mercoledì 28 maggio 2008

Agenda esistenziale

La mia agendina è satura. E dopo averla riempita di cazzate parigine, la relegherò alla raccolta differenziata. Per defenestrare completamente da questo mondo i miei pensieri in maniera pulita ed ecologica.

Il fogli del solito quaderno con Titty e Gatto Silvestro in copertina rosa sono tutti strappati dall'uno e dall'altro lato, e se volto le pagine queste mi vengon via. Tra l'altro durante lo speranzoso viaggio d'andata ho scoperto cose scritte un paio d'anni fa. Cose assurde che per pietà ho deciso di non cancellare.

Non mi capita di avere mal di stomaco in maniera costante da qualche anno. Very good, non mangio e son contento.

Il Moleskine, intanto... direi di no, s'è sputtanato assai. Il mio barbiere a Natale regala ombrellini che non ti riparano nemmeno da un fiotto di sperma, mentre un altro mio amico che fa il barbiere ai suoi clienti regala l'agendina moleskine taroccata in Vietnam. Ma che il suo dovere lo fa bene, senza pensare che magari un bimbo di 5 anni è morto di fame e stanchezza per incollare la copertina in finta pelle. 
In Vietnam l'economia procede e cresce, si muore di fame più in Italia ormai. Tra un po' vedremo le navi colme di rifugiati che partono da Brindisi per raggiungere Valona, in Albania. Questa sta conoscendo buoni tassi di crescita, alla faccia nostra. Mi sto già industriando a mettere i soldi da parte e comprare una barca peschereccia ormeggiata nel Mar Piccolo per fare il trafficante, è redditizio, e almeno lì in Albania non si ritrovano un modello di bambolo gonfiabile come Raffaele Fitto ministro. 
Se Fitto è diventato ministro io sarei dovuto diventare come minimo Cavour, con tutto il rispetto... 

Odio i barbieri perché fidelizzano la domanda dei consumatori e difficilmente subiscono le fluttuazioni economiche. Fanno cartello e nessuno li pensa, quando invece andrebbero frustati col castrato di Toro di Pamplona, perché sono tra coloro che maggiormente incidono nel caro-vita. Altro che il petrolio. Dico a voi, gente, se non ce la fate a dar da mangiare al porcellino di porcellana e a voi stessi, non rompete il cazzo a Padoa-Schioppa, prendetevela col fruttivendolo, col barbiere, e con l'avvocato. 
E con voi stessi, giacché ci siete.
La domanda di barbieri è fottutamente inelastica, anche con chi ci va scarsamente due volte l'anno come me quando proprio non ce la fa a resistere al caldo estivo, o perché d'inverno la coppola in tweed non ce la fa a contenere il casco nero peluche che mi vien su.

Tredici giorni fa, partivo per Torino. Non partiva quel coglione di R. incapace com'è. Son partito io. 
E se ci ripenso a come mi sono messo in viaggio, mi viene voglia di spararmi nei coglioni.

Che è vero che lo stato d'animo gioca un ruolo cruciale, ero talmente contento di partire che avrei viaggiato col triciclo di mia cugina di quando aveva un anno e mezzo. Ora ne ha tre. Assomiglia a mia madre, e quindi un po' anche a me. Però è carina, nonostante questo. Perché oggettivamente è mia madre ad essere bella.

Leggevo l'Economist giù al porto di Taranto, mancavano ancora almeno 4 minuti alla partenza prevista. La folla dei partenti era vagamente assortita. Tutti pressochè intorno ai 60 anni, e la cosa cominciava a puzzarmi. Mi accomodo nel mega autobus su cui devo viaggiare per 11 lunghe ore, e immediatamente comprendo che è necessario dare sfoggio alla prepotenza. Provo ad abbassare tutto il sedile in modo da far intendere, a chi starà dietro, che deve abituarsi all'idea.
Macché, il sedile si abbassa solo di 10° scarsi, e sento già il coseno della rottura impadronirsi di me. Però è sempre stato bello andare in giro su ruota la sera, scorrere paesi e impronte umane su altipiani e monti invisibili nel buio notturno come foseero sospesi nel cielo, come ferite della volta buia. 

Il sole tramontava alle 19.50 quel giorno. Poi ho smesso di capirlo il Sole.

Da una domenica il Sole gioca strani scherzi e capita ogni tanto, poi torna, poi mi chiama, poi mi saluta, poi lo cerco io, poi io esco, poi torno, poi non c'è, poi ho sonno, poi resto lo stesso, poi mi son fregato il cervello. Lo so.

