La signora Darbédat teneva una rabat lukùm ossequioso tra le dita. L'avvicinò alle labbra con precauzione e trattenne il respiro temendo di dissipare col fiato il sottile velo di zucchero di cui era cosparso. Il signor Darbédat, dinanzi a lei, riempiva della sua presenza quella camera tranquilla. Egli non si metteva a sedere, camminava in lungo e in largo, girando su se stesso. Ogni suo scatto feriva la signora Darbédat come una scheggia di vento. Quest'ultima scorse nel volto del marito il barlume di chi aveva compreso la natura della notizia che presto gli sarebbe stata rivelata e non tratteneva l'ansia, sperando tuttavia di fuggire innanzi alla scoperta. Questa scena la mandava tutta in sudore. Offrì il vassoio dei lukùm, ma il marito non parve neanche badarci. Aspettava che quel silenzio si riempisse prima di salutare la moglie, indossare il suo soprabito e recarsi finalmente a far visita ad Eva, la loro figlia.
- Baciala da parte mia, la nostra Eva. - esordì la signora Darbédat.
- Passerò dal dott. Franchot uscendo da casa sua. Vorrei che parlasse seriamente con Eva e cercasse di convincerla, una volta per tutte. - versò della grappa in un bicchierino e lo sorseggiava goffamente. - Bisognerebbe portarglielo via con la forza! - attestò veemente raccogliendo risolutezza e fermezza, bagnandosi le labbra di alcol e saliva.
La signora Darbédat, lo guardava con un pizzico di commiserazione, e ritenne che fosse giunto il momento di riferirgli quanto sapeva, per porre fine ai disincanti del marito:
- Eva ci tiene a lui, e non lo lascerà mai. Non permetterà mai che glielo portino via, neanche con la forza. -
- E che vorresti dire?
- Che lei ci tiene diversamente da come ci immaginiamo... Charles, non stancarmi - la sua voce si fece mesta e accondiscendente, rassegnata - dovresti capire che ad una madre rincresce di dire certe cose. -
- Non vorrai mica dire che essi hanno ancora... ancora adesso? Con lui in quelle condizioni? Che non la riconosce nemmeno? Che la chiama Agata anziché Eva?
Il capo della signora Darbédat si piegava affermativamente e sconsolatamente in avanti, con le labbra piatte di chi aveva già metabolizzato quell'assurda constatazione.
- La mia bambina, con quel... - Charles Darbédat si afflosciò pesantemente sul divanetto facendo schizzare via qualche goccia della sua grappa.
- Ricordi cosa ti dissi il giorno che Pierre venne a chiederti la mano di Eva? - riprese la moglie, con un seguitante tentativo di voler ricondurre ogni cosa ad una logica giustificatrice e premonitrice. - "Secondo me, piace troppo ad Eva", povero ragazzo, e quanto ci teneva alla nostra bambina, eppure qualche segnale di incoerenza lo manifestava già da allora, come un seme che germogliava piano, sotto gli occhi innamorati della nostra Eva.
- Ma lei è testarda! Preferirei che si trovasse un amante, se vuole essere moglie fino in fondo di quell'essere! Non riesco ad immaginarla... non voglio... -
- Baciala da parte mia, Charles, dille che sono malata, dille che le voglio bene. La nostra cara, povera bambina. - E quando il marito era già andato via la signora Darbédat si pentì di averci parlato. Si appoggiò allo schienale della sua poltrona, sospirò, allungò la mano pallida e prese un lukùm dal piattino, a tastoni, senza aprir gli occhi.
- Sei un po' palliduccia, Eva. - E ci fu un attimo di silenzio. Furono le prime parole del signor Darbédat alla figlia che venne ad aprirgli il portone. - Come sta Pierre? - aggiunse.
- Bene, - rispose Eva. - vuoi vederlo?
