sabato 3 maggio 2008

E non mi importa (between the bars)


"...La gente pensa infinitamente meno a noi di quanto crediamo..." E dopo aver impattato bruscamente su questa frase sono rimasto per una buona mezz'ora, stamattina, nudo nel letto a guardare il soffitto, fissando alternativamente l'ottone plastificato sulle cinque braccia del piccolo lampadario, che schiaffeggio tutte le volte che mi stiracchio, o infilo qualche maglione.
Solo due dita di caffélatte perché è tardi, sono quasi le nove, per il sacrificio più arduo che mi si possa chiedere, rinunciare alla colazione. Specialmente se non si è cenato la sera prima. Gli occhiali da vista sono scaraventati da qualche parte tra le pieghe ed i meandri delle coperte vulcanicamente e abitualmente stravolte durante le mie notti convulse.
Attendo qualche segnale che mi convinca che è giunto il momento di alzarsi ed entrare nel personaggio. Ci sono due motivi che mi trattengono, uno è un sottile rimpianto di ieri sera. Ma in fondo, al netto degli scazzi paranoici, non è niente se valutato razionalmente. Poi comincia un senso di controvoglia generato dal mese di vuoto che mi separa dall'ultima volta che ho indossato le mie bianche scarpette da corsa. Sono ottime, senza marca, ma molto più funzionali delle mie vecchie nike azzurre. Potrebbe far caldo, ed ogni minuto che passa sarà una conquista della fazione indolente della mia coscienza. Non mi basta ricordare quanto mi faccia stare bene. Ora mi fa meglio restare a poltrire con un libro in mano.
Mi sono bloccato a quella frase. Mi era stata detta qualche giorno fa. Oggi me la son sentita ripetere come se me la stesse ripetendo la stessa medesima persona. Ed il caffè che al 99% componeva il vischioso liquido nella mia tazza da qualche centilitro ha cominciato a profumare amaro nel ricordo appeso al mio palato asciutto. A volte capita di non farci caso al possesso di un corpo.
Ho un attimo di giramento di testa, mi capita spesso, anche questo fa parte del corredo del personaggio. Il segnale giusto. Fuori gli alberi sono braccati da un vento fresco in direzione est-nord-est, e il calore del ritardo mattutino non rappresenterebbe affatto un alibi decente.
Lascio la macchina ai margini di una vecchia statale, ora strada di campagna. C'è una piazzola artefatta, a causa di un inutile calcolo nello spargimento di cemento. A qualche metro da me ci sono i cassonetti della spazzatura che straripano e tutto intorno è uno schifoso coacervo di relitti di vario genere e di vario odore che il vento avverso ti sbatte in faccia quando decidi che è giunto il momento di mettere in moto ginocchia e caviglie.
Non corro da un mese, cazzo, non so se ce la farò a riprendere questo balbettante discorso interrotto. Quello che sto per fare mi intimidisce molto, mi sento come un traditore che striscia petulante e imbarazzato al cospetto del depositario incazzato del tradimento.
I netturbini stanno raccogliendo gli scampoli di pattume sparpagliato da vento e cani al di fuori del perimetro preposto al lercio accumulo. Sono in tre, uno guarda torvo e comanda, e due operano lesti. Mi salta in mente l'ultima scena de Il Buono, il Brutto e il Cattivo: il mondo si divide in due categorie, chi ha la pistola carica e chi scava, tu scavi. In questo caso le categorie sono chi ha la sguardo torvo, e comanda senza  i guanti e la mascherina, e chi lavora, con i guanti e la schiena curva. Mi sono promesso che appena sarei tornato avrei dato una ripassatina a Karl Marx.
Andare piano per testare le reali capacità. Mi aspettavo peggio, in fondo questo carrozzone nel qual mi ritrovo ad esistere ha ampi margini di apprezzabili doti fisiche. Anche la mia ombra è un po' più snella rispetto ad un mese fa. Quando corro guardo a terra, mi piace osservare le ombre degli uccelli come disegni in movimento sull'asfalto, i piccoli buchi di luce chiara che trapassano la mole rinfrescante degli alberi di noce. E' la vita che si muove in maniera bidimensionale quella delle ombre su una strada o su un muro, più semplice, monocromatica, silenziosa. Popolata dalle imbambolate lucertole che spesso temo di calpestare e che sfilano via a pochissimi istanti dal passo.
