domenica 2 novembre 2008

La favola del nipote cambiato

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Non guardarmi in quella maniera, assottigliando le labbra e sbracciando le ciglia. Com'io modifico nella mia immaginazione la tua smorfia. Perché sicuramente sarai indifferente, come nella foto che stavolta non ho guardato. Il fatto è che nonostante siano trascorsi quindici anni, proprio non riesco ancora a individuarti all'interno di quel prismoide di legno lucido e castano.
E neppure dietro quella tenda di marmo verdognolo con sfumature venose come la mano di un anziano. Come un vetro che si traveste da specchio, è quella lapide dove posso scavare il mio volto piegato come un bassorilievo.
Quest'anno, da mascalzone che sono, non mi sono presentato.
E te lo dico adesso, francamente. Non mi presenterò nemmeno il prossimo anno. E neanche a Natale e a Pasqua. E nemmeno il giorno del tuo compleanno. Nemmeno il giorno dell'anniversario del tuo commiato.
Correva l'anno 1993. Mia zia osservava i balconi pieni di fiori e ciascun oggetto che nasceva al suo sguardo sapeva raccontare lo strazio della tua morte. Persino un davanzale anonimo, freddo, e straniero che si faceva mordere dalla brina di settembre con noncurante scazzaggine.
Più o meno la medesima che mi sta inflaccidando le ossa delle gambe in questi giorni di magra e fame.

Quel pomeriggio mi facevano schifo i ragazzetti che urlavano smontando i relitti di una giostrina arrugginita e rossastra, ridendo a qualche metro dalle lacrime sordide di mia madre.
Con un po' di istrionismo ortografico, il giorno dopo ho trasformato il 9 in una G, ed il 3 in una F. Mi firmo con una data.
Ma lì, dove sei ubicato attualmente, non ci voglio rimettere piede.

Il binocolo che mi hai lasciato per scrutare le stelle devo ancora farlo riparare. La lente destra deve essersi distorta. Anche se dubito che si riesca a trovare un ottico capace per risistemare simili gioiellini. Male che vada socchiudo un occhio e tiro avanti. Come nella vita.

Volevo avvisarti di alcune cose, nonno. Il PD non riesce a far breccia nell'elettorato bifolco. Se riesco a metter mano su qualche documento, stavo pensando di servirmi meschinamente del tuo nome per praticare una sorta di ricatto morale verso gli ex coloni a cui tu hai consentito di coltivare i campi e cibarsi di gelsi e castagne. O a quello che ne resta, visto che io corro verso i tristissimi trentanni, col brizzolo adelante, ed il contado è ridotto ad una generazione con la memoria appiombata.  
Lo so, sarebbe anche una pratica democristiana. Ma tu approverai. Del resto, è quello l'ambiente in cui ho vissuto.

Chissà se te lo saresti mai immaginato che io avrei ripercorso le tue orme, muovendo i primi passi all'ombra di una quercia che voleva risciacquare la muffa depositata sulla falce e il martello.
Una donna prematuramente vedova, una "compagna", che conoscevo per la sua funzione di addetta alle braciole alla festa de L'Unità,  nonché per la fama di spalanca-gambe in favore della nomenklatura leninista locale,
una sera mi inseguì  commossa tra i tavolini delle riffe, e gli spiedi grondanti di grasso suino.
Inneggiando al tuo nome mi ringraziava ancora una volta della fortuna che ebbe quando tu la collocasti a lavorare nelle cucine e nelle lavanderie dell'ospedale. Lei era comunista e tu degasperiano.
Mi riconobbe finalmente, ed io constatai con mestizia che  dai quei tempi ad oggi, l'ospedale non esisteva più e la donna invecchiata e sfatta non avrebbe potuto più concedersi.
 