- Certamente, - rispose il padre con cortesia. Era pieno di compassione per quel povero disgraziato ragazzo ma non poteva vederlo senza ripugnanza. "Ho orrore degli esseri malsani". Evidentemente non era colpa di Pierre: egli era di un ceppo terribilmente guasto.
Eva girò lentamente la porta della camera ed entrarono. Furono accolti da un greve odore di incenso all'oppio. - Bonjour, Pierre, - lo salutò alzando la voce il signor Darbédat. Pierre stava seduto ad una scrivania immersa nella penombra con aria ambigua. - Cosa stai mangiando? Uova alla coque? - proseguì alzando ancora la voce il signor Darbédat.
- Non sono sordo. - rispose con dolce risolutezza Pierre, limitando al solo sguardo una parvenza di irritazione. "Ambiguo, come tutti i pazzi" pensava tra sè il signor Darbedàt, per poi virare la sua attenzione nei confronti della figlia che assecondava tutte le richieste bizzare del marito, "...ebbene, peggio per lei, sa che non guarirà mai, sa che peggiorerà soltanto". Costui non sragionava, quel giorno, si limitava a guardarlo con inespressività dolce.
Tornò nel corridoio con Eva.
- Come ti trucchi, figlia mia? Sei sicura di star bene? - le disse amorevolmente mentre le accarezzava con compassione il collo e l'orecchio destro spostando il lungo pendente attaccato all'orecchino, tenendolo qualche istante tra le dita.
- A Pierre piacciono molto i miei orecchini. - Rispose lei, guardando da un altra parte, evitando gli occhi severi del padre che tentavano di spiare oltre i profondi rimorsi di una eventuale rinuncia alla propria felicità. Il padre tirò fuori un sigaro, e mentre lo accendeva cominciava a parlare sulla necessità che sua figlia cambiasse casa, parlando di lei, di lei e basta. Lei, sola, doveva cambiare casa, quella era troppo grande. Pierre non esisteva.
- Pierre resterà con me - disse ella sottovoce - andiamo d'accordo noi due.
- A patto di farneticare tutto il giorno... - Rispose al franco e irremovibile sorriso della figlia, il signor Darbédat. "Infatti, - pensò furente - non fanno solo questo, vanno anche a letto insieme. E lui la chiama Agata, anziché Eva". - Sei completamente pazza. - le disse prendendo il soprabito, avendo inteso quanto fosse inutile procedere oltre.
- Non abbastanza, - rispose ancora sorridendo Eva. Andò via. Era un bella giornata di primavera, ai primi di maggio, calma e senza mistero. Il sole indorava il volto dei passanti. Egli fu colpito dalla semplicità di quei volti. "Ecco cosa rimprovero ad Eva - pensava mentre imboccava il boulevard Saint-Germain - le rimprovero di vivere al di fuori dell'umano. Pierre non è umano. Tutte le cure e l'amore che lei gli sta dedicando li toglie un poco a questa gente."
Eva attese che il padre se ne fosse andato. Si era chinato ad urlare su Pierre, l'aveva guardato, il viso di questi si era riflesso in quei grossi occhi vivaci. "Lo odio quando lo guarda, quando penso che lo vede." Vedeva dalla finestra il signor Darbédat imboccare boulevard Saint-Germain. "Pensa a Pierre". Un po' della loro vita era fuggita dalla camera in penombra e si trascinava per le strade, al sole, tra la gente. "Perché non ci dimenticano?". Eva fece un passo verso la camera di Pierre, ma si fermò appoggiandosi al muro con un po' d'angoscia: era presa dal panico ogni volta che ci voleva rientrare; eppure sapeva che non avrebbe voluto vivere altrove: amava la camera. Aprì la porta con circospezione, rimase sulla soglia per abituarsi alla penombra temendo che la camera l'avrebbe respinta. Vinse quella e la sua resistenza e penetrò fino al cuore della stanza. Ogni oggetto lì dentro non era più suo, ogni cosa si era spogliata del "noi" ed apparteneva a Pierre, al suo mondo unico, a quell'universo lontano che lei provava a raggiungere. Pierre aveva rovesciato la testa all'indietro e chiuso gli occhi. Era bello. "Si direbbe che soffra", pensò.
