"...stasera nun me chiede si te amo
perché te direi "si" pensanno a 'n aeroplano
o a quarcosa de strano..."
venerdì 31 dicembre 2010
Rende bene l'idea
domenica 26 dicembre 2010
Globuli bianchi
Coloro che nel traffico proseguono senza alcuna fretta, e in piena congestione di auto si fermano ad ogni incrocio nonostante godano del diritto di precedenza per lasciar cavallerescamente transitare coloro che sbucano dalle traverse secondarie...
Coloro che per un culo di femmina son capaci di diventare daltonici davanti al semaforo... coloro che condannano troppo nettamente gli affiliati ai clan del moralismo e della rassegnazione.
I maschi che si affilano le sopracciglie. Gli stronzi che rigano le macchine durante le gelide ore del solstizio invernale. Ed i bloggher che dispensano complimenti che rasentano la reciproca pratica della fellatio.
- Ben ritrovato, amico mio.
- Sei tornato, quanti giorni ti son rimasti da vivere? Offrimi una sigaretta, tu dovresti smettere.
- Che vuoi da bere?
- Acqua con ghiaccio.
- Fa freddo.
- Acqua.
- Non ti riconosco più.
- Nemmeno io mi riconosco più.
- Che è successo?
- Un gran mal di testa. Avrei bisogno di un massaggio ai piedi.
- Una sbronza?
- No. Qui davanti al bar. Era una vecchietta e stringeva una borsa. Ferma al semaforo attendeva di attraversare. Inciampa e le cade un foglio dalla tasca. Non so per quale ragione mi sono piegato a raccoglierlo e l'ho raggiunta per restituirglielo. Mi ha stretto la mano senza guardarmi ed è scappata saltellando sulla sua osteoporosi lasciando cadere il foglietto per strada.
Il foglio era vuoto e non vi era scritto nulla. In compenso ho un gran mal di testa.
- Hai l'aspetto di uno scarafaggio, Gregor. E puzzi da far schifo. Esci da questo locale e non farti vedere mai più. Un'ultima cosa, Greg, come sta tua sorella?
- Mia sorella è una lurida troia.
mercoledì 22 dicembre 2010
Immobilità - chapter 4
Ancora una volta, in quegli occhi, si rinvenivano i tratti di un dipinto fatto di colori, adesso completo di una nuova presenza, in basso, nel lato opposto a quello in cui lui era relegato, ancora, e vi era anche quella donna, adorna di una bellezza che il tempo era riuscito a portarle via, che spasimava, triste, i suoi sguardi erano rivolti in alto.
Perché quell’incontro rispolverava vecchie immagini sepolte, che sembravano generate dalle riga del libro che aveva visto nella libreria?
Com’era fragile la resistenza illusoria che impediva alla sua coscienza d’emergere così vendicatrice dal confino in cui era stata relegata dalla vergogna.
Abbassò gli occhi ed ebbe una risposta, che forse la percezione inconscia aveva trovato già prima, ma che la sua persona non capiva, per i continui ostacoli che poneva tra sé, e la realtà che non poteva, o non voleva riconoscere, per una giusta paura.
Ecco ciò da cui un giorno era fuggito, ecco ciò che lui spiava alle sue spalle nel dipinto, per ingannare se stesso e la sua solitudine.
Mai più s’era voltato, dopo l’ultima volta, ad ammirare un mondo ricamato d’armoniose tinte celesti a cui aveva dato tanto, ma da cui non accettava nulla, nemmeno parole che dovevano incoraggiarlo a non spiare più oltre le sue spalle, ma a lasciarsi abbracciare dalla vita.
Lui fu capace solo di disprezzo, per timore di se stesso o per orgoglio, o per incapacità.
Mai l’aveva rimpianto.
In piccoli istanti che avevano la forza di centinaia cristalli di ghiaccio pioventi, sembrarono tornare a vivere due figure strette nel freddo, che nel gelo del passato erano rimaste scolpite, sotto i riflessi di una luna estranea che zampillavano sul lenzuolo di quel fiume, che entrambi solcarono su di un rumoroso battello, e che lei, quella donna non più ignota, coprì di gemiti silenziosi, gocce di un sibilo eterno, emesso dall’indimenticabile volto dei rimpianti, che diventava forse sincero con le sue illusioni, sapendo che quei momenti sarebbero rimasti lì, perle incastonate di quella notte lontanissima, che adesso, in quel viale immerso nell’inverno misterioso, stava ricominciando per loro, per altri deboli istanti ancora.
