martedì 2 ottobre 2007

Vi racconto di Mr. Duffy


"Mr. James Duffy viveva il più possibile distante dalla città di cui era cittadino, tutti gli altri quartieri di Dublino gli sembravano volgari, moderni e pretenziosi. Alle smisurate pareti della sua stanza non pendevano quadri."

Un intellettuale egocentrico, un impiegato di banca amante di Mozart, "il suo amore per la musica l'induceva talvolta ad andare a sentire un'opera o un concerto, e questo era l'unico spreco della sua vita."



Non aveva compagni, amici, né chiesa, né fede religiosa, la sua esistenza trascorreva senza scosse: una storia senza avventure.

Una sera a teatro gli capitò di sedersi accanto a due signore, una madre ed una figlia. La madre, di un anno più piccola di lui prese a conversare. Duffy si stupì di quanto fosse poco timida.

"Gli occhi fermi di un cupo azzurro. Il loro sguardo manifestava un'iniziale nota di sfida, subito dispersa da quello che sembrava un deliberato illanguidirsi della pupilla nell'iride che rivelava per un istante un temperamento di accesa sensibilità."

Tornò ad incontrarla più volte in seguito, ed ogni volta cercava di entrare sempre più in intimità. Mrs Emily Sinico era sposata, il marito era il capitano di un mercantile in viaggio per il mondo.  Duffy e d Emily si incontravano spesso al tramonto, ma egli odiava i sotterfugi. Emily prese ad invitarlo a casa sua; il marito aveva escluso a tal punto la moglie dal rango dei piaceri da non riuscire nemmeno a concepire l'idea che qualcuno potessse provare simpatia per lei. Poco a poco, il rapporto tra Duffy ed Emily divenne sempre più intenso e profondo, lui le regalava libri, ne cominciò a condividere la vita intellettuale, lei lo incoraggiava ad aprirsi in maniera quasi materna, e lui prese a confidarle pensieri e turbamenti come mai avrebbe immaginato. "La compagnia della donna era per lui come la terra calda per una pianta esotica. La musica che continuava a vibrare nelle loro orecchie diveniva il tramite della loro unione. Un'unione che esaltava, smussava gli aspetti più duri del suo carattere..."
Incontri fugaci ed innocenti di anime che si avvicinavano piano, rompendo entrambi il muro della paura e della solitudine dell'anima. Ma quando una volta la mano di Emily premette con ardore sulla guancia di Duffy, egli fu colto dallo sconcerto.
"Non possiamo darci agli altri, apparteniamo solo a noi stessi.
" Pensava.

Duffy le chiese un incontro, e furono concordi nell’interrompere la loro relazione:
"qualsiasi legame, egli disse, è un legame di dolore."
Non la rivide più per quattro anni. Evitava di andare al teatro per non incontrarla, restò a scandire i suoi giorni con lento incedere e con attenta circospezione.

Una sera, mentre cenava come faceva abitualmente nella locanda, stava portandosi alla bocca il suo boccone scorrendo le notizie del suo giornale. Quando un piccolo trafiletto catturò il suo sguardo e nelle prime righe gli si spezzò il fiato. Uscì di corsa per leggere quell’articolo alla luce di un lampione su una fredda panchina di una notte irlandese.
Una donna era morta il giorno prima, s’era lasciata travolgere da un treno alla stazione, il suo nome era Emily Sinico. Un tragico incidente, una fatalità. L’articolo diceva che da qualche anno la donna era in preda a delle crisi nervose, dava segni di intemperanza, aveva l’abitudine di attraversare i binari durante la notte, quando usciva per comprare liquori. Era una donna sola. Nessuno venne ritenuto responsabile dell’accaduto.


"La cronaca di quella morte lo disgustava, così come lo disgustava ricordare che a quella donne aveva confidato cose quasi sacre. La sua compagna dell’anima aveva degradato nel vizio se stessa, ma anche lui. Come era possibile che lei fosse caduta così in basso?

Mentre la luce calava e la memoria cominciava a perdersi gli sembrò che lei gli toccasse la mano. Mentre stava seduto rivivendo il tempo che aveva trascorso con lei, si rese conto che lei era morta davvero, che non esisteva più, che era solo un ricordo. Cominciò ad avvertire un senso di disagio.

Ora che non c’era più si rese conto di quanto aveva dovuto sentirsi sola, seduta in quella sala una sera dopo l’altra. Ed anche lui sarebbe stato solo, ecco, sarebbe divenuto un ricordo, ammesso che ci fosse stato qualcuno a ricordarsi di lui.

Percorreva i medesimi viali lungo i quali aveva passeggiato con lei quattro anni prima. Era come se la donna fosse vicina a lui, nel buio."


Perché decise di sottrarle quella speranza? Quel rifugio? Perché l’aveva condannata alla solitudine? Perché era un rapporto sbagliato? Ma ora sentiva la sua natura morale cadere a pezzi…


"Una sola creatura gli aveva dimostrato un po’ d’amore e lui le negò vita e felicità, abbandonandola ad un’esistenza vergognosa. Sapeva che in quel viale buio c'erano esseri acquattati lungo il muro che lo stavano guardando e desideravano che lui se ne andasse. Camminava indietro, col ritmo della locomotiva che rintronava nella mente, si fermò sotto una pianta e lasciò quel fragore svanire. Restò fermo per qualche istante in ascolto. Il silenzio della notte era assoluto. Ascoltò ancora: silenzio assoluto. Sentì che era solo."


La solitudine è colei che adombra la triste rinuncia a vivere i sentimenti, a lasciarsi ingabbiare dal tormento che spoglia la vita delle sue morbide piume, rendendo le nostre ali freddi e spogli telai di una struttura arrugginita che non è più leggiadra nel planare semplicemente fra le nuvole. Duffy... non è andata via soltanto Emily quella notte, anche tu sei stato travolto da quel treno. Anche la tua vita si è fermata lì, quando hai deciso di non amare. Quando durante il banchetto della vita ti sei alzato senza chiedere scusa, e sei scappato via...
e non dare più la colpa al mondo, o a lei, per la rinuncia triste a quello che non sei...



Lo sai cosa vuol dire stare giorni interi a buttar via nel niente solo il niente;




fai mille cose, ma sono sempre i tuoi pensieri che scelgono per te diversamente.



Son stanco d' aver detto le cose che dirò, di aver già fatto le cose che farò,



ma è tardi, troppo tardi, piangere ormai sulla rinuncia triste a quello che non fai...



Non è la luce o il buio né l'ero ed il sarò, non è il coraggio che ti fa dir "vivrò",



è solo un' altra scusa che usare vuoi per la rinuncia triste a quello che non puoi...



Non voglio prender niente se non so di dare, io e chissà chi decidono ciò che posso,

non ho la voglia o la forza per poter cambiare me stesso, e il mondo che mi vive addosso...



I passi in corsivo sono tratti da: J. Joyce, Un caso pietoso, in Gente di Dublino, ed. Mondadori.

L'immagine è una scultura di A. Giacometti, Uomo che cammina.

I versi alla fine sono tratti da: F. Guccini, Canzone della triste rinuncia, in Stanze di Vita Quotidiana, 1974.

Quel pochino che resta, è mio. Ed è per me, solo per me, nient'altro che per me. E non ci sono riferimenti a persone o cose, né passate, né attuali, né eventuali.



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