martedì 3 giugno 2008

Age of school memory




Che se amo l'Inglese c'è una ragione profonda.
Non si poteva ascoltare quel tuo accento e quella tipica inflessione che al solo ricordo evoca le verdi reti cinte di galleggianti impetroliati, attorno alla quale relativa mucillaggine s'inerpicavano i vispi ed epatitoferi mitili dei due mari.
Tant'è che ti rimembro ancor, quando bruttezza splendea negli zigomi tuoi scavati da una ruspa marina alla ricerca di bombe inesplose del dopoguerra, quando sovente mi capita di transitare dinanzi ai pur odorosi molluschi e crostacei succulentemente e diossinamente esposti sui banconi di Cicce u'gnure, accanto alla bancarella che traffica magliette tarocche di Ibrahimovic e Kakà.
Viso perennemente abbronzato, e quel mento appuntito che s'allungava oltremodo innanzi, quando strisciavano le tue labbra, lingua e incisivi abnormi al complicato pronunciare dell'allora complessissima -th inglese; che se mi riaffiora alla mente quel suono quasi quasi mi fa guarire da quest'attuale fase di insensibilità estrema che non patisco soltanto io, ma anche la mia inguinal proboscide ipotecata dai sentimenti.
Che fregatura. Lo dico sempre io.

Che se anche eri racchia, dopo un anno circa non è che questa cosa me la ricordassi più. Magra come un tronco smunto interrato a guisa di menhir per condurre i cavi del telefono, nell'era del satellite e delle radiazioni cancerogene che fanno un baffo alle intossicazioni da cozza cruda... E quella tua patologica concavità pettorale, così coerente nell'insieme dei severi lineamenti del tuo volto racchiuso nella folta e lunga chioma scura, e del metallurgico temperamento, che ti bastava uno sguardo lancinante nell'aere per far sgretolare le palle al più fiero e temerario dei tuoi dirigenti.

E ciò che ammiravo nella tua assolutezza era quella distanza dalle poltrone del comando, quelle che non meritavano la tua smisurata intelligenza, e che ergonomicamente s'adattavano ai deretani dei più ignoranti.

Eri così puntuale dietro la porta allo scoccare della campanella da non lasciare neanche il tempo di pensare ad una minima forma di casino, annichilendo tutto intorno a te trionfavi con la tua austera e saggia, e filiforme freddezza. Quella freddezza da cui non trapelava nulla e rendeva quella tua inespugnabile vetta così tremendamente ghiotta allo sguardo di chi non si accontenterà mai del materno sorriso, così scontato e banale, al quale non c'è bisogno di chiedere e conquistare nulla... Ancor lo ricordo quando correggesti il primo compito in classe, e ce lo consegnasti il giorno dopo con una efficienza che rasentava la perfezione ineguagliabile. E quel 7 che mi affibbiasti e che non mi sono mai scrollato di dosso finché ci sei stata...
Perché mi cacavo addosso dalla adolescente fifa al solo immaginarti, per poi mutare col tempo radicalmente reazione al sol pensiero di te, brutta come il debito, ma terribilmente affascinante. Perché col passare dei mesi lentamente si scioglieva l'angusta placca da generalessa e veniva via via fuori una lontana parvenza di donna umana e sorridente, disponibile, riferimento certo e sincero.
In quella minima e invalicabile distanza vidi quasi un'amica, quella alla quale non avrei mai chiesto aiuto, che non m'avrebbe mai confidato nulla, ma che non c'era bisogno di sperimentare per riconoscere e mettere alla prova.

E noi, burloni senza pensieri ce lo chiedevamo spesso se esistesse qualcuno che te lo riusciva ad infilare per via del tuo fisico così scientificamente alieno all'essere erezionogeno. Scoprimmo infine ch'eri pure maritata e con un individuo alquanto facoltoso. Anche se il tuo non esser madre a quell'età poteva giustificare qualche ragionevole dubbio... ma a me non importava...
Al che il tuo mito per me accrebbe. Non per i soldi del consorte, ma per la sensazione di perfezione che intorno tutto richiamava. E la definitiva epifania giunse quando una volta chiedesti la consegna del compito con queste parole: "The time is gone... the song is over..." ed io che come da abitudine avevo già consegnato da tempo non riuscii a non risponderti: "..thought i'd something more to say". E sorridendomi mi guardasti ponendo in essere una sottile liaison psicologica che è tra i ricordi più belli di quegli anni.

Perché lo sentivo, cavolo, che mi volevi bene... forse non più di quello che volevi agli altri, ma quel bene è speciale ed inviduale e proprio di ciascuno che lo riceve. Perché tu sì che sapevi come muoverti tra la dolcezza ed il rigore, con le carezze e lo scudiscio, nella tensione machiavellica tra amore e timore che elevano il leader al di sopra di ogni altro simile del suo seguito.
Perché se non mi fosse capitato di aver conosciuto l'amore forse avrei potuto confonderlo con l'ammirazione totale che ebbi per te. Perché amore e ammirazione devono insistere per me sul medesimo oggetto, altrimenti non c'è storia. Perché sono talmente imbevuto di me da non poter mai lodare e adorare chi non mi suscita un minimo di ammirazione.