Intanto ecco il villino giallo di un tizio che ha costruito questa casa per una giovane moglie che pensava bene di spassarsela clandestinamente con un sessantenne. Costui, dopo aver provveduto a cacciarla di casa, si è immediatamente consolato con un'altra vittima della sua stessa sorte. La sera se la porta a spasso come trofeo e come sigillo d'orgoglio a testimonianza di come un vero maschio non si faccia fottere così facilmente. Che idiota. Ed io detesto venire a conoscenza di questi aneddoti che sembrano però come appesi su un'enorme bacheca pubblica del pettegolio paesano. Normalmente tutte queste cose io le dimentico, mi ci metto di impegno per farlo. Ma davanti a questa brutta casa giallo-pappina-di-tuorlo ci passo troppe volte, ed una volta mi è capitato di pensare alle scopate clandestine ivi praticate, ai litigi, alle isterie, alle crisi coniugali consumate sotto gli sguardi di una bambina che magari comincerebbe anche a pensare che l'amore finto che l'ha generata era tutto una presa per il culo, e che lei potrebbe cominciare a sentirsi sbagliata. Figlia di un errore di valutazione, figlia di un'illusione. Magari un giorno andrà in analisi perché accuserà qualche disturbo alimentare, oppure si trasformerà in qualche anonima sgualdrina da paese. Meglio che le cominciassero a spiegare che in fondo lei è solamente una miscela di geni, acidi nucleici, e basta.
Ci sono due doberman a far da guardia a quella casa. Quando la scorgo da lontano già mi predispongo a distogliere un po' della mia attenzione dalle mie inezie mentali, ed anche dalla musica rimbombante dal cosetto appeso al collo, che Dio lo benedica ad libitum. Questo per non spaventarmi al latrare improvviso dietro le sbarre del cancello di quei due mini-tirannosauri neri.
Sto per passarci proprio davanti, tra un po' dovrebbero spuntare i loro musi bavosi dalla siepe. No, silenzio, non ci sono. Mi tolgo gli auricolari, e sono già qualche decina di metri lontano. Non c'erano. Porca miseria... e se quelle bestiacce avessero travalicato il muro della proprietà dell'orgoglioso cornuto? Potrei trovarmi qualche zanna nelle chiappe senza nemmeno accorgermene, con tutto il casino che gli U2 stanno facendo nelle mie orecchie. Potrei sentirmi da un momento all'altro un pizzicotto rabbioso proprio laddove una sfrontata (e perciò cara) amica ha avuto modo di farmi apprezzamenti l'altra sera. Apprezzamenti non ricambiati, ovviamente. Occorre essere guardingo, ma converrebbe allungare il passo e allontanarmi dal pericolo che ha l'epicentro in quella brutta casa gialla, eretta a pochi metri dalla strada. Non so perché ma da quando uno zio di mia madre mi portava in giro tra i villini in campagna a vedere le case, e lo sentivo criticare aspramente le costruzioni fatte troppo a ridosso della strada, senza un viale, senza una stradina dal cancello verso l'entrata, quelle case così fatte non piacciono nemmeno a me. Secondo lui, ed ora anche secondo me, c'è un tentativo di eccessiva esuberanza nel fare le case in quel modo. Conosco alcune persone che hanno la villa fabbricata in posizione visibilissima dalla strada. Si metto lì, nella veranda e guardano le persone che passeggiano a piedi il pomeriggio di ferragosto, gli anzianotti che raccolgono la verdura campestre ai bordi delle strade, i fessi che corrono come me, i giovani dandy con le loro motorette "soltanto rumore", che son più veloce io a piedi, senza far tanto casino, e non tu con quel catorcio rumoroso da frocio. Loro si mettono lì, e scrutano tutti questi esemplari umani che transitano e li salutano con sorrisi solari ed espansi oltremisura. Sembrano delle pubblicità immobiliari in tre dimensioni. No, non mi piacciono proprio. Se io dovessi farmi una casa in campagna per l'estate, e giuro che la voglio, me la farei nella stessa posizione di quel casolare oltre il dosso che sto per raggiungere. Piano terra e mansarda, un viale che gira su una larga piazzetta, una veranda, e alberi alti che nascondono tutto in una fresca intimità che ha il sapore della resina dei pini che cola dai tronchi ruvidi e scavati, sciolta dal sole che svetta di qualche grado nel cielo libero, ad ogni minuto che passa. Aiuole da curare con le mie mani.
Maledetti cani. Non avrei dovuto allungare il passo. Da qualche minuto sento il percorso del caffèlatte nel mio apparato digerente perché mi brucia ora quel lato, ora quel fianco, ora quel puntino dell'addome. Ogni ghiandola secernente non tollera quella digestione itinerante che sto affrontando con un inatteso successo. La mia incostanza è perdonata, con una facilità che a me non appartiene. Anziché perdonarmi, preferisco ignorarmi e non badarmi.
Ecco il punto X. Tornare indietro; a partire da questo punto è il raggiungimento della soglia minima di chilometri pari alla soddisfazione programmata. Vado oltre, vediamo se ce la faccio. Sì, ce la faccio. E mi piace, non vado più contro-vento, sento l'aria che mi spinge alla schiena, e godo.