Lui le volle bene, semplicemente come emblema di ciò che anche lui avrebbe voluto essere, con la consapevolezza che sarebbe stato impossibile diventarlo. Rideva, rideva, il giovane professore, quando lei sosteneva che sarebbe stato un’amicizia eterna, un legame lungo più dell’età, lo diceva nei pochi momenti in cui sembrava che ciò fosse davvero realizzabile.
Ma lui conosceva l’orda distruttrice del tempo.
L’ultima volta che s’erano visti, mentre lei lo salutava con un “arrivederci” pur sapendo che ciò sarebbe avvenuto chissà quando, dopo un commiato che sapeva tanto d’addio, lui, consapevole la lasciò, annunciandole che se il destino li avesse fatti rincontrare, lei non l’avrebbe nemmeno riconosciuto.
Il tempo, li avrebbe uccisi entrambi, trasformandoli da come essi si ricordavano di essere.
Si era voltato, dopo che ebbe pronunciato quelle parole, nascondendo nella voce le lacrime che le spalle occultavano.
In tutti quegli anni, una volta sola, senti il bisogno di comunicare con lei, le scrisse così una lettera dove le rivelava dove viveva, dove insegnava, e che era felice, soddisfatto, menzogne che dovevano illudere entrambi.
Adesso quella lettera era posata di nuovo dinanzi a lui, ad esigere il fio per quelle menzogne, di cui s’era fatta messaggera anni addietro.
Lei, era madre, doveva esser anche moglie, ed era lì. Forse non l’aveva riconosciuto.
Forse per caso era lì, a confondere una realtà colma di finzioni, forse per condurlo, come un tempo, verso la vita, tendendogli quel nastro salvifico, nonostante anche lei sembrava giacere in basso adesso, nel dipinto dell’esistenza, anche lei vittima della speranza, una speranza di cui da giovane parlava con ardore, ma di cui ora non ne comprendeva più né il linguaggio né tanto meno le promesse.
Ed era triste, come in verità era sempre stata, in quell’ultimo attimo che il destino offriva loro.
La donna salutò l’estraneo con cordialità, per sempre, ma i ricordi non seppero più allontanarsi con lei.
Lui non rispose al saluto, si voltò di spalle, quasi rannicchiato su se stesso e i suoi occhi la spiavano allontanarsi nell’infinito, che forse lei aveva ancora volontà di conoscere. Che cosa sentiva di poter meritare da lei? Nulla, come nulla meritava quando erano entrambi ragazzi, quando lei gli sedeva accanto, e dal nulla gli diceva di volergli bene. Lui non le credeva. Non avrebbe mai creduto a nessuno che avesse mai detto di volergli bene, non avrebbe creduto ai sentimenti di nessuno nei suoi confronti, neppure se questi si potessero toccare, vedere, assaporare, e godersene fino in fondo.
Eppure lei pensava ancora che ci potesse essere qualche via di salvezza, perché? No. Non poteva essere così. Ma se invece lo fosse? Come avrebbe potuto non riconoscerlo?
E se invece fosse stato lui a non voler essere riconosciuto? Perché sempre egli aveva agito come credeva, e lei sempre aveva rispettato ogni cosa, pur soffrendo un terribile distacco che i suoi sentimenti non meritavano. E forse anche questa volta, questa ultima volta, è stata come sempre la stessa cosa, e lei, e lui, avrebbero accettato e patito allo stesso modo, senza pensare che fosse possibile cambiare il corso della storia di entrambi.
Pur ferito come da una lamina rovente, il professore che fino a quel pomeriggio uggioso credeva d’aver vinto, soffriva, per non essere mai stato anonimo al mondo come invece s’era illuso di essere,
Colui che lei cercava, esisteva ancora? Non l’avrebbe mai più saputo, perché era svanito con lei, nei ricordi, nei sensi di colpa, e nelle attese di quella donna.