Eravamo il partito più gerontocratico. Adesso invece abbiamo una ministra-ombra per le politiche giovanili, alla quale non disdegnerei un colpetto ben indirizzato.
A tal proposito ti voglio ricordare che tua figlia, mia madre, ha preso parte alla manifestazione del PD nonostante gli acciacchi fisici e metafisici che contraddistinguono la classica lagnosità femminea, mentre i due maschietti vanno rieducati. Uno votava Udeur, ma lo faceva con placida ingenuità, si può salvare. L'altro indulge nell'immonda pratica di sostegno forzaitaliota.
Intervieni tu oniricamente, fa qualcosa! Visto che costui più di una quarantina di anni fa sguazzava incerto nel tuo liquido seminale.
Secondo me è sempre stata colpa di mia zia, che sarà pure una donna di qualità eccelsa quanto a strombazzature ormonali, ma l'encefalo spesso rappresentava  per lei un mero trasporto eccezionale nel suo piacevolissimo cranio.

A parte questo, tu sei nel regno della verità, in qualunque platonica dimensione sia confinata l'illusione di non sbriciolare del tutto le attese e le speranze della vita. Se volessi raccontarti la maniera del mio trastullo giornaliero non farei altro che tediarti con un canovaccio che tu hai già visto, e probabilmente giudicato.
Però ugualmente consentimi di rivederti dietro la tua scrivania. Alle tue spalle è appesa al muro una carta topografica larga e gialla. Tu batti con destrezza i tasti della vecchia olivetti che adesso è seppellita nel ripostiglio presso i borsoni da viaggio.
Facciamo finta che io avrei dovuto essere all'asilo, e quella mattina, come sempre, mi ero intenzionalmente cacato addosso per non dover spartire il mio tempo con altri spermatozoi che purtroppo avevano colto nel segno, germogliando poi in altri esseri umani.
Mi facevano ribrezzo in particolare quelli che si presentavano senza grembiule, e avevano perdite di muco dalle narici appestate.
Tu mi saresti venuto a prendere dopo la telefonata napoletana di quella megera della maestra, con la tua 500 bianca che puzzava di benzina e saltellava alle buche. Dopo il candeggio inferto al mio culo infantile e qualche inconcludente schiaffo materno, mi avresti portato con te.
E dalla sedia dove mi sedevo, ti guardo adesso e ti confido la mia vita nel suo valore attuale.

Sai nonno, ancora non riesco a capire perché cacchio non ci hai mai rivelato che quando zappavi e ti sollecitava la vescica, interrompevi l'agreste opera e pisciavi sangue anziché urina.
Quando in ospedale ti vidi qualche mese dopo, con quella sacca appesa all'inguine, all'idea che quel tubicino ti si infilasse dritto nell'uretere, mi veniva voglia di stipulare una polizza sul cazzo.

Lo zio milanese aveva una sua teoria. Secondo lui tu non ti sei mai ripreso dacchè nonna ci lasciò. Lo ricordo appena perchè non avevo nemmeno tre anni. Dicono che nonna fosse una donna di un carattere ostinato, un caratteraccio testardo e irremovibile. Pretendeva lei il controllo su tutto, decideva anche per le persone intorno, e sapeva come imporsi pur mantenendosi ad una discreta distanza dagli altri. A volte dava l'impressione di essere acida e presuntuosa. Tutti un po' si chiedevano come mai uno come te fosse così follemente rapito da questa persona.
Forse perché subentrano sollazzi dell'anima che non possono essere né spiegati, né compresi. Che non si sanno trasferire su altri volti ed altri intenti, che quando ti si appendono alle palle è un vero casino tranciarle via.
Ed io ora che cazzo faccio? Lo sai di cosa parlo.

Ho preso qualche bastonata professionale meritata. Leggo il Financial Times e provo a interpretare quello che succede. Tu che travedi il tempo, secondo te, in Italia rischiamo una crisi del debito? Sarebbe davvero un guaio.
Comunque volevo smettere di parlare, una volta tanto. Volevo guardarti ancora una volta, ammirarti. Vedere i capelli grigi staccarsi ad uno ad uno dalla chemioterapia, posarsi al suolo come petali al vento di novembre.
E tu, immobile, a nascondere il tuo male, a lavorare e ad esserci come un muro maestro che si distingueva dalla maggioranza, stantìa come un'anestesia.
Mi allacciavi le scarpe. Ed io uscivo la mattina di domenica per comprarti il giornale ed il tuo pacchetto di MS mild. Guardavi la foto di nonna, e l'amavi. Ed il dolore di non sentire più la sua voce, di non vederla vivere, di non sentirla respirare di notte ti scavava le rughe sulla fronte.
Bastavi a te stesso, come tutti dovremmo essere. Senza elemosinare dalla vita altrui le ragioni e l'orgoglio di stampare la scia del nostro passaggio nell'involontario soggiorno.
Essere fieri di aver sollevato il culo da quella poltrona posta nel salone della convivenza sociale, senza aver lasciato sedimentare troppa polvere dove riposavano le natiche assuefatte al mondo.
La noia era solo l'impressione di non aver fatto abbastanza.