- Che cosa voleva quell'uomo, Agata? - chiese socchiudendo le labbra.
- Voleva che ti rinchiudessi. - Pierre voleva solo la verità, la riconosceva ad occhio nudo. Ed Agata lo sapeva, rispondeva sempre in maniera netta e tagliente. Gli indugi e la calma articolazione delle notizie lo rendevano diffidente, lo allontanavano ancora di più. Erano necessarie rivelazioni brutali e dirette.
- Rinchiudermi! Sono proprio fuori strada... Che cosa pensano possano farmi dei muri? I muri... ci si passa attraverso... - rispose Pierre, andandosi a sedere sulla sua poltrona, nell'angolo più buio della camera.
- Stanno venendo, le statue, Pierre? - chiese Eva inginocchiandosi davanti al bracciolo della poltrona del marito. - No, non vengono, Agata. Mi è indifferente vederle. Ma non voglio che mi tocchino... Tu le vedi, Agata?
- Non posso vederle, Pierre. - rispondeva chiamandolo ogni volta per nome, come per trattenerlo a sé.
- Meglio per te, fanno paura. E le hai sentite?
- Sì, è come un motore d'aeroplano - rispose lei, ricordando la maniera con cui Pierre raccontava di quelle sue visioni di statue volanti. "È come te che vorrei pensare" si raccontava ogni volta, Eva.
- Tu esageri. - rispose lui, sorridendole.
Le statue volavano, ronzavano chinate verso di lui. Pierre era atterritto, ogni volta chiudeva gli occhi e si rannicchiava lanciando un urlo e scacciandole. Quando lei le era accanto si sforzava di chiudere gli occhi e di cercare nell'aria intorno a sé quel ronzio, e di cercare dentro di sè il medesimo terrore che attanagliava colui che lei amava. Voleva essere parte di quel mondo tragico. "Anch'io ho paura delle statue" si ripeteva. Se le sentiva addosso, pur non potendo vedere tutto questo. Ogni volta si sentiva sfinita: "un gioco - pensava senza rimorso - non era che un gioco, ma neppure un istante ci ho creduto sinceramente". E nel frattempo egli vi soffriva davvero.
Pierre non chiudeva gli occhi e la guardava, la considerò a lungo.
- Sei bella davvero Agata, - disse scuotendo la testa - che peccato, un vero peccato! - e poi aggiunse: - Ma non posso comprenderti... non ci riesco, vorrei, non ci riesco. - Intanto la accarezzava, e lei si addormentò appoggiando il capo sul bracciolo della poltrona, al calore della sua mano tra i capelli scuri e lisci. E quel volto chiaro e lucido faceva impallidire la notte in quella camera scura e senza comprensione.
Pierre la guardava, stavolta non l'aveva rimproverata quand'ella l'aveva guardato troppo sulla bocca. Non riusciva tuttavia a staccarle il proprio pensiero di dosso.
"Agata, se io fossi un cigno me ne andrei via. Se potessi ti direi quello che non mi si allenta in una serata di occhi che bruciano alla tua luce perfetta dinanzi alla quale ogni difesa si persuade di mantenersi solida come fragile zucchero sparso dalla tempesta in una tazza di acqua calda. Ricordo il giorno in cui sei comparsa. Eri diffidente, eri bella, ma non eri ancora abbastanza qualcuno. Vorrei dirti alcune cose… descriverti le mura di questa camera, le venature intorno ai marmi delle sue finestre. Il perché scorgi talvolta le macchie scure sul soffitto grigio; vorrei raccontarti delle ombre languide e suasive che mutano inclinazione e le impronte stagliate ai tuoi piedi a seconda del ritmo del sole e delle stagioni. Di quel che mi si disegna in fondo a questo invisibile silenzio quando ti ascolto. Quando sei più distante di un arco nel cielo sottomesso al tramonto, di cui in questa camera se ne trae solo un colorito riflesso. Uno specchio sospeso alle spalle di una cornice spalancata sul viale lungo il quale, scanzonata, va a spasso la vita.