Come le disse quel giorno, è stato poi per davvero.
In ogni caso, riconobbe che quella era l’ultima punizione che s’era inferto, sapeva che non avrebbe nemmeno meritato che lei lo riconoscesse, la vita lo puniva, esimendolo da quei sentimenti che lui non volle conoscere e che stimava troppo poca cosa per estinguere la colpa di esistere. E lui stesso era conscio di non aver mai vissuto, mai però la vita gli era passata tanto vicina, quanto in quel momento, offrendosi come ultima scorciatoia per rifiorire, dimenticando le macchie di un passato fin troppo mescolato al presente, denso di vergogna, e lui, quella vita, l’aveva lasciala andare oltre, senza catturarla.
Avrebbe continuato, nel disgusto di un copione che sembrava recitare identico ogni attimo, da sempre. Sarebbe tornato a casa, come se nulla fosse accaduto. Pronto a ricostruire quel fragile equilibrio di sopravvivenza, sospeso tra i due estremi di ricordo e speranza, ma che non avesse nulla né dell’uno né dell’altra, solo, murato vivo dal presente.
L’indomani avrebbe riscoperto il viale che s’affacciava sulla valle, avrebbe riassaporato le scene delle sue remote origini, si sarebbe recato nella libreria. L’avrebbe fatto soltanto con un indelebile rimorso in più da nascondere nella sua invecchiata marmorea espressione, e si sarebbe ancora di più ingannato dicendo, che in fondo, era quanto meritava, la sua colpa.
I monti pacati erano ancora prede del buio, le piccole luci tremanti come stelle in agonia cadute e stesesi al suolo, al freddo, sonnecchiavano appena.
I picchi lontani sarebbero rinati all’aurora, quando la mattina avrebbe ridipinto ogni cosa identica a come s’era assopita al tramonto, per un altro giorno in più, con nuovi sgualciti ricordi da riporre con cura negli stipi serrati, e una strada da percorrere al pomeriggio.
Sarebbe rinato identico il mondo anche per lui, che poteva solo immaginare da qualche parte oltre le colline, l’umanità vera e lontana che stesse brindando alla vita, nonostante non riuscisse a non credere, che nei preziosi calici che l’esistenza generosamente offriva nel meraviglioso convito, non ci fosse altro che nulla.
[the end]
lunedì 20 dicembre 2010
Immobilità - chapter 3
- Mi scusi - esordì la donna con voce ansiosa, abbassando celermente il finestrino della sua vettura, mentre accostava nervosamente ai margini del marciapiede. - Sa dirmi la strada per raggiungere la stazione? -
Il professore percepì quelle parole pronunciate velocemente, con un tono molto strano o camuffato, come se fossero usate per nascondere delle menzogne senza avere la capacità di mentire, anche se lei lo faceva con molta innocenza e paura, come una bambina che si rivolgeva con ingenuo inganno ai genitori.
Ebbe subito la sensazione che la donna avesse più anni di quelli che dimostrava.
La pausa che seguì la precisa richiesta fu interpretata dalla donna come dovuta alla raccolta delle informazioni necessarie ad esaudirla. Invece il professore restava a fissare qualcosa che aveva catturato la sua tensione, che si agitava alle spalle della signora, un giovinetto che al massimo avrebbe potuto avere quattro anni dallo sguardo severo e beffardo allo stesso tempo, scurissimo di capelli, che si dimenava forse per impazienza di un viaggiotroppo lungo come evidentemente le valigie ammassate rivelavano.
Quasi basito nello scrutare il volto di quel fanciullo dall’aria euforica, ma stranamente familiare, continuava a tacere.
- Perdonatemi signore, ma... - irruppe spazientita la madre di questi come per mettere ordine a quelle circostanze e pensieri che s’erano affastellati di colpo nella mente del professor R., esibendo tutta l’ansia che provava e che non riusciva camuffare.
Egli rinvenne confuso e indicò lentamente il percorso osservando la strada che avrebbe dovuto attraversare, come se stesse scoprendo quella via adesso per la prima volta.