Tra mezz'ora devo andare a correre e devo essere rapido a scrivere questo inutile post. Potrei anche non scriverlo visto che non serve a niente. E in questi giorni di idiozie ne sto a menare con la pala...
Anzi magari fa pure danno, palesando quanto di peggio è in me. Ma chi se ne importa. La catarsi è catarsi, anche se probabilmente necessiterei di una lavanda gastrica mentale.

Con mio sommo dispiacere, tornando all'epopea del viaggio, mi accorgo che giunti nei pressi dell'amatissimo capoluogo di regione sale altra gente, e mi predispongo a dare il saluto estremo al silenzio e alla comodità. Intanto iniziano a chiamarmi, ricevo minimo 7 telefonate nel giro di un'ora; il tempo di fermarci, sostare diverso tempo a fare un emerito cacchio, e consentire ai nuovi viandanti di salire sul mezzo pachidermico che pare ingoiarci tutti. 
Io ero al telefono col mio amico di PD, e vagamente mi pare di udire schiamazzi di gente scontenta, coppie di anziani che sono state insieme per quasi 50 anni e che ora si sentivano di crepare a star seduti lontani nell'incolmabile distanza siderale di un cazzo di pullman. Manco se dovessero pomiciare durante il viaggio, eccheccazzo... durante la fase di conquista alla seggiola che evitavo di guardare per impedire che quel senso di gioia sincera e avvolgente che mi recavo dentro venisse turbato dal ridestarsi del mio intrinseco disagio a stare con la maggioranza delle persone. Una ragazza mi fa un cenno.
Mi chiede se è libero il sedile accanto a me.
Ero al telefono a discettare di luride cacchine provinciali in seno al mio partito ancora per poco, di cui francamente non me ne importa già più niente. Faccio segno a codesta che può accomodarsi e mentre con la sinistra reggo il telefono, con la destra tolgo di mezzo l'Economist, il quaderno con la copertina rosa di Titty e Gatto Silvestro, la penna, l'agendina, la borsa gialla da prof., la bottiglietta di tè che aveva il dovere di murare oltre la stitichezza le velleità evacuanti della mia ampolla rettale.
Lei si accomoda, senza neanche una borsetta. E mi assale un fresco odore di deodorante intimo femminile col quale, probabilmente la stessa doveva essersi fatta gli impacchi.
Vestita male ma molto comoda. A differenza di me che ero vestito bene, ma comodo lo stesso.
Abito sportivo e leggero, vestizione abbondante. Occhi chiari, chioma nera, ma non lunga. 

Io amo i capelli lunghi invece, li amo in maniera folle. Mi piace accarezzarli per ore intere al punto di farmi tingere del loro colore le mie mani. Farmele massaggiare indirettamente dalle impercettibili striature di quella liscezza e quella morbidezza. Mi piace scendere giù lentissimamente, quella lentezza che è propria e lieve di un oggetto instabile che senti scivolar via e nell'attesa del calo che si aspetta improvviso ti si cosparge la pelle di brividi e un vertigine, piano fino alle punte e accarezzarle lì. Avvolgendole e arricciandole intorno al mio indice e poi passare delicatamente il dorso della mano sul collo. Ah... il collo. Secondo me il collo è la parte migliore di una donna. Quando è chiaro, liscio, perfettamente posto come un ponte tra il corpo così reale, così fisico e tangibile, sussultante al respiro ed ad i passi, così elquente nei gesti e nelle sue autonome espressioni, così vivo e umanamente pieno ad ogni profondo e rigonfio immergersi della passione, ed in cima al ponte, il viso. Quel viso che ti guarda e ti sorride, che ti accende il più suadente dei giochi di complicità, quegli occhi così persi altrove, mentre li fissi per una sorta di magnetismo inesplorato mai. Quando sei abituato a rivogerti agli altri con la coda dell'occhio schiva e impenetrabile. E te le senti completamente dentro quelle pupille che non sono castane, non sono così scure, e non sono nemmeno verdi, ma sono esse stesse un colore proprio loro ed unico,  e sono semplicemente la miniatura preziosa di tutto quello che ti trascini dentro ogni attimo, quando pare che la vita ti osserva unicamente da lì, quando tutto intorno è buio pesto e si spegne lontano ogni cosa che non sia minimamente collegata da qualche pensiero, o da qualche richiamo, al suon di lei.
Che se non ci fosse, a cosa servirebbe ormai quest'enorme pupazzata? Smontate tutto, tende di colline e tappeti verdi sui bassipiani, città in fumo e fiumi ai bordi della ferrovia... espungete questo cielo interpolato nella mancanza di lei che è tutto un vuoto senza margini di risalita su nell'aria limpida bagnata dalla pioggia adamenatina e dai freschi pensieri... E spegnete il giorno, riavvolgete il nastro del canto del mare e non consentite il riflusso all'eco di quel fragore... e ripulite la notte da ogni sogno bugiardo e traditore. Tirate via le colonne montanti d'ogni muro ed ogni limite alle parole ed ai giudizi che pendono da questo, e scucite via i passi dalle strade, soffiate il vento in una borraccia, e chiudete gli occhi senza dormire. Imprigionate la vita in  sacco polveroso e rattoppato col cuoio, e montatela su un carro trainato da asini zoppi. 
Portatela via, che non serve a niente.

