venerdì 20 giugno 2008

Because the night






No, non urlate sobillando la bianca voce di un giorno bambino. Rapito al suo giaciglio dalla fioca luce d'un lanternino nascosto che non vi disturberebbe se foste lieti nelle vostre alcove.
Lasciate che io scriva per riempirmi di quel tempo che a voi ha spezzato l'insonnia.

Scrivevo silenzi, notti, notavo l'inesprimibile, fissavo vertigini. Vergando le espressioni strozzate durante il giorno dalla amara cognizione di vivere mediante parole melliflue, e per me fredde.
Nell'insufficiente sforzo di voler tratteggiare i guizzi dell'anima, già estranei alla voce che svilisce quel silenzio dove si sussurrano i migliori propositi.
 
Sostituirsi indegnamente a una mano, far secernere una lacrima e destarle un palpito.
Per rubare scaltro al suo volto una carezza di cui serbare il caldo ricordo tra le pieghe della mano, poter asciugare il mio pianto con la sua commozione, farle battere in seno quel mio tumulto che non so dipingere con nessun colore dell'iride, né con altre meticce armonie di pastelli.
Una sera, mi son preso la Bellezza sulle ginocchia. Ho steso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d'oro da stella a stella, e danzavo.
La notte non è mai stata tanto somigliante al buio pre-natale che aveva atteso sino a quell'istante.

Insegna alle torce come splendere. Sembra pendere, nella luce che le sogno sul volto, come ricca gemma all'orecchio d'una vestale, illuminata dalla luna piena in una mite notte sulle sponde di Illiria. Ma è bellezza di un valore immenso che mai nessuna cosa avrà, troppo preziosa per la terra.
Come colomba bianca in una lunga fila di cornacchie sembra la fanciulla che canta, tra le compagne che recitano a memoria il loro salmo indisponente.
La voglio vedere dopo questo ballo; come sarei felice se la mia mano rude sfiorasse quella sua. Ha mai amato il mio cuore? Negate, occhi! Se mai ne foste capaci: che prima di quella notte non avevo mai veduto la bellezza.

Perchè la notte cancella ogni riga tra i mattoni del muro, e lima ogni incavo prodotto dai pugni lì sferrati. Trasforma una distanza che sembra ancora infinita, nonostante l'abbia percorsa, in una pagina che si sfoglia in un nonnulla. Come l'intervallo maestoso che giace tra un saluto interrotto bruscamente, e una mattina ventosa che non consente allo sguardo di ripararsi dietro ai sottili capelli che lo investono di profili persuasivi e sfuggenti, come un orizzonte colorato da un'aurora che monta come un pallore incalzante. Una timidezza ed una reticenza che risalgono abbracciati col giorno.

Ma la notte, lasciate che scriva... lasciate che viva, lasciate che il sonno avvolga la carne di chi non ha pensieri che scorrono come cavalli impazziti attraverso i sentieri lungo i quali bolle un sangue che conserva un dolciastro sapore sulla saliva.
Lasciatemi perdere, se non smetto di contemplare. Lasciatemi perdere, se a bruciare saranno le mie  pupille, e a farsi contaminare dalle radiazioni saranno i centrioli delle mie cellule.
Lasciatemi perdere se mi sorge spontaneo ringraziare le gambe indolenzite, e un livido dolorante sul piede destro rimediato da un pestone, che mi strappano via la quiete a cui attecchisce normalmente il sonno.

Perché nel sonno involontario si scivola via nella scommessa di un sogno, guidato sì da un desiderio, ma non dalla smaniosa volontà di esserci fino in fondo. Restare zoppamente svegli a disegnare la propria immaginazione è più rassicurante, confortevole, più semplice e voluttuoso che affidarsi agli incerti esiti di un sogno.
Forse è più vile. Ma non lo si può comprendere il sollievo.
Non è mai notte quando scolpisco il tuo volto dinanzi a me; né che la strada sia spopolata e solitaria, perché tu per me sei il mondo intero; e chi potrà dunque dire che io sia solo, immaginando che il mondo sia qui a guardarmi?

Salterà la sveglia alle 6.00. I mugugni diventano fastidiosi ronzii che innescano dormienti propensioni alla fuga, o alla strage. Scrivere su un taccuino di notte alla penombra luminiscente che da fuori giunge, è un nuovo modello recanatese senza gobba, ma con la sola cecità prossima ventura.
Giunge un suono plumbeo di monetine raccolte in secchielli, probabilmente rinvenienti dalle macchinette videopoker del bar.
Tutti i suoni diventano più aguzzi, e i pruriti più cacacazzi.
Mi fa male la caviglia, e mi accorgo di avere un piede.
Capperi mi batte qualcosa nel torace, perfino a me...
Non vado più a correre al mattino prematuro. Non riuscirò nemmeno a lavorare.
Dannate batterie al litio.
Bene così.

E tu, vivi. Vivi per essere la meraviglia e l'ammirazione del tuo tempo.


A te piega il cuore in solitudine
esilio d'oscuri sensi
in cui trasmuta ed ama
ciò che parve nostro ieri,
e ora è sepolto nella notte


S. Quasimodo

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