La donna prestava attenzione, ma la sua aria non convinse il professore che dopo aver indicato la strada, indugiò in silenzio, non scorgendo nessun segnale d’appagamento in quel volto, che sembrava avere nel buio una collocazione naturale e spontanea come quella della luna o delle stelle. Forse il professore si aspettava ancora qualcosa, qualcosa d’insolito che non tardò ad arrivare.
- Mi scusi ancora, è lontano il liceo... - mentre cercava di ricordare qualcosa che le sfuggiva, prese un foglio molto stropicciato, che dimostrava d’essere stato letto chissà quante volte, dalla sua borsa e, leggendo tra quelle righe, sembrò calmarsi lentamente come il vento che s’intorpidiva sul mare. - ... il liceo classico “C. Pavese” ?
Il professore sibilò soffocato e incredulo; ebbe un evidente sobbalzo, come se avesse ricevuto un poderoso pugno nello stomaco, al sentir pronunciare il nome dell’istituto dove aveva insegnato per circa quattro anni e che da tre ormai era scomparso nell’attesa di essere riedificato dopo il terremoto che lo aveva distrutto. Un imprevedibile tuffo nel suo imminente passato, che per la prima volta gli si parava dinanzi, l’ultimo dei suoi rimpianti veniva così sobriamente evocato, mentre spalancava senza pietà il cancello da cui un torrente di rimorsi sconfinò nella coscienza, ed un tifone di rabbiosa afflizione eruppe violentemente straripando ovunque.
Si sentiva avulso da quanto accadeva in quel momento, isolato da tutto, senza significato, incomprensibile, ove la notte assurgeva a nido incombente da cui partoriva ogni illuminazione insensata e senza vita, ove trionfava mostruosamente l’espressione di quel bambino che continuava ad agitarsi, che si muoveva sempre più avidamente, sempre più rideva come se si stesse dilettando a vederlo travolto in quel vorticoso tumulto di follia, come fosse proprio quel moccioso a manovrare la sua coscienza a lungo immota, adesso strapazzata come una pagina nivea, mai scritta, in preda alla bufera.
- Si sente bene? Ha bisogno d’aiuto? - la donna si rese conto che il professore ebbe uno strano mancamento e sudava parecchio, e mentre s’affrettava ad uscire dal veicolo per aiutarlo, il professore si riebbe immediatamente e con un cenno, seguito da un rassicurante sorriso, respinse cordialmente l’assistenza della signora, per ricomporsi immediatamente.
- La scuola, è chiusa...è crollata tre anni fa... il terremoto… - emise quelle parole sciorinando in esse lo spirito dei ricordi angosciosi legati a quell’evento, vittima com’era di quell’inspiegabile confusione.
Qualcosa non andava, era evidente, come se qualcosa che lì si trovasse non doveva esserci affatto adesso, come se appartenesse ad un altro tempo, ad un altro mondo, e fosse lì a sconvolgere il suo, coinvolgendolo in quello sconcerto. Era forse il bambino? Ma cos’era, un diavolo nei panni di quel moccioso fremente?
- Peccato... mi dispiace, davvero - sospirò una delusione che dissipò tutta l’ansia accumulata, il che poteva indurre a pensare che alla donna la stazione non importasse granché, o non abbastanza quanto la scuola. Si sentì in diritto di sapere.
- Posso sapere, perdonatemi, perché cercavate l’istituto? - provò in ogni modo a non tradire un interesse personale nella sua domanda, per farsi sentire, e sentirsi, del tutto estraneo alla faccenda.
- No, niente, ci tenevo a salutare una persona che……Giuseppe! Basta! - urlò rivolta contro il birbante alle sue spalle, con un’energia ed uno sdegno di cui non la si sarebbe ritenuta capace. C’erano stati attimi in cui quel ragazzino aveva arrecato disturbi maggiori, e la madre l’aveva ignorato, forse perché fin troppo assorta in un pensiero dal quale ora restava svuotata dalla delusione, o forse il disturbo era solo un fastidio che quel bambino arrecava con la sua semplice vitale presenza, tanto difforme dal clima torbido che si stava vivendo. La donna, scaraventò sul sedile accanto al suo il vecchio foglio che non aveva mai posato fin da quando lo trasse fiori la prima volta