Che cosa vuol dire vivere nella penna di un maldestro poeta... non si morirà mai del tutto.

Smetto di scrivere in pullman anche perché è buio, e non ci sarei più riuscito. Che faccio? Michael Nyman, Yann Tiersen, Radio 1, Radio 2... poi come era prevedibile mi rompo le palle.
All'ennesima sosta in neanche un paio d'ore non ho bisogno né di stiracchiarmi, né di camminare, né di fare altro. Mando qualche messaggio alla solita malcapitata. 
Non mangio, non bevo, mi gusto la rottura fino all'ultimo scricchiolìo di testicoli frantumati.
E questa accanto non parlava, e a me di aprir bocca non mi veniva voglia. Le avrei detto soltanto "E non hai pietà tu di me..." ma sarebbe scappata via chiamando aiuto, perché non credo che abbia mai visto in vita sua Bianca o Palombella Rossa... Mi capitò per caso di guardarle il biglietto di viaggio, prezzo pieno, non usufruisce di agevolazioni, ha più di ventisei anni... non ci avrei scommesso.
I vecchi sono più insopportabili dei bambini capricciosi. Se insieme ai vecchi acciaccati in viaggio e dediti alla lagna ci sono anche dei bambini capricciosi non chiedetemi più perché sono misantropo.
Quelli alle nostre spalle erano di una razza rara. Con quella voce tracheica divorata dalle sigarette che emanava infrasuoni che facevano tremare i semiassi del catorcio insano che ho avuto la bieca idea di prendere.

- Lei dove va, signorina?

- Milano.

- Ah, Milano... se non altro avrà la fortuna di smettere di ascoltare la lagna di questi qua prima di me... 

Lei ride, io le sorrido in risposta.

E da quel momento la stessa mi guardava e sorrideva ad ogni imprecazione e ad ogni invocazione di quell'essere nei riguardi di Padre Pio affinché lenisse la sua pena da purgatorio, come se il santo più commerciale della storia avesse finanche il tempo di pensare ai suoi reni, con tutti i cazzinculo che pullulano nel creato. Vero è che che con tutti i milioni di euri che attorno a Padre Pio si muovono ognuno ha diritto a pretendere come minimo in gratia plena ogni più assurdo capriccio. È una legge di mercato, accidenti.

E stamattina ho litigato di brutto con mio padre. Stufo di me peggio di quanto io possa essere stufo di lui e di questa mega idolatrata istituzione sociopatologica della vita quotidiana chiamata famiglia.
Lo so che mi guarda e vorrebbe falcidiarmi la faccia di schiaffi. Lo so che dentro di lui feroci dubbi si accumulano quando non mi vede fare un cazzo e perdere tempo davanti al computer mentre aleggia la mia attenzione tra una pagina bianca piena di numeri a lui incomprensibili, e una pagina bianca su cui scrivo io. Che mentre transita con le bottiglie di vino in mano nel corridoio a me adiacente sghignazza disturbato dalla mia vista nella quale incespica la sua dis-attenzione, ed alla quale purtroppo mi assoggetto anche io con malincuore estremo. Lo so che non sopporta il mio silenzio  quando mi chiede qualche informazione sulla mia vita sì tanto incomprensibile. Lo so io, che ritiene che io mi ricordi della sua brumosa esistenza allorquando devo sommessamente bussare alle casse familiari a guisa di ammortizzatore sociale per le mie indispensabili scorribande esistenziali. Che ancora in pochi capiscono com'io mi arrangio l'esistenza, perché mai mi entran soldi in tasca, e soprattutto che diavolo produce di essenziale per il mondo questo mio quieto presenziare al lavoro e al banchetto magro di questi tempi solitari, sognando un lauto ed infinito convivio a due con l'essere speciale che più bello non esiste, e che sì, è prova inoppugnabile che qualcosa di buono si muove ancora in questo pianeta, ora non più sì tanto lercio al mio severo sguardo. E che Dio c'è stato un giorno in cui si sentiva davvero in gran forma... 