Questa camera... milioni di passi lontana dal mondo e da te. Agata, è tutto così assurdo.Tu che non puoi riconoscere il mio sguardo vero al di fuori dei confini di una sensazione. E non sono capace di difendermi al di fuori di questa sottile farsa di incomprensione. Che muovi quest'anima come il tempo sa giostrare con prevedibile maestria, i burattini del sole, del giorno e della notte. Che quasi edulcora inosservato di fronte alle nostre ossequiose abitudini, per le quali si forgia in funzione di esse tutto il susseguirsi delle rincorse e delle transizioni da un passo all'altro con volubili e incerti saltelli.
Ogni istante ed ogni parola è un'attesa incrollabile che quella camera non mi lasci mai solo. Ogni sillaba ed ogni intuibile smorfia è un centimetro che mi trattiene indietro a questa voglia di svestirmi al freddo di questa paura. La stessa che potrebbe indurti a non voler muovere il tuo sguardo oltre l'uscio."
Pierre lacrimava, e muoveva piano le sue labbra che ad Agata piaceva sfiorare. Balbettava, spezzando il treno dei suoi pensieri in flebili mormorii che non la destassero dal sonno e dalla inconsapevolezza di lei circa la verità su quelle indecifrabili ansie. Inconsapevolezza che Pierre sperava per poter indossare la sua maschera privilegiata e allontanare la resa dei conti con l'uragano intestino; inconsapevolezza che però temeva, perché tutto questo poteva non coinvolgerla, non la tratteneva, non la stringeva a sè. Non esiste un linguaggio univoco che rasenta tutte le inquietudini. I giorni di immagini senza parole erano gli ultimi respiri che precedevano il tuffo.
Quella malinconia latente sottesa ai sorrisi che indovinava sul viso lontano di Agata, la rendevano ancora più bella, ancora più adorabile e vera.
Si alzò, dalla poltrona e la raccolse con ardore. La mise a sedere al suo posto. Nella penombra scoprì la scrivania e la sua sedia.
Pierre aveva sempre un pensiero balenante da dover riportare su una pagina, prima che le statue potessero tornare a terrorizzarlo con i loro graffi di cemento e carne e le squame umane delle loro voci. Pierre scriveva tanto con la sua matita mordicchiata all'estremità opposta della punta smussata e tonda che lasciava segni troppo ampi e solchi poco profondi, che un soffio di delusione avrebbe potuto cancellare senza possibilità che venissero ricordati.
Lasciava quelle pagine immobili, non sapeva se ad Agata interessavano, se mentre lui dormiva o scavava col suo coltellino sulle piccoli travi di legno che lei gli procurava, lei leggesse attentamente quelle parole.
Pierre, nonostante il lento e folle impeto della sua ragione era al corrente che non avrebbe mai potuto parlare del suo affanno, del suo brivido con colei che tutto questo lo procurava. E nel velo non pago di Agata scontava quella sconfitta, quella rinuncia, specchiante la conseguenza del suo imperversante silenzio. Che lo dipingeva come austero e distante, quand'egli le viveva intorno da ogni parte a sua insaputa.
Pierre non poteva sapere e comprendere cosa Agata nascondeva dentro di lei. Non riusciva a scoprire se lei lo avesse così caro, indispensabile, com'ella era per lui. Pierre non sapeva, era tutto un mistero tale e quale alle statue violente che lo detestavano. In quelle parole c'era ogni cosa, ma Agata avrebbe dovuto e voluto comprendere. Perché se il sole avesse rischiarato completamente quella camera dalla penombra, quella porta, forse non si sarebbe riaperta com'egli desiderava. E lei non gli avrebbe più guardato la bocca, con la stessa trepidante quiete.
