R. passeggiava con aria spaesata lungo via Paolo Sacchi alla ricerca di una eventuale fermata degli autobus. Portava la sua borsa gialla stando attento a non farle toccare il suolo sporco di fanghiglia per il temporale da poco interrotto.
Era rimasta intatta quella presunta sensazione di pioggia. Aveva il telefono scarico, non avrebbe potuto avvisare nessuno né del suo arrivo, né della sua prossima ripartenza. Aveva un biglietto con un indirizzo che sbucava fuori dal suo taccuino sul quale aveva appuntate varie cose. Qualche vago promemoria che servisse a bloccare un pensiero scalpitante di farsi dimenticare, qualche severo ricordo, e la necessità di dover comprare qualcosa per il compleanno di sua madre. Aveva un paio d'ore per cavarsela. Mentre riponeva i suoi occhiali scuri nella custodia per indossare quelli semplici da miope - "reggi", pensò a se stesso - si accorse di non aver spedito quelle cartoline che giacevano in preda alla sua negletta sbadataggine. Rimediò, cucendo la classica toppa al minore dei casini. Doveva chiamare una persona che lo stava aspettando ma il suo telefono non reagiva. Un esempio di una normale e mancata efficienza di cui quel breve periodo era intriso, nulla più. Entrò in un bar. Si rivolse così alla ragazza che serviva caffè con timide movenze e attenta a non deludere.
- Ho bisogno di una cortesia, signorina.
- Prego?
- Potrei usufruire di una presa elettrica per attaccare il cellulare scarico? Ho urgenza di fare una chiamata importate, per favore.
- Deve chiedere alla signora. - disse lei indicando una donnina sui quaranta anni portati pessimamente nella loro indisponente conformazione in colei che sedeva dietro la cassa, i tabacchi ed i valori bollati. R. ripeté con garbo la preghiera anche a costei. Quella ci pensò su per qualche minuto.
- No, oggi è saltata già la corrente due volte, niente da fare, non concedo la presa elettrica a nessuno.
- Lei è molto gentile. - Le ribattè più signorilmente R., anch'egli inizialmente intento a rispondere con maggiore sarcasmo a quella sottospecie di scopaccia vecchia con le setole nere e indurite da chissà che cattiveria repressa. Ma a che cosa sarebbe servito? Proprio in questi giorni R. stava imparando a sue spese che recitare per forza un ruolo da protagonista in gabbia non ha molto senso. E che far da comparsa nella guerra è più silenzioso, ma vero, sincero, e almeno non fa scappare via le persone importanti.
Si sedette allo sgabello ed ordinò un bicchierino d'amaro. Sedeva al tavolo di un bar da solo per la prima volta in vita sua, come un avventore solingo pronto a saltellare ramingo da una tappa all'altra della propria sorte. Lui, invece, doveva solo riempire delle ore, prima di tornare a casa.
La ragazza che serviva il caffè gli stava servendo l'amaro, gli sorrideva sotto i capelli biondi legati nella coda lenta da cui pendevano due ciocche ai lati del viso stanco, e gli occhi posati a fare ombra sulla sua camicia bianca. R. si allentava un po' il ciondolo di ferro che portava appeso al collo, e sorseggiava il suo amaro, mantenendo le borse e la valigia sentendone il tatto, accendendo l'interruttore della sensibilità al contatto; evitando di guardare negli occhi la ragazza che ubbidiva agli ordini abbaiati da quell'essere a cui R. si preparava a consegnare un biglietto da 5 euro, ed un vaffanculo sotteso al sorriso di ringraziamento che egli non negava comunque a nessuno.
Mentre usciva da quel locale, facendo roteare la sua valigia azzurra, si sentì chiamare alle spalle.
- Ah! Stai qua! Aspettavo la tua chiamata!
- Ehi D.! Che culo che ti ho trovato... avrei dovuto chiamarti, ma ho il cellulare scarico, ed è 'na tragedia ogni volta... cazzo che culo, non avrei saputo come trovarti in questa città col clima di merda.
- L'hai preso il caffè?
- Ho già preso, grazie, ma te lo offro volentieri lo stesso.
- Ero sceso da casa per comprare le sigarette, che combinazione... io abito proprio lì dietro.
- Già... Ehm... D. muoviti però, che devo usufruire del tuo cesso urgentemente. - I due escono dal bar.
