua primordiale sociopatia. Era stato lui a cercare colei che si stava sfilando l’impermeabile bianco di fronte a lui. L’aveva conosciuta qualche tempo prima durante una ricerca agli archivi, quel giorno lei inforcava lenti riposanti con una montatura rosa. Normali frequentazioni che in poco tempo avevano messo a nudo le debolezze di entrambi ed un fuoco di paglia affettivo che lei aveva poi lasciato estinguere lentamente, senza ragione, senza notificargli alcun avviso di sfratto dal novero dei contatti rilevanti. Lui era sempre stato tutt’altro che invulnerabile e lei lo aveva piegato brevemente a parafulmine delle sue burrasche emotive. L’affetto che cede troppo frettolosamente il passo alla fiducia e alla faciloneria, per provare a gettar via definitivamente la maschera bianca e farsi accarezzare da quelle parole cariche di sensuale trasporto, riconoscendone il reale tepore, non aveva fatto altro che spogliare la sua schiena dinanzi alla frusta. L’aveva richiamata per chiederle semplicemente come stava, nella agognata signorilità che intendeva sottendere ad ogni suo gesto. E lei si era lasciata nuovamente avvolgere dal suo abbraccio, chiedendogli di stringerlo, mentre ancora finiva di piangere lacrime calde da quel suo occhio annerito dagli ultimi pugni presi dalla vita. E lui aveva acconsentito a cingerla.
Ora lui sorseggiava piano il suo dolce intruglio e la ascoltava parlare. Ascoltava i suoi progetti e le sue ansie, le sue difficoltà e la sua voglia di riscatto sbandierata in aria con una gestualità degna di una pala eolica a Trieste. Ed una frase intercalava i suoi discorsi pronunciati con verbi in tempo futuro ed in prima persona plurale, la frase “ti voglio bene”. Lui assorbiva in silenzio mentre le disgustose zanzare non erano più solo un ronzio fastidioso. La sua mente rimbombava di quel ti voglio bene, di quel “faremo”, “andremo”, “vedremo”…rimbombava di quella semplicistica capacità di girare pagina e dare tutto per scontato, vanificando in un attimo tutta la sozzura che lui aveva dovuto mandar giù per accettare di essere stato trattato come un viscido fazzoletto usato. E lei piano piano lo ergeva ad eroe e salvatore di un’esistenza scomposta e squallida, lei così convinta finalmente di farsi afferrare dalle sue braccia per sempre, così decisa e convinta a farsi sollevare dai sentimenti del costui silenzioso e dallo sguardo celato dalle lenti scure, costruiva intorno a quell’immagine di loro due la sua speranza di riscatto, e tenero giaciglio per le sue ferite.
La mente di lui rimbombava, e intorno alle zanzare una feccia idea si spacciava per felicità e speranza. E sentiva premere un sangue ribollente dalle cicatrici inferte dalla frusta sulla sua pallida schiena. L’ultima speranza di lei e l’ultima umiliazione di lui.
Mentre lei quasi piangeva nel tratteggiare le emozioni della loro comune rivincita contro la vita, cominciava a piovere forte e le zanzare si moltiplicavano rubandogli l’aria e abusando del suo respiro. Allargò il nodo della sua cravatta per lasciar riempire la laringe nella lurida caccia all’ossigeno intentata contro i vermi. Lasciò che il giornale si abbandonasse sul tavolo e vuotò la tazza leccandone l’orlo cremoso. Lei aveva completato il suo monologo incessante e gli allungava le dita elemosinando il suo amore e le sue parole. Lui s’alzò e la circondò coi suoi passi fermandosi alle sue spalle. Posò le sue mani ai lati del suo innocente collo e prese a farle un’impercettibile massaggio con i palmi e i pollici. Lei dondolava lievemente e dolcemente palpitava a quei docili sussulti. Sospirando. Mentre lui guardava fuori la pioggia diventare sempre più intensa. Guardava il ribrezzo verso tutti i pidocchi che lo circondavano nella calca del locale, e a cui doveva l’asfissia delle narici ed il sudore alla schiena. Ne sentiva l’odore e ne odiava l’esistenza. Ciarlare e gracchiare sul niente che riempiva le loro deplorevoli insensate vite. Li avrebbe presi uno per uno per la gola e schiantati contro un muro senza alcuna ragione tranne che per la loro stessa colpa di essere. Mentre la figura tra le sue mani sospirava e gemeva. Lei provò a poggiare le sue mani su quelle di lui per trascinarle in basso, farlo chinare e strappargli un bacio. Ma la morsa di lui si faceva più stretta intorno al suo collo ed il volto di lei si atterriva di un atroce presentimento. Lui si chinò sul quel viso agghiacciato, ne sentiva il freddo profumo, e baciandola intensamente dietro l’orecchio, abbandonò la presa, la testa e la vita di lei sussurrandole adagio: “fottiti…”.
Raccolse il cappotto e si avviò verso l’uscita. Un sorridente giovanotto lo raggiunse chiedendogli il pagamento del conto. Offre la signora - rispose lui senza curarsi di nulla. Mente cominciava a bagnarsi sotto la pioggia ripose i suoi grossi occhiali scuri nella debita custodia e stringeva il biglietto mai lasciato tra le dita. Rileggeva quelle parole come una sentenza, uno specchio ed una maschera di  cui non si sarebbe mai potuto privare del tutto. Una ragazza lì vicino riconobbe in quell’alto signore vestito di nero, e senza ombrello, l’attore che la sera prima aveva applaudito in teatro. Lo avvicinò con discrezione e riverenza chiedendogli se avesse bisogno di un riparo. Lui piegò il suo sguardo sulla creatura che gli rivolgeva la parola, la guardò con sdegno e commiserazione. No – rispose, e sputando in terra a pochi centimetri dagli stivali di lei, si allontanava sollevando il bavero del suo cappotto e lasciandosi alle spalle minuscoli pezzettini di carta di un vecchio biglietto. Non sarebbe guarito, la partita era persa, un asso di cuori non l’avrebbe salvato.

5 commenti:

  1. A volte, occorrerebbe stringere.

    E stringere.

    E stringere.

    Del resto, il viola è il colore di quest'anno.

    RispondiElimina
  2. Si ma poi chi avrebbe pagato il conto? I misantropi sono tirchi per definizione...;-)

    RispondiElimina
  3. Avrei offerto io...

    Valeva il prezzo del biglietto, il tuo drink...

    RispondiElimina
  4. ...un certo punto di questo racconto così sapientemente narrato, mi ha evocato, per associazione di idee, la scena che sempre immagino quando ascolto Scirocco di Guccini. Dettagli diversi, sensazioni simili. W l'immaginazione (mia).

    E complimenti :-)

    RispondiElimina
  5. ...Tu dietro al vetro di un bar impersonale,

    seduto a un tavolo da poeta francese,

    con la tua solita faccia aperta ai dubbi

    e un po' di rosso routine dentro al bicchiere:

    pensai di entrare per stare assieme a bere

    e a chiaccherare di nubi...

    RispondiElimina