E nonostante le diverse e molto più attraenti signore che guardavo dall'altro lato della cattedra tu fosti l'unica alla quale mi decisi a scrivere.
Che quella mia aria repentinamente oscillante tra il malinconico e il birbante ti incuriosiva, e ciò mi onorava tu non potresti neanche immaginare... E quantunque di cortesi missive ne abbia compilate innumerevoli, quella lì che ti porsi una mattina, mentre raccoglievi i tuoi libri e i tuoi registri, non la dimenticherò... con quel mio ancora acerbo (16 anni) "I never met a woman as good as you"... così tanto sentito da non farmi tremare le caviglie in vista di una tua eventuale reazione.

Conoscendoti pensai che saresti tornata il giorno dopo, che mi avresti chiamato in disparte, che avresti tirato fuori il mio foglietto dalla tua enorme borsa di pelle che tu definivi "un emporio", e che avresti imprecato dinanzi alle mie turpi inesattezze grammaticali, quelle che non mi schiodavano dai tuoi 7.
Invece nulla di tutto questo, ed io temevo soltanto che tu avessi cestinato quel mio ardito tentativo di arrivare a quella tua vetta d'umanità profonda. Lo sentivo, lo percepivo che invece avevi letto, perchè non potevi tradirmi proprio in quel momento. E non senza ansia, attendevo il conseguente conguaglio del mio atto... Mancavano pochi minuti e camminavi ancora tra i banchi leggendo un passo del MacBeth.

Passando dinanzi al mio posto ti cadde, o forse lasciasti che cadesse, un foglio ed io te lo raccolsi. Senza smettere di leggere Shakespeare, intercalasti la tua lettura con il tuo tipico "thank you".
Ma dopo qualche istante ti fermasti e voltandoti verso di me, ma senza guardarmi lasciando gli occhi sulle pagine, aggiungesti : " And... thank you for all, Alcor..." .
Cristo, e non hai alzato gli occhi dalla pagina non per fierezza, ma perché ti sentivi violata nella tua umanità, lo sentivo, lo vedevo tra le ciocche lunghe che ti coprivano il viso abbassato; che quella minima e invalicabile distanza non c'era più. Manco se t'avessi inculata.
Avevo vinto, e la vetta era scalata.

Ce lo dissero l'estate seguente. Che tuo marito ti venne dentro. E che potevo dire addio alla speranza che Joyce me lo potessi insegnare tu. Perché lo sapervo che era anche il tuo preferito. Venne una demente da ricovero psichiatrico. Il resto è solo la cronaca di un bel rimpianto.

Ci incontrammo dopo un anno nella tua città e tu portavi a spasso il pargoletto, salutasti tutti con un affetto mai visto in te prima. Ma il gioco delle parti non aveva più ragion d'essere. Io ero nelle file retrostanti i più appariscenti della compagnia. E tu individuandomi un po' distante mi salutasti chiamandomi per nome (e non per cognome), unica volta che te lo sentii pronunciare...

- Come stai?

- Io bene, e a lei professoressa, come va?

- Oramai sembriamo agli antipodi io e te...

E non seppi che cazzo rispondere, così mi limitai a sorriderle, questa volta davvero con un sorriso dissociato.

La salutammo perché ci apprestavamo ad assistere ad uno spettacolo di un'opera di Abraham Yehoshua, Possesso.
In quell'opera i membri di una famiglia si trovano a fare i conti con la scomparsa del padre/marito, e ciascuno di essi reagisce all'evento con qualche paranoico atteggiamento teso a malcelare l'ingombrante senso di sgomento e di colpa che sopraggiunge quando non si ha amato abbastanza.
Così il figlio era frequentemente preda di attacchi febbrili e iniziava ad avere problemi con la moglie, ossessionato da una sua prefazione ad una edizione israeliana de La Metamorfosi di Kafka, nella quale riviveva il suo tormentato rapporto col padre; la figlia decideva di voler troncare il suo rapporto con il marito ma senza la giusta convinzione; ed infine la madre/moglie che tentava di regalare a chicchessia qualcosa della sua casa, che la spogliasse non solo dal "possesso" materiale, ma del senso di colpa, del rimorso...

Eravamo alla fine del secondo atto, quella sera a teatro, ed accanto a me era seduta una signora anziana all'apparenza ricchissima. Una di quelle abbonate che vanno a vedere qualsiasi cosa tanto per perdere tempo:

- Però, è vero, nella vita si accumulano tante di quelle cose inutili che poi è difficile disfarsene...

- Signora, in questo caso si tratta di una metafora però.

- Come dici?

- Che gli oggetti che la vedova vuol regalare rappresentano un peso dell'anima ed il suo è un tentativo di rigetto dai suoi rimpianti e dai suoi sensi di colpa...

- Ma no, è che effettivamente si accumulano tante cose inutili...

- Va be', va...

- Vuoi una caramella, ragazzo?

- Sì grazie, signora. È alla menta, vero? Grazie.

Occorre una gran pazienza col genere umano.





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