E diamine dovunque parto là sbatto sempre le corna, ormai...

Lo so cosa si contorce nel suo fanciullo intelletto paterno quando il suo occhio piccolo e attento scorre lento e rassegnato tra i titoli esposti della mia libreria, nel trovare inscritto tra i vari tomi:  "La peste", "La nausea", "Le mani sporche", "Il Muro", "L'essere e il nulla", "La cognizione del dolore", "Morte a Venezia", "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, ed altre poesie di Cesare Pavese", etc...etc... Così come individuo la minacciosa smorfia di schifo quando preferirebbe vedermi al rogo, scorgendo Lo Spaccio della Bestia Trionfante pensandomi chissà forse ad adorar un crocifisso capovolto con gente incappuciata a squartare vitellini e capretti. Certo, magari prima di accendere il fornellino a carboni, ed aggiungere un pizzico di sale ed erbe aromatiche. E trafiggere ed immolare quelle carni ovine con lo spiedo arroventato. Che il sacrificio va fatto, e fatto bene. Vorrebbe domandarmi cosa si cela accanto ad Utopia di Thomas More, e alla Città del Sole di Campanella. Niente. E non ne ha neppure il coraggio. 
E solo un casellario più in basso si rinfranca la vista tra i volumi di matematica, di analisi I & II, si rigenera pensandomi dedito al calcolo matriciale, certamente meno nefasto alla corruzione dell'anima della turpe creatura che più di  25 anni or sono, gemeva già folle nei suoi testicoli.

E tu, padre, che ne sapesti mai di me? Che cosa ne saprai mai... Che non hai accettato niente, soffocando nella rabbia e nel silenzio i miei insoliti impulsi di vita...
Che non è mai servito a nulla circondarmi di averi e umani sentimenti... che a prescindere dal ruolo che è stato assegnato agli esseri viventi che mi è dato di incontrare, la mia stima ed il mio affetto te lo devi meritare coi fatti, non con i diritti di procreazione. Perché l'amore non basta... Mai, e verso nessuno.
Perché oramai io vivo al di fuori del tuo sperma, e della placenta che mi ha nutrito quando non riuscivo ancora a pronunciare da solo la maniera più fredda per mandare tutti a fanculo. Voi che pensate di poter influenzare con la vostra bile il mio sentirmi parte di un mondo diverso, generato e non creato della stessa sostanza della mia mente lucida e razionale e calcolatoria, come Caligola.
Siete preoccupati per me. E con che diritto lo siete?

Ed una settimana fa, precisamente a quest'ora in cui scrivo (19.32) e non so a che ora riuscirò a postare, passeggiavo avanti e indietro lungo boulevard Saint-Michel come uno spermatozoo alla ricerca dell'ovulo. Leggendo uno di quei giornali gratuiti in carta tossica e corrosiva, ovviamente in francese e non capendo una mazza di niente, tranne che di una possibile agitazione sindacale dei trasporti parigini a cui avrei dato, non senza una punta di opportunismo, il mio comunistissimo sostegno rivoluzionario. Perché si sa, fermare i trasporti è un po' come fermare il tempo e costringersi a restare, al netto delle cretinate alla Bergson che mi feci venire in mente due giorni prima contemplando la chiesa di Saint Eustache a Les Halles. Laddove ho trovato tuttavia più architettonicamente  deliziosa la Borsa di Parigi. Deformazione professionale. E dove mi stavo ritrovando un paletto anti-sosta-et-fermata conficcato nell'inguine per il semplice vizio di camminare scrivendo, ovunque mi trovo. 
Ascoltando la stessa musica... di una accanita rincorsa serale tra i cambi della metro e la minuscola goccia di sudore di tachicardia non congenita, di quell'immensa attesa di me stesso come Lucien Fleurier, come Erostrato, come Pablo Ibbieta, come Pierre... e tutti gli antieroi che hanno resistito e tenuto saldo il controllo... tutti spiaccicati su quel muro di pagine mosse dal vento, e da queste parole senza apparentemente senso...

Ed ho paura di trovarmi una risposta a quel che mi aspetto. Perché qui, tutto crollava ad un passo dal possibile. Paura di decidere... e se riascolto, se rivivo, ci sono ancora...  Eppure non l'avevo mai immaginato, eppure avevo sradicato da me con vigore e convinzione tutto questo da tempo... eppure... Nei fiori tra l'asfalto e nel cobalto con le nuvole che lo scolpiscono io ritrovo tutto dove quell'azzurro cielo non cambia mai... nei sogni in fondo a un pianto, c'è sempre un senso...

Stavolta non ci indovino con la musica, eppure... un giorno... io lo dipingo così.

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