E ripenso, a quella frase. Perché può essere vera, e probabilmente lo è senz'altro. Ma non lo è per me. Per me come soggetto attivo del verbo pensare. Vorrei, mi aiuterebbe molto a sopravvivere al mondo, che tutto mi passasse inosservato ed indifferente come ambisco io di essere. La strada è stretta e di fronte a me si sta approssimando una cisterna agganciata ad un trattore. Comprendo che l'autista è impacciato. Governare quel tozzo castoro a gasolio agricolo non deve essere agevole. Per evitarmi deve fare quasi delle manovre molto fastidiose. Decido di cambiare corsia, lo faccio in una curva cieca ma non ho scelta, sebbene le possibilità di farmi falciare da una macchina in corsa schizzino notevolemente alle stelle e di conseguenza si troncherebbero all'istante anche le mie tediose capriole mnemoniche. Guardo in faccia colui che conduce goffamente quel trattore, mi sarei aspettato un cenno di approvazione per la mia saggia e rischiosa mossa. Invece niente di tutto questo, tira dritto e non mi vede. Ma dài, ha ragione. In fondo non posso sempre lasciare ai mezzi che mi corrono incontro l'onere di preocuparsi di non travolgermi. Tanti altri invece no, mi vedono e mi riconoscono. Diversi colpi di clacson mi vengono indirizzati, e nella maggior parte dei casi non ho idea di chi sia a salutarmi. Un fiorino bianco mi  è passato quattro volte davanti, ma chi diavolo lo guidasse, proprio non mi sovviene. E non ho tempo per scorrere l'albo delle conoscenze più o meno intense. C'è una frase che occupa lo spazio, insieme al rimpianto che tengo appeso al pensiero da ieri.
Però, che aria finissima. Non mi accorgo subito di quanto sto bene. Lo apprendo piano e profondamente. Vado oltre ogni più premeditata distanza, oltre il limite dei giorni in cui correvo costante come la mia famigerata funzione primitiva. Quell'angoscia latente che spesso si azzarda a voler monopolizzare il mio gioco vitale, credo di non meritarmela nemmeno. Dipingo nella mente situazioni ed incontri non ancora vissuti e non so quanto effettivamente vivibili, ripiego la realtà in favore del benessere chimico che rubo alla strada sulla quale scheggia questa mia vorace esistenza. Sono talmente contento da sentirmi teso e portentoso come se tutto il mio corpo vivesse una sorta di erezione metafisica. Una carnale e rabbiosa erezione dell'anima. Erezione che non ha nulla a che vedere con le mie recondite fantasie, che un imprintig umano troppo umano di natura stilnovistica relegano un gradino sotto nella mia stairway to heaven.
Voglio raggiungere il posto dove mio padre mi portò una sera del 1997 per guardare la cometa Hale-Bopp col mio binocolo. Non mi ricordo ma deve essere da queste parti, oggi sento di poter arrivare ovunque. Eccola, sono arrivato nei pressi dell'autostrada. Sono lontanissimo davvero oggi, e porto con me una frase, un rimpianto. E a me oggi ne basta uno, mi volto e mi giro come un pazzo a correre all'indietro ridendo, incurante agli sguardi che non saprei descrivere di coloro che passavano in quel nervo stradale per tutto il circondario. Potrei guardarli tutti i rimpianti alle mie spalle e rinnegarli senza infamia, me ne serve uno soltanto, mi disseta quanto basta le labbra arse. Non trovo il posto che cercavo, quello dove guardavo la cometa, ma c'è l'autostrada. Ed io lo so, che voglio andarmene. Giungo nei pressi di una discesa ripidissima, ripida quasi quanto il dorso del colle più alto della mia infanzia, quello che risalivo con la mia bicicletta piano e fiduciosamente. Vi arrivavo in cima con fremente attesa e non mi fermavo. Andavo ancora più indietro, l'asfalto finiva e continuavano sassi e sterpi. Prendevo la rincorsa su quell'elevato trampolino e poi giù. Accelerando e pedalando, irrigidendo ulteriormente la discesa a folle velocità, dove uno spiffero di troppo sarebbe bastato a schizzare oltre la traiettoria, a rotolarmi e a spezzarmi qualche osso. Ma oggi sono a piedi, oggi non ho più la bisaccia così leggera. Non affronterò la discesa, non mi addosserò la salita, il vento torna a spingermi indietro schiaffeggiandomi la faccia, il sole è alle spalle e rivedo la mia ombra sotto la mia corsa. Si riavvolge tutto, si torna al punto di partenza, come un palindromo, ripercorro la stessa strada e riporto tutto a casa. Sono contento e stupito, mi sentirei quasi pronto per la maratona cittadina, e se avessi 10 kg in meno, mi sentirei pronto per le olimpiadi.
Ho percorso i tre quarti del tragitto completo, ritornare non mi piace. Vorrei raggiungere il punto di partenza per coglierlo alle spalle, ma non si può, il giro è troppo largo. Devo guardare in faccia il ripiegamento di tutti i miei passi.