- Be'? Te la stai a spassare, R.?
- Come no...
- Quando sei arrivato da Parigi?
- Poco fa, quando ti ho chiamato e la telefonata si è interrotta ero nel sottopassaggio della stazione... Ma che giornale stai leggendo? Liberazione?
- No, è il Manifesto.
- Bene.
- Tu che leggi, R., La Repubblica?
- Leggo Il Sole 24 Ore.
- Sei un capitalista di merda...
- E tu sei uno pseudo-rivoluzionario paraculo, pieno di soldi, che a poco più di vent'anni hai già la casa di proprietà. Ipocrita. Dov'è il bagno?
- Là in fondo al corridoio, fai con comodo... vedi che la serratura è rotta, la porta non si chiude...
- Tanto non credo che sei diventato un frociazzo a star qui da solo...
- Il tuo Veltroni mi ha rotto le palle.
- Non è "mio". E poi, forse non proprio rotte, ma un pochino erose dall'interno le ho pure io.
- Com'è Parigi?
- Stupenda.
- Ma ci sei stato solo?
- Alquanto.
- Ma è un po' una cazzata andare a Parigi da solo, o no?
- È una cazzata viaggiare da solo quando non hai voglia, o sei stufo, di star da solo. A prescindere da dove vai.
- E tu volevi starci solo?
- Alquanto.
- Sai che ieri un cane si è suicidato lanciandosi dal quarto piano, si era spaventato al temporale...
- Cavolo... anche i cani soffrono di nevrosi, mi sento molto sollevato...
Dopo aver discusso della top five delle facoltà di economia in Italia, del diverso approccio di destra e sinistra di fronte al main topic del rapporto deficit/Pil, del protezionismo e dell'intervento dello stato nel regolare i mercati, R. lasciò la casa di D. e si avviò, dopo averlo salutato e ringraziato.
Si guardò le dita, devastate. Nonostante non le stesse toccando da giorni e la cosa gli provocasse uno scorrere di onde elettrostatiche per tutto il corpo, le quali solitamente trovavano appagamento nei graffi che si infliggeva con le unghie lunghe utili all'arpeggio.
Entrò così in una pasticceria. Un bellissimo posto. C'erano biscotti alla panna e al burro, cioccolato di ogni tipo, crostate ai mirtilli e al lampone, anche un angolo con degli enormi cannoli siciliani come quelli usati nel Padrino III per avvelenare un boss nella tipica scena finale dove il Corleone di turno si rompeva le palle di prenderla sempre a quel posto, e faceva piazza pulita di tutti i rompicoglioni, familiari compresi.
- Buona sera signora.
- Buona sera bel giovanotto, dica pure...
- Dovrei fare un regalino ad una donna golosa di dolci, ma qualcosa che possa resistere a...
- ...a cosa? Al caldo della Puglia?
- Non solo a quello - "ma come cazzo fanno a sgamarmi sempre", pensò - più che altro resistere ad 11 ore di viaggio...
- Può prendere questi cioccolatini qua, nella confezione a barattolo. Resistono, la confezione è carina, e sono pure in offerta.
- La prendo, a prescindere dall'offerta. - Quando si vuole fare un pensiero carino, una volta tanto, i soldi contan poco, pensò.
- Lei di dov'è, ragazzo? - Chiese la signora sorridente che trotterellava come una gallina nell'ovile in quel bellissimo luogo zeppo di leccornie sweet, very sweet... Ed allora R. rivelò la sua provenienza.
- Ho una nipote da quelle parti. Mi chiede sempre di andarla a trovare, ma come si fa? - Venga, signora, le assicuro che ne vale la pena. Io parto tra meno di un'ora, e arrivo domattina. Lei è molto gentile.
- Ecco a te, prendi, per il viaggio. - E la signora gli regalò una bustina con un pugnetto di cioccolatini fatti a mano. R. quasi si commosse, per quanto fosse così apparentemente freddo e reticente, quel gesto così spontaneo e generoso gli ammorbidiva la maschera di cera scura, e stanca.