- Baciala da parte mia, la nostra Eva. - esordì la signora Darbédat.
- Passerò dal dott. Franchot uscendo da casa sua. Vorrei che parlasse seriamente con Eva e cercasse di convincerla, una volta per tutte. - versò della grappa in un bicchierino e lo sorseggiava goffamente. - Bisognerebbe portarglielo via con la forza! - attestò veemente raccogliendo risolutezza e fermezza, bagnandosi le labbra di alcol e saliva.
La signora Darbédat, lo guardava con un pizzico di commiserazione, e ritenne che fosse giunto il momento di riferirgli quanto sapeva, per porre fine ai disincanti del marito:
- Eva ci tiene a lui, e non lo lascerà mai. Non permetterà mai che glielo portino via, neanche con la forza. -
- E che vorresti dire?
- Che lei ci tiene diversamente da come ci immaginiamo... Charles, non stancarmi - la sua voce si fece mesta e accondiscendente, rassegnata - dovresti capire che ad una madre rincresce di dire certe cose. -
- Non vorrai mica dire che essi hanno ancora... ancora adesso? Con lui in quelle condizioni? Che non la riconosce nemmeno? Che la chiama Agata anziché Eva?
Il capo della signora Darbédat si piegava affermativamente e sconsolatamente in avanti, con le labbra piatte di chi aveva già metabolizzato quell'assurda constatazione.
- La mia bambina, con quel... - Charles Darbédat si afflosciò pesantemente sul divanetto facendo schizzare via qualche goccia della sua grappa.
- Ricordi cosa ti dissi il giorno che Pierre venne a chiederti la mano di Eva? - riprese la moglie, con un seguitante tentativo di voler ricondurre ogni cosa ad una logica giustificatrice e premonitrice. - "Secondo me, piace troppo ad Eva", povero ragazzo, e quanto ci teneva alla nostra bambina, eppure qualche segnale di incoerenza lo manifestava già da allora, come un seme che germogliava piano, sotto gli occhi innamorati della nostra Eva.
- Ma lei è testarda! Preferirei che si trovasse un amante, se vuole essere moglie fino in fondo di quell'essere! Non riesco ad immaginarla... non voglio... -
- Baciala da parte mia, Charles, dille che sono malata, dille che le voglio bene. La nostra cara, povera bambina. - E quando il marito era già andato via la signora Darbédat si pentì di averci parlato. Si appoggiò allo schienale della sua poltrona, sospirò, allungò la mano pallida e prese un lukùm dal piattino, a tastoni, senza aprir gli occhi.
- Sei un po' palliduccia, Eva. - E ci fu un attimo di silenzio. Furono le prime parole del signor Darbédat alla figlia che venne ad aprirgli il portone. - Come sta Pierre? - aggiunse.
- Bene, - rispose Eva. - vuoi vederlo?
- Certamente, - rispose il padre con cortesia. Era pieno di compassione per quel povero disgraziato ragazzo ma non poteva vederlo senza ripugnanza. "Ho orrore degli esseri malsani". Evidentemente non era colpa di Pierre: egli era di un ceppo terribilmente guasto.
Eva girò lentamente la porta della camera ed entrarono. Furono accolti da un greve odore di incenso all'oppio. - Bonjour, Pierre, - lo salutò alzando la voce il signor Darbédat. Pierre stava seduto ad una scrivania immersa nella penombra con aria ambigua. - Cosa stai mangiando? Uova alla coque? - proseguì alzando ancora la voce il signor Darbédat.
- Non sono sordo. - rispose con dolce risolutezza Pierre, limitando al solo sguardo una parvenza di irritazione. "Ambiguo, come tutti i pazzi" pensava tra sè il signor Darbedàt, per poi virare la sua attenzione nei confronti della figlia che assecondava tutte le richieste bizzare del marito, "...ebbene, peggio per lei, sa che non guarirà mai, sa che peggiorerà soltanto". Costui non sragionava, quel giorno, si limitava a guardarlo con inespressività dolce.
