LA GIOVANE SIGNORA: Sei qui? Come sei entrato?
L'UOMO IN FRAK (resta dapprima immobile, poi si volta appena a guardarla: cava da un taschino del panciotto scollato una piccola lucida chiave e la mostra: quindi se la rimette nel taschino).
LA GIOVANE SIGNORA: Ah, l'hai ritrovata tu? Proprio come avevo sospettato. Quando te la richiesi, dopo la tua ultima imprudenza.
L'UOMO IN FRAK (sorride).
LA GIOVANE SIGNORA: Perché sorridi?
E non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto "gli altri dentro te"?
Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose... Covando attese, sospetti, paure e angoscie di scelte che non ci competono. Scelte che vorremmo compiere, altre che sono negate, altre che attendiamo da chi ci circonda come rispondenti all'immagine di costoro che si traccia in noi nella miscela di desiderio e aspirazione, nonché di quello che ci si congegna di essere e apparire nell'incredulità d ritrovarsi ogni volta al cospetto di uno specchio in frantumi che proietta infiniti ologrammi di immagini incomplete. Ma in ciascuna sillaba, in ciascuna emissione e gesto, si compie l'unione e la chirurgica cucitura d'ogni meandro disperso in noi, e fuoriesce in maniera talvolta spesso confusa e incomprensibile perfno a chi involontariamente è padre di quei sussulti e quei pensieri... E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come s'agitano dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro?
Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai... almeno con gli occhi aperti, e nella lingua corrente... dove le semplici parole battono sul banco della corte alla maniera del martello del giudice, in un tribunale senza appello il cui verdetto s'emana elastico di modo da rivestire ogni trascurabile dettaglio di noi.
E poi, prede del dubbio, non ci si parla più davvero... e non ci si stima... e poi si continua a covare, a covare, a reprimere... a parlarsi in testa anziché parlarsi in faccia... e la strada diritta, spianata, sincera si contorce... Se si potesse squarciare con la logica pura questa condizione di lontananza che si innesta irrimediabilmente... se fosse possibile adoperare le parole giuste che indichino sempre e soltanto la reale condizione entro cui si affilano i pensieri... se fosse possibile essere maschere di vetro infrangibile, ove potersi lasciare guardare dentro. Se fossimo tutti ciechi, oppure sordi, se lasciassimo l'onere dell'ascolto o dell'analisi a quel che ci si asconde in noi, alla fiducia e al bisogno dell'altro che si spera possa esserci... se potessimo vivere in totale simbiosi con quello che di noi vive e si muove negli altri, coerenti senza rimorsi per la mancanza di abnegazione all'affermazione del proprio irrinunciabile essere... Se fossimo davvero sempre e soltanto UNO... e mai CENTOMILA... se fossimo, e nulla più.
Questa siepe, che da tanta parte il guardo esclude, sarebbe solo fresca ombra d'agosto.
Alberto Saporito è un apparecchiatore di feste popolari, e vive col fratello Carlo e lo zio, Nicola. Quest'ultimo ha da tempo rinunciato alla parola, si esprime sparando botti e mortaletti, ogni segnale è un messaggio, asciutto e sincero, senza alcuna possibilità di corruzione nella comunicazione. Una notte Alberto sogna che i vicini di palazzo, i Cimmaruta, uccidono l'amico Aniello Amitrano e ne occultano il cadavere. Nel sogno, lucidissimo, Alberto vede dove sono nascosti i documenti che possono incastrare i vicini. L'indomani, fatta la denuncia in questura, fa arrestare i Cimmaruta e rimasto solo in casa con il portiere Michele, cerca i documenti. Solo allora, all'improvviso, s'accorge di aver sognato il tutto e capisce il guaio che ha combinato.
Ritrattata la denuncia dal commissariato di polizia, Alberto si trova ora nei guai: Il procuratore della Repubblica, insospettito, crede che egli abbia ritrattato per paura od altro. Inoltre, rischia una querela per calunnia da parte dei vicini. Ma l'irruzione di questo evento scatena in una rapida degenerazione un meccanismo che svelerà tutte le meschinità celate dei protagonisti. Carlo, il fratello, sperando nell'arresto, cerca immediatamente un compratore per tutto il materiale per l'allestimento delle feste popolari, e tenta di farne firmare ad Alberto la cessione (con pieni poteri), adducendo varie scuse. I Cimmaruta, uno alla volta, sfilano dinanzi all'impressionata figura di Alberto, ciascuno pronto ad addossare la colpa dell'omicidio ed il proprio perentorio J'accuse su un altro membro della famiglia stessa verso il quale nutre un risentimento represso che non è mai riuscito a trarre fuori per debolezza, inettitudine oppure orgoglio... Pasquale Cimmaruta il capofamiglia, piegato e affranto, pronto a dare addosso alla moglie chiromante di cui sospetta da sempre il tradimento reiterato e che lo tratta da sguattero... ed è a sua volta accusato da questa, che dentro di sé cova la rabbia di avere un marito impedito e debole, incapace di essere all'altezza del suo ruolo. La sorella di Pasquale, Rosa che teme che l'assassino possa essere stato Luigino, il suo nipote così sfiduciato, sbandato, confuso e stravolto... Quest'ultimo a sua volta accusa dell'omicidio la zia che avrebbe la mania di fabbricare in casa candele e saponi... ed una zuffa scatenata dai rancori finalmente sfoderati tra tutti i reciproci carnefici alla fine del secondo atto conclusasi con zi' Nicola che rompe il muro del suo silenzio ed urla dal suo piccolo soppalco: "Per favore! Un poco di pace!", per poi morire lanciando un bengala verde, il segnale di via libera...