Li sento quei tuoi colpi di tosse, con cui rimproveravi la tua solitudine. Li raccolgo dopo ogni boccata di Philip Morris che lascio disperdere nell'aria. Il fremito del silenzio e della distanza.
Parlare è bello ma sciocco, quando lo si fa per se stessi, ereticamente. Ogni parola scritta o sibilata è un ponte. Sai nonno, che cosa mi manca? Quando mi sentivo ascoltato davvero, quando il mio ponte approdava su un'isola. Un'isola abbastanza inacidita oggi, e talvolta marcatamente stupida; un'isola che mi faceva star bene, che mi irradiava col suo sorriso. Un'isola che non dovrebbe scrutare i miei segreti pensieri, che dovrei sforzarmi di non pensare qui presente, con lo sguardo sulle mie pagine.
Perché io devo scrivere per me soltanto. Come sempre.
Perché devo essere arrabbiato e distante. E non lasciare che lei confonda quel cazzo di ardore che dentro mi avvampa con la presunzione di avermi in pugno. Che mi si possa stritolare con la facilità con cui si potrebbero ritagliare gli inetti contorni di un uomo nella nebbia delle sue debolezze.
Forse è giunta l'ora che mi travesta da rimpianto, per aver constatato come mi si possa perdere così, con disarmante e depauperante tranquillità.
Nonno, ho un racconto incompiuto che non so come proseguire.
Ed è l'ostinata direzione che ho dato alla mia cieca speranza a frenarmi, oppure il risveglio di una cupida rabbia.
Ho avuto voglia di afferrare quella giumenta bruna che mi guardava stasera, e farle male fino a quando non mi fossi esaurito del tutto, fino allo stremo della resistenza al respiro.
Ho avuto voglia di far breccia nel silenzio, ma senza riuscire a collezionare qualche parola che non fosse banale.

Le rughe si scavano a guardare quelle foto. E lasciarsi bagnare dalla sensibilità che promana da un cuore che sanguina, come cantava Roger Waters. Una condanna speciale a vedere le cose nel loro opposto, e nella loro profondità. La condanna a non accontentarsi di facili perché.
Chissà come mi avresti visto tu, in una fredda notte.
Chissà come avresti stretto la mano alla persona che si intreccia nel sangue e nel profumo di questi pensieri miei immutati.
Avresti visto subito come è bella. Come avrebbe posto immediata coerenza e giustizia alle ragioni incomprensibili che la logica stana e condanna in tutto questo brodo nel mio inaspettabile maelstrom.
Sono certo che mi avresti sorriso.
Perché mantenere fede ad una promessa sacra come una vita a sè stante, vuol dire non rinunciarsi mai. Anche se questo vuol dire rispondere alle estreme conseguenze indotte dalla propria barbara natura di sconfinata fermezza.
Mai fermarsi, mai temere di guadare la distanza tra due isole, quando il ponte della parola sembra interrotto da una fitta coltre di imposta menzogna.

Ciao nonno. Grazie per aver tessuto il lenzuolo che riflette la luce del mondo e assorbe il sale dalla terra. Grazie se so odiare con coscienza e amare saldamente, unica maniera per fregar la morte.
Inciso: sono spaventosamente ed eccezionalmente originale da permettermi di citare ed emulare chi mi pare, senza muovermi in un piano di inferiorità.
Grazie per i libri e le bastonate, nonno, e le cicatrici sugli stinchi inferte dal rastrello gestito male.
Grazie se ancora sgonfio i bulbi oculari a prestare attenzione alla tua vita.
Per la purezza. La trasparenza. La colonna a cui accostarmi per recepire le tranvate.
Per il mio silenzio che assolve indelebile le bieche stronzate.

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