Tornò nel corridoio con Eva.
- Come ti trucchi, figlia mia? Sei sicura di star bene? - le disse amorevolmente mentre le accarezzava con compassione il collo e l'orecchio destro spostando il lungo pendente attaccato all'orecchino, tenendolo qualche istante tra le dita.
- A Pierre piacciono molto i miei orecchini. - Rispose lei, guardando da un altra parte, evitando gli occhi severi del padre che tentavano di spiare oltre i profondi rimorsi di una eventuale rinuncia alla propria felicità. Il padre tirò fuori un sigaro, e mentre lo accendeva cominciava a parlare sulla necessità che sua figlia cambiasse casa, parlando di lei, di lei e basta. Lei, sola, doveva cambiare casa, quella era troppo grande. Pierre non esisteva.
- Pierre resterà con me - disse ella sottovoce - andiamo d'accordo noi due.
- A patto di farneticare tutto il giorno... - Rispose al franco e irremovibile sorriso della figlia, il signor Darbédat. "Infatti, - pensò furente - non fanno solo questo, vanno anche a letto insieme. E lui la chiama Agata, anziché Eva". - Sei completamente pazza. - le disse prendendo il soprabito, avendo inteso quanto fosse inutile procedere oltre.
- Non abbastanza, - rispose ancora sorridendo Eva. Andò via. Era un bella giornata di primavera, ai primi di maggio, calma e senza mistero. Il sole indorava il volto dei passanti. Egli fu colpito dalla semplicità di quei volti. "Ecco cosa rimprovero ad Eva - pensava mentre imboccava il boulevard Saint-Germain - le rimprovero di vivere al di fuori dell'umano. Pierre non è umano. Tutte le cure e l'amore che lei gli sta dedicando li toglie un poco a questa gente."
Eva attese che il padre se ne fosse andato. Si era chinato ad urlare su Pierre, l'aveva guardato, il viso di questi si era riflesso in quei grossi occhi vivaci. "Lo odio quando lo guarda, quando penso che lo vede." Vedeva dalla finestra il signor Darbédat imboccare boulevard Saint-Germain. "Pensa a Pierre". Un po' della loro vita era fuggita dalla camera in penombra e si trascinava per le strade, al sole, tra la gente. "Perché non ci dimenticano?". Eva fece un passo verso la camera di Pierre, ma si fermò appoggiandosi al muro con un po' d'angoscia: era presa dal panico ogni volta che ci voleva rientrare; eppure sapeva che non avrebbe voluto vivere altrove: amava la camera. Aprì la porta con circospezione, rimase sulla soglia per abituarsi alla penombra temendo che la camera l'avrebbe respinta. Vinse quella e la sua resistenza e penetrò fino al cuore della stanza. Ogni oggetto lì dentro non era più suo, ogni cosa si era spogliata del "noi" ed apparteneva a Pierre, al suo mondo unico, a quell'universo lontano che lei provava a raggiungere. Pierre aveva rovesciato la testa all'indietro e chiuso gli occhi. Era bello. "Si direbbe che soffra", pensò.
- Che cosa voleva quell'uomo, Agata? - chiese socchiudendo le labbra.
- Voleva che ti rinchiudessi. - Pierre voleva solo la verità, la riconosceva ad occhio nudo. Ed Agata lo sapeva, rispondeva sempre in maniera netta e tagliente. Gli indugi e la calma articolazione delle notizie lo rendevano diffidente, lo allontanavano ancora di più. Erano necessarie rivelazioni brutali e dirette.
- Rinchiudermi! Sono proprio fuori strada... Che cosa pensano possano farmi dei muri? I muri... ci si passa attraverso... - rispose Pierre, andandosi a sedere sulla sua poltrona, nell'angolo più buio della camera.