I Cimmaruta converranno, alla fine, di dover assassinare Alberto per salvarsi, per ristabilire il silenzio e l'ipocrisia che serpeggiava tra loro... per redimersi falsamente da un omicidio che, nel finale della commedia, si scopre essere veramente un sogno, in quanto Aniello Amitrano è vivo e vegeto. Alberto, a questo punto finale, finge di aver trovato i documenti, e convoca tutti per emettere la sua amara sentenza, in un tribunale kafkiano che coinvolge tra gli imputati egli stesso, responsabile di aver ritenuto possibile che i suoi vicini fossero stati capaci di quell'omicidio:
"Assassini! Ma che parlo a fare? Parlare è inutile! Voi mò volete sapere perché siete assassini ... in mezzo a voi magari ci sono pure io e non me ne accorgo ... Avete sospettato l'uno dell'altro ... Io vi ho accusati e voi non vi siete ribellati, lo avete ritenuto possibile. Un delitto lo avete messo fra le cose probabili di tutti i giorni; un assassinio nel bilancio familiare! La stima, don Pasqua', la stima! La stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci appacifica con noi stessa, l'abbiamo uccisa! E vi sembra un assassinio da niente... Come facciamo a vivere? A guardarci in faccia? La fiducia scambievole ... senza la quale si può arrivare anche al delitto. Avevi ragione tu, zi' Nicola, ma che parliamo a fare? Parlami tu, zi' Nico', c'aggia ffa'?"
Più forte, zi' Nico', non si capisce... parla più chiaro... zi' Nicola m'ha parlato, ma non si capisce..."
tratto da Eduardo De Filippo, Le Voci di Dentro, Atto III
La lealtà, la lealtà è un debito, e il più sacro, verso noi stessi, anche prima che verso gli altri. Tradire è orribile. Tradire è orribile.
tratto da L. Pirandello, Sogno (ma forse no)
L'UOMO IN FRAK (resta dapprima immobile, poi si volta appena a guardarla: cava da un taschino del panciotto scollato una piccola lucida chiave e la mostra: quindi se la rimette nel taschino).
LA GIOVANE SIGNORA: Ah, l'hai ritrovata tu? Proprio come avevo sospettato. Quando te la richiesi, dopo la tua ultima imprudenza.
L'UOMO IN FRAK (sorride).
LA GIOVANE SIGNORA: Perché sorridi?
E non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto "gli altri dentro te"?
Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose... Covando attese, sospetti, paure e angoscie di scelte che non ci competono. Scelte che vorremmo compiere, altre che sono negate, altre che attendiamo da chi ci circonda come rispondenti all'immagine di costoro che si traccia in noi nella miscela di desiderio e aspirazione, nonché di quello che ci si congegna di essere e apparire nell'incredulità d ritrovarsi ogni volta al cospetto di uno specchio in frantumi che proietta infiniti ologrammi di immagini incomplete. Ma in ciascuna sillaba, in ciascuna emissione e gesto, si compie l'unione e la chirurgica cucitura d'ogni meandro disperso in noi, e fuoriesce in maniera talvolta spesso confusa e incomprensibile perfno a chi involontariamente è padre di quei sussulti e quei pensieri... E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come s'agitano dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro?
Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai... almeno con gli occhi aperti, e nella lingua corrente... dove le semplici parole battono sul banco della corte alla maniera del martello del giudice, in un tribunale senza appello il cui verdetto s'emana elastico di modo da rivestire ogni trascurabile dettaglio di noi.