E ad un certo punto il mio piede sinistro mi abbandona. La caviglia sinistra non ci sta, non ce la fa. Comincia a bruciare e vedo che la mia ombra zoppica e saltella anziché scandirmi ad un ritmo finora perfetto. Sento che la mia vita rallenta, si ritrae, sento aumentare il numero delle auto che mi oltrepassano. Alcuni mi segnalano l'invito a darmi un passaggio. No. Sono i cinque chilometri più complicati della mia vita. E lontana c'è già la casa giallo-pulcino-cacatosi-addosso. Conciato così ai doberman non darei neanche la soddisfazione d'avermi rincorso qualche metro, sono tremendamente alla portata di qualsiasi belva affamata. Scorro gli alberi alla mia destra, male che vada, mi arrampico su qualcuno di questi. Non temo i cani, ma quello che non vedo, che non ho sotto controllo, sì. Ed i doberman non ci sono nemmeno al ritorno. Possibile che il cornuto li abbia soppressi? Non mi fido, ma non me ne importa niente. Corro, ascolto la musica, chiudo gli occhi sotto i raggi del sole. Stringo i denti e me frego della caviglia che urla un male pazzesco e la pianta del piede sinistro che pare prendere una scossa elettrica ogni volta che tocca terra. Non posso fermarmi. Non devo. Mancano due chilometri. La strada si allunga paurosamente in questi momenti. Il mio colle ventoso è così lontano, quasi pare si sia tuffato nel mare sul quale troneggia. Oddio, fa un male cane. Ed il sole picchia forte, sto correndo da due ore forse, non so, non ne ho idea. Solitamente le ultime centinaia di metri sono quelle che maggiormente amo. Ci arrivo con tale benzina che scarico tutto in uno scatto finale e senza respiro. Quando correvo con mio zio, gli ultimi duecento metri li bruciavamo rapidamente così. Lui restava parecchio indietro, ovviamente e non solo per la sua età, ma soprattutto per il suo peso. Lo aspettavo al termine dello scatto e riprendevo fiato. "Hai una falcata pazzesca" mi diceva. E dieci anni fa probabilmente era vero. Adesso non so se ci arriverò, alzo il passo un tantino ma niente da fare. La caviglia ed ora anche il ginocchio sinistro mi stanno bloccando. Mi sembra di correre con la stampella. Rallento. Piano. Mi accorgo che non sto correndo più. Sto camminando. E' finito per oggi. A circa trecento metri dal traguardo programmato.
Sembra che la caviglia si stia riprendendo lentamente. Ma non potrò riprendere io, nemmeno per un unico scatto finale. Sento già l'acido lattico che mi morde le chiappe peggio dei doberman del cornuto. Intanto però la musica non si ferma. Io mi fermo. Ed ho tutti i muscoli dalla cintola in giù duri come una pietra. E quando dico tutti, intendo tutti.
Non ho bisogno di prendere fiato. Non sono nemmeno sudato. La macchina è lì vicino. Alzo il volume dell'aggeggio che ho appeso al collo. La foga della corsa interrotta e del fiato grosso che devo svuotare mi porta a coprire con la mia voce la musica che sto ascoltando.
Ho smesso di correre. Mi sento leggero. Mi duole la caviglia sinistra. Non ho idea di che cazzo di ora è. Ho ancora un rimpianto. E quella frase per me non conta niente. Io alle persone ci penso, e ci penso sempre. Questo mi rende me stesso. Le persone non immaginano nemmeno, loro, quanto io possa pensarle. Infinitamente più di quello che possano credere.
E sto cantando la canzone che sto ascoltando in questo preciso momento. E c'è chi se ne accorge, e non mi importa. A me non importa niente. Sto cantando.
drink up, baby, stay up all night
the things you could do, you won't but you might
the potential you'll be, that you'll never see
the promises you'll only make

drink up with me now and forget all about
the pressure of days do what I say
and I'll make you okay and drive them away
the images stuck in your head

people you've been before that you don't want around anymore
that push and shove and won't bend to your will
I'll keep them still

drink up, baby, look at the stars
I'll kiss you again between the bars
where I'm seeing you there with your hands in the air,
waiting to finally be caught

drink up one more time and I'll make you mine
keep you apart deep in my heart
separate from the rest where I like you the best
and keep the things you forgot

the people you've been before that you don't want around anymore
that push and shove and won't bend to your will
I'll keep them still



2 commenti:

  1. Bellissimo.

    Un po' Forrest Gump, un po' Momenti di Gloria.

    E sotto, come un'armonia dissonante, i pro ed i contro di un passaggio in autostop mai chiesto.

    Bel colpo, figliolo.

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  2. Anche un po' amused to death, direi...

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