- Stanno venendo, le statue, Pierre? - chiese Eva inginocchiandosi davanti al bracciolo della poltrona del marito. - No, non vengono, Agata. Mi è indifferente vederle. Ma non voglio che mi tocchino... Tu le vedi, Agata?
- Non posso vederle, Pierre. - rispondeva chiamandolo ogni volta per nome, come per trattenerlo a sé.
- Meglio per te, fanno paura. E le hai sentite?
- Sì, è come un motore d'aeroplano - rispose lei, ricordando la maniera con cui Pierre raccontava di quelle sue visioni di statue volanti. "È come te che vorrei pensare" si raccontava ogni volta, Eva.
- Tu esageri. - rispose lui, sorridendole.
Le statue volavano, ronzavano chinate verso di lui. Pierre era atterritto, ogni volta chiudeva gli occhi e si rannicchiava lanciando un urlo e scacciandole. Quando lei le era accanto si sforzava di chiudere gli occhi e di cercare nell'aria intorno a sé quel ronzio, e di cercare dentro di sè il medesimo terrore che attanagliava colui che lei amava. Voleva essere parte di quel mondo tragico. "Anch'io ho paura delle statue" si ripeteva. Se le sentiva addosso, pur non potendo vedere tutto questo. Ogni volta si sentiva sfinita: "un gioco - pensava senza rimorso - non era che un gioco, ma neppure un istante ci ho creduto sinceramente". E nel frattempo egli vi soffriva davvero.
Pierre non chiudeva gli occhi e la guardava, la considerò a lungo.
- Sei bella davvero Agata, - disse scuotendo la testa - che peccato, un vero peccato! - e poi aggiunse: - Ma non posso comprenderti... non ci riesco, vorrei, non ci riesco. - Intanto la accarezzava, e lei si addormentò appoggiando il capo sul bracciolo della poltrona, al calore della sua mano tra i capelli scuri e lisci. E quel volto chiaro e lucido faceva impallidire la notte in quella camera scura e senza comprensione.
Pierre la guardava, stavolta non l'aveva rimproverata quand'ella l'aveva guardato troppo sulla bocca. Non riusciva tuttavia a staccarle il proprio pensiero di dosso.
"Agata, se io fossi un cigno me ne andrei via. Se potessi ti direi quello che non mi si allenta in una serata di occhi che bruciano alla tua luce perfetta dinanzi alla quale ogni difesa si persuade di mantenersi solida come fragile zucchero sparso dalla tempesta in una tazza di acqua calda. Ricordo il giorno in cui sei comparsa. Eri diffidente, eri bella, ma non eri ancora abbastanza qualcuno. Vorrei dirti alcune cose… descriverti le mura di questa camera, le venature intorno ai marmi delle sue finestre. Il perché scorgi talvolta le macchie scure sul soffitto grigio; vorrei raccontarti delle ombre languide e suasive che mutano inclinazione e le impronte stagliate ai tuoi piedi a seconda del ritmo del sole e delle stagioni. Di quel che mi si disegna in fondo a questo invisibile silenzio quando ti ascolto. Quando sei più distante di un arco nel cielo sottomesso al tramonto, di cui in questa camera se ne trae solo un colorito riflesso. Uno specchio sospeso alle spalle di una cornice spalancata sul viale lungo il quale, scanzonata, va a spasso la vita.
Questa camera... milioni di passi lontana dal mondo e da te. Agata, è tutto così assurdo.Tu che non puoi riconoscere il mio sguardo vero al di fuori dei confini di una sensazione. E non sono capace di difendermi al di fuori di questa sottile farsa di incomprensione. Che muovi quest'anima come il tempo sa giostrare con prevedibile maestria, i burattini del sole, del giorno e della notte. Che quasi edulcora inosservato di fronte alle nostre ossequiose abitudini, per le quali si forgia in funzione di esse tutto il susseguirsi delle rincorse e delle transizioni da un passo all'altro con volubili e incerti saltelli.
