- Come stai? - Ripeteva ancora una volta quella voce che fuoriusciva da quell'alienante involucro nel quale s'era confinata l'unica finestra che era riuscito a spalancare dal suo muro. Come sto? Provava a ripetersi cercando di spazzolare via un po' di retorica da quell'immagine floscia che doveva frettolosamente scrutare per trovare una risposta compiuta tra quei lineamenti sfibrati. Sapeva che in quelle esigue riga di verbi logorati dalla consuetudinaria routine con cui erano pescati e appiccicati alle pagine, avrebbe offerto soltanto una tenda opaca di tutto quello che gli si agitava dentro. Ma come poter mai sperare di scoperchiare del tutto quel baratro che lo graffiava interiormente, e offrire un dipinto ordinato e comprensibile che facesse davvero capire... In fin dei conti potevano essere soltanto nembi vagabondi d’un tempo che come una gomma corrosiva ed acida stava lentamente cancellando ogni traccia di identità dal suo viso. I giorni erano ormai divenuti maturi, erano transitate oltre le allergie al polline delle conifere che a primavera riempivano di sangue i suoi occhi, come fossero sacche di fuoco pronte a vuotarsi al minimo foro, e far fluire quel salato liquore. Eppure i bruciori erano tenaci ad allontanarsi, anche con le invetriate chiuse, a palpebre serrate e cucite.Poteva descriversi a partire da quel volto scarabocchiato la cui effigie esaminava, poteva farsi raccontare da un tumultuoso precipitato di musica francese che ascoltava con limitata attenzione. Lasciava infatti che fosse ogni cosa intorno a lui a dover essere attenta alla sua presenza. Così si svuotava di ogni infimo tratto, assecondando quel turbine interiore che lentamente gli portava via ogni desiderio di essere quale vorrebbe. Così avrebbe guardato il suo volto vagamente riflesso nelle pareti rotonde di quella campana di vetro nella quale s’era rinchiuso, ed ai cui infrangibili scomodi specchi avrebbe offerto le spalle, scivolando inerte per ritrovarsi accovacciato con le ginocchia incrociate al suolo e la testa piegata, non per raccogliersi in chissà quali meditazioni, ma per racchiudersi, collassare, spegnersi in quel buio che creava intrecciando gambe e braccia, eliminando ogni spiraglio. Comprimendo, schiacciando, dilaniando ogni bianco germoglio che non assomigliasse alla notte.Eppure avrebbe dovuto aspettarselo, sapeva bene ch eal mattino sarebbe stato meglio lavorare da buon cristiano qualunque, anziché rileggere all’infinito pagine e pensieri che non tornavano più. Allora si ritrovò ad odiare con tutto il suo cuore l’esistenza della parola scritta. Quella che resta eterna tra le pagine, le stesse che il ricordo da distese di fiori e d’azzurro, riesce a rovinare in violacee muraglie a cui si attorcigliano sterpi di rovi aguzzi e di spine affilate, che tranciano via la gioia di rivivere quel ieri come unica speranza dell'oggi. Detestò tutto quello che gli mancava, come fosse un graffio che gli portava via anche la pelle, lasciando le braccia nude e spoglie a farsi corrodere dall’aria immota e dalla pioggia. Calunniò persino quei graffiti sul muro scolpiti dai denti spalancati nelle urla di una faccia più volte schiantatagli contro, ogni volta che non si rassegnava a quelle tristi rinunce. Odiava la parola scritta e indelebile, che ripiomba sulla schiena come una frusta che ventila affetto e illusione quando è tesa e slanciata, e squarcia l’anima tutte le volte che i suoi occhi la vorrebbero recuperare nella memoria, durante un avaro presente. Odiava, nonostante sapeva benissimo che tra quelle pagine s'era consacrata la sua stessa vita, che i suoi respiri si erano desti tra quelle sillabe, che se ci fossero mai stati pensieri gradevoli a lui, fu soltanto grazie a quel dono sconosciuto defluente nel gioco incosciente di mente e parole. Odiava il cammino che lo aveva condotto in cima alla rupe per consentirgli di venerare lo sconfinato sublime dal quale spandeva l’unica forma di vita che gli restava accettabile, e mentre succhiava illusione da quello, si smarriva alle spalle la via del ritorno alla pace del silenzio. Così amaramente comprese di avere miserrime speranze. Restare lì, appeso nel bilico oppresso di chi sparge e non riceve, oppure gettarsi via. Abbandonarsi in quel profondo, confidando appena nell'intimo più nascosto che la fine fosse solo un attimo indolore e insensibile. E bearsi dell’impressione che quelle sue membra avrebbero potuto giovarsi di un sonno che offrisse un domani reale a quei suoi sogni maturati troppo esili per perdurare oltre l’alba, e troppo ombrosi per trovare riparo alle spalle di palpebre socchiuse alla luce del Sole.- Come stai? – Gli avrebbe sussurrato in quella notte novella la voce finissima tutte le volte che il bisogno di lei si fosse accesso nell’anima.Dormo, e sono vivo.
(bozza d'un incipit) Quest'opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons
Nell'immagine: Salvador Dalì, "Sonno" (1937).
...per fortuna sei ancora qui...
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