E poi, prede del dubbio, non ci si parla più davvero... e non ci si stima... e poi si continua a covare, a covare, a reprimere... a parlarsi in testa anziché parlarsi in faccia... e la strada diritta, spianata, sincera si contorce... Se si potesse squarciare con la logica pura questa condizione di lontananza che si innesta irrimediabilmente... se fosse possibile adoperare le parole giuste che indichino sempre e soltanto la reale condizione entro cui si affilano i pensieri... se fosse possibile essere maschere di vetro infrangibile, ove potersi lasciare guardare dentro. Se fossimo tutti ciechi, oppure sordi, se lasciassimo l'onere dell'ascolto o dell'analisi a quel che ci si asconde in noi, alla fiducia e al bisogno dell'altro che si spera possa esserci... se potessimo vivere in totale simbiosi con quello che di noi vive e si muove negli altri, coerenti senza rimorsi per la mancanza di abnegazione all'affermazione del proprio irrinunciabile essere... Se fossimo davvero sempre e soltanto UNO... e mai CENTOMILA... se fossimo, e nulla più.
Questa siepe, che da tanta parte il guardo esclude, sarebbe solo fresca ombra d'agosto.
Ritrattata la denuncia dal commissariato di polizia, Alberto si trova ora nei guai: Il procuratore della Repubblica, insospettito, crede che egli abbia ritrattato per paura od altro. Inoltre, rischia una querela per calunnia da parte dei vicini. Ma l'irruzione di questo evento scatena in una rapida degenerazione un meccanismo che svelerà tutte le meschinità celate dei protagonisti. Carlo, il fratello, sperando nell'arresto, cerca immediatamente un compratore per tutto il materiale per l'allestimento delle feste popolari, e tenta di farne firmare ad Alberto la cessione (con pieni poteri), adducendo varie scuse. I Cimmaruta, uno alla volta, sfilano dinanzi all'impressionata figura di Alberto, ciascuno pronto ad addossare la colpa dell'omicidio ed il proprio perentorio J'accuse su un altro membro della famiglia stessa verso il quale nutre un risentimento represso che non è mai riuscito a trarre fuori per debolezza, inettitudine oppure orgoglio... Pasquale Cimmaruta il capofamiglia, piegato e affranto, pronto a dare addosso alla moglie chiromante di cui sospetta da sempre il tradimento reiterato e che lo tratta da sguattero... ed è a sua volta accusato da questa, che dentro di sé cova la rabbia di avere un marito impedito e debole, incapace di essere all'altezza del suo ruolo. La sorella di Pasquale, Rosa che teme che l'assassino possa essere stato Luigino, il suo nipote così sfiduciato, sbandato, confuso e stravolto... Quest'ultimo a sua volta accusa dell'omicidio la zia che avrebbe la mania di fabbricare in casa candele e saponi... ed una zuffa scatenata dai rancori finalmente sfoderati tra tutti i reciproci carnefici alla fine del secondo atto conclusasi con zi' Nicola che rompe il muro del suo silenzio ed urla dal suo piccolo soppalco: "Per favore! Un poco di pace!", per poi morire lanciando un bengala verde, il segnale di via libera...
I Cimmaruta converranno, alla fine, di dover assassinare Alberto per salvarsi, per ristabilire il silenzio e l'ipocrisia che serpeggiava tra loro... per redimersi falsamente da un omicidio che, nel finale della commedia, si scopre essere veramente un sogno, in quanto Aniello Amitrano è vivo e vegeto. Alberto, a questo punto finale, finge di aver trovato i documenti, e convoca tutti per emettere la sua amara sentenza, in un tribunale kafkiano che coinvolge tra gli imputati egli stesso, responsabile di aver ritenuto possibile che i suoi vicini fossero stati capaci di quell'omicidio:
"Assassini! Ma che parlo a fare? Parlare è inutile! Voi mò volete sapere perché siete assassini ... in mezzo a voi magari ci sono pure io e non me ne accorgo ... Avete sospettato l'uno dell'altro ... Io vi ho accusati e voi non vi siete ribellati, lo avete ritenuto possibile. Un delitto lo avete messo fra le cose probabili di tutti i giorni; un assassinio nel bilancio familiare! La stima, don Pasqua', la stima! La stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci appacifica con noi stessa, l'abbiamo uccisa! E vi sembra un assassinio da niente... Come facciamo a vivere? A guardarci in faccia? La fiducia scambievole ... senza la quale si può arrivare anche al delitto. Avevi ragione tu, zi' Nicola, ma che parliamo a fare? Parlami tu, zi' Nico', c'aggia ffa'?"
Più forte, zi' Nico', non si capisce... parla più chiaro... zi' Nicola m'ha parlato, ma non si capisce..."
tratto da Eduardo De Filippo, Le Voci di Dentro, Atto III
La lealtà, la lealtà è un debito, e il più sacro, verso noi stessi, anche prima che verso gli altri. Tradire è orribile. Tradire è orribile.
tratto da L. Pirandello, Sogno (ma forse no)
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