Ogni istante ed ogni parola è un'attesa incrollabile che quella camera non mi lasci mai solo. Ogni sillaba ed ogni intuibile smorfia è un centimetro che mi trattiene indietro a questa voglia di svestirmi al freddo di questa paura. La stessa che potrebbe indurti a non voler muovere il tuo sguardo oltre l'uscio."
Pierre lacrimava, e muoveva piano le sue labbra che ad Agata piaceva sfiorare. Balbettava, spezzando il treno dei suoi pensieri in flebili mormorii che non la destassero dal sonno e dalla inconsapevolezza di lei circa la verità su quelle indecifrabili ansie. Inconsapevolezza che Pierre sperava per poter indossare la sua maschera privilegiata e allontanare la resa dei conti con l'uragano intestino; inconsapevolezza che però temeva, perché tutto questo poteva non coinvolgerla, non la tratteneva, non la stringeva a sè. Non esiste un linguaggio univoco che rasenta tutte le inquietudini. I giorni di immagini senza parole erano gli ultimi respiri che precedevano il tuffo.
Quella malinconia latente sottesa ai sorrisi che indovinava sul viso lontano di Agata, la rendevano ancora più bella, ancora più adorabile e vera.
Si alzò, dalla poltrona e la raccolse con ardore. La mise a sedere al suo posto. Nella penombra scoprì la scrivania e la sua sedia.
Pierre aveva sempre un pensiero balenante da dover riportare su una pagina, prima che le statue potessero tornare a terrorizzarlo con i loro graffi di cemento e carne e le squame umane delle loro voci. Pierre scriveva tanto con la sua matita mordicchiata all'estremità opposta della punta smussata e tonda che lasciava segni troppo ampi e solchi poco profondi, che un soffio di delusione avrebbe potuto cancellare senza possibilità che venissero ricordati.
Lasciava quelle pagine immobili, non sapeva se ad Agata interessavano, se mentre lui dormiva o scavava col suo coltellino sulle piccoli travi di legno che lei gli procurava, lei leggesse attentamente quelle parole.
Pierre, nonostante il lento e folle impeto della sua ragione era al corrente che non avrebbe mai potuto parlare del suo affanno, del suo brivido con colei che tutto questo lo procurava. E nel velo non pago di Agata scontava quella sconfitta, quella rinuncia, specchiante la conseguenza del suo imperversante silenzio. Che lo dipingeva come austero e distante, quand'egli le viveva intorno da ogni parte a sua insaputa.
Pierre non poteva sapere e comprendere cosa Agata nascondeva dentro di lei. Non riusciva a scoprire se lei lo avesse così caro, indispensabile, com'ella era per lui. Pierre non sapeva, era tutto un mistero tale e quale alle statue violente che lo detestavano. In quelle parole c'era ogni cosa, ma Agata avrebbe dovuto e voluto comprendere. Perché se il sole avesse rischiarato completamente quella camera dalla penombra, quella porta, forse non si sarebbe riaperta com'egli desiderava. E lei non gli avrebbe più guardato la bocca, con la stessa trepidante quiete.
perché proprio il boulevard saint germain?
RispondiEliminaDovresti chiederlo a Jean-Paul Sartre, il 20% di questa storia se l'è inventata lui, mademoiselle.
RispondiEliminaessì.
RispondiEliminama di sartre la risposta è scontata, visto che abitava da quelle parti.
ma tu potevi pure includere l'indirizzo nell'80% della storia, monsi.
Ma la mia opera di deturpazione letteraria si sofferma più su altri aspetti, tipo che ne so... l'incomunicabilità... la sensazione di chi vuol comunicare e non lo fa, cose così... la distanza... la necessità di soffermarsi a capire pure le virole. Ché non si scrive tanto per...
RispondiEliminaE mannaggia alle sensazioni! :|
RispondiEliminaquoque tu...
RispondiElimina...bruTTa filia tua!
RispondiEliminaSalutami il piedino malandato, figliola.
RispondiElimina