Erano cinque i cioccolatini. Ne mangiò quattro lungo la strada, mentre si fermava a guardare ogni tanto qualcosa a caso, bloccandosi con tutti i bagagli che portava con sé. Ad un certo punto un tizio gli si fece incontro e cominciò a parlargli con un settentrionico accento incomprensibile per via della bocca sdentata, quantunque fosse ancora giovane e all'apparenza non sembrasse neanche un disgraziato. Insomma, cercava soldi. Gli mancavano 4 euro per comprare un biglietto per andare a Milano.
- Sono un ragazzo come te, aiutami, ti prego...
- Tu sei come me... ma stai scherzando? - R. si guardò intorno e mentre passava da un lato all'altro del corso con lo sguardo, metteva le mani in tasca, e tirò fuori una moneta da 2 euro.
- Ho solo questi - disse, dandoglieli - ma qua nessuno è come nessun altro, ficcatelo in testa.
- Grazie - rispose quello.
R. fece un cenno, oltrepassò, e giunse al punto in cui avrebbe atteso il mezzo che lo avrebbe ricondotto verso casa. Ed il cerchio si chiudeva.
Tirò fuori l'ultimo cioccolatino, pensò che avrebbe voluto condividerlo. Prese il telefono, una smanettata rapida per scrivere e lo richiuse, e mangiò il cioccolatino che a suo modo aveva condiviso.
No, non enfatizzava troppo i momenti, non li caricava di alcuna ansiogena tensione emotiva, li viveva per quel che erano e significavano, perché ciascuno ha un suo modo ed un proprio percorso per giungere a vivere delle esperienze, anche se apparentemente banali. E per un ex nano da giardino, ogni passo aveva la sua importanza che andava giustamente assaporata. Perché nulla è poi così scontato.
Assolte queste introverse perplessità trovò, in quella stessa tasca dalla quale aveva estratto la moneta, un biglietto scritto la sera precedente davanti alla chiesa di Saint-Germain-des-Prés, mentre sorseggiava un Johnnie Walker red in un posto frequentato da Jean-Paul Sartre. Aveva scritto una cosa che aveva pensato però la sera ancora prima di quella, mentre camminava lentamente, ed un po' sonnecchiando, attraverso Place Vendôme. Lì, anziché badare a tutto ciò che quella piazza offriva a chi la incontrava per la prima volta, posò la sua attenzione verso chi, solitario come lui, sedeva ad uno di quei tanti tavolini rotondi che cingono il fianco pressoché di ogni bar di Parigi. C'era chi in solitaria assise fumava e guardava. Niente di che, ma quel piccolo oggettino tra le dita che ogni tanto si infilava in bocca accendendosi alla sommità pareva racchiudere e giustificare quell'immagine, la realizzava, la completava. Ne dava un senso, pareva l'esatta manifestazione figurativa di un individuo che stesse pensando, a chissà quali stronzate, ma non aveva importanza. Quello stesso individuo senza sigaretta sarebbe parso un idiota, imbambolato, incapace di vivere l'inazione e lo star fermo. Sarebbe parso un burattino inutilizzato ed auto-selezionatosi all'esilio durante un pomeriggio qualunque.
E l'essere incapace di vivere il silenzio davanti alla chiesa di Saint Germain, gli aveva ricordato quel pensiero che andava trascritto e poi ridipinto, elaborato, concettualizzato, teorizzato. Cosicché l'idea della sua follia sarebbe emersa ancor più nitida. Perché amare il mondo è anche essere folli, non volerselo fare scappare in nessun istante, e voler portare tutto via con sé. Trascinandoselo dietro nei suoi piccoli particolari che nessuno nota, nelle parole carpite per caso nell'aria, negli incontri fortuiti, nei sorrisi immotivati, nelle minchiate sparate a raffica per la congenita incapacità di star zitto per ritappezzare di caricatura un imprevisto disagio.
Portarsi via con sé tutto il mondo ad ogni fiero passo, raccogliendolo e seminandolo allo stesso tempo.
Uno spettacolo di pupi. Un altro ancora, ma un pochino diverso. Perché di ciò di cui si nutriva il pensiero e la penna, R. nutriva anche l'anima, e la forma a questa sovresposta. E a questo pensava mentre appuntava ancora qualcosa nella notte che calava su quelle interminabili ore che lo separavano dal completo ritorno. Guardava sovente il telefono muto che aveva rinfrancato durante le chiacchiere sociali a casa del suo amico. Lo spense. Ed era meglio così. Negli attimi sottratti alla vita il tempo non dovrebbe mai trascorrere realmente, pensava. Le lancette si sarebbero dovute muovere per sancire, far evolvere, e poi portare a compimento i soli momenti in cui si assapora qualcosa che possa contare davvero.
Avrebbe così provato a dormire per accorciare il tempo dell'attesa. Attesa di niente, ma pur sempre un'attesa.
Di tutto quello che aveva vissuto avrebbe potuto scrivere un diario infinito, un'agenda di quanto aveva toccato e garantito con i suoi passi ed un'altra circa quello che aveva avvertito e sfiorato soltanto come una spolverata di zucchero a velo su una ciambella allo yogurt, un po' secca ma buona. Come due riversi lati della stessa luna, abbracciati ed intrecciati nei loro differenti punti di vista, come Amore e Psiche, vittime e sorgenti delle rispettive vite e speranze.
Avrebbe raccolto di nuovo tutto, emozioni ed impressioni, passi, attese... les croques monsieur e les baguettes ripiene di basilico... le bottigliette d'acqua quotate sui mercati finanziari... Saint Sulpice che è meglio di Notre Dame... i Pastori d'Arcadia di Nicolas Poussin... le cupole del Sacro Coeur che spiccavano alla vista dalla stazione di Stalingrad, come il Canal Saint-Martin che spiccava ai piedi di Jaurès... la pace nei Jardin du Luxenbourg dove gli venne da piangere mentre scriveva le cartoline ai suoi amici... una corsa improvvisa in un'inattesa e tarda serata per raggiungere il luogo previsto sotto le note di una canzone di Elisa che puntualmente quasi didascalizzavano i suoi pensieri impressi in quella scena, e quel suo cercare intorno... i saluti virtuali che giungevano da chi normalmente lo avrebbe ignorato, ed i saluti reali picconati dalla fretta dell'ultima chiamata della mètro... quella sua inutile, controproducente, ma indispensabile dolcezza... le notti perennemente insonni violentate dall'altrettanta insonne Gare de l'Est in una massima gara di resistenza fra i turbinii notturni, an interesting contest tra quello esteriore delle rotaie iperattive e quello interiore dei neuroni 24h non stop.. Les Halles pronunciato in inglese... l'odore opaco di polvere stagionata nell'ènglise de la Madeleine... rue de la Fayette imboccata sempre e rigorosamente nel verso sbagliato... La Chapelle da cui si partiva e si tornava... e Gare de Lyon maledetta da cui si è partiti e basta... la ragazza accanto a lui nel treno del ritorno che litigava coi finanzieri cinofili per lo schiavismo dei pastori tedeschi... sarebbe stato riportato tutto a casa.
Alla fine di questa storia, forse qualcuno avrebbe trovato finalmente il coraggio per affrontare i sensi di colpa e cancellarli da questo viaggio... no, questa era un'altra storia, soltanto simile a quella di R. che ritenne in ogni caso di aver scelto la vita, ed era felice. Anche se si sentiva un tantino straniero, per non esserci stato in maniera pura, un po' come il formaggio sugli spaghetti soffritti coi funghi... a qualcuno potrebbero anche piacere siffatti, ma a lui piacevano senza. Li preferiva sempre abbondantemente piccanti nonostante nocivi al suo cuore debole, però fattivi, concreti ed essenziali, focosi ma senza fumo... e mentre si spegnevano davvero le luci e calava il sipario, R. si sforzava di chiudere gli occhi, cercando in sé una risposta ad una domanda, di provare ad individuare un desiderio in cima alle sue attese e provando a sperare che nulla fosse ancora perduto, conoscendo se stesso e quel momento lì, quella perla vera nella sua vita. E consonando occasioni perdute ed altre ancora da esplorare nei meandri del suo egoistico presenzialismo risibile, lasciò partire quella canzone... il giorno dopo è sempre la malinconia che spezza la magia di un'altra vita... fai mille cose, ma sono sempre i tuoi pensieri che scelgono per te diversamente... Son stanco d'aver detto le cose che dirò, di aver già fatto le cose che farò, ma è tardi, troppo tardi... rimangono le cose senza falso o vero, e la rinuncia triste a quello che io ero...
Parigi è una città strappacuore. Quasi quanto cartoline di Berlino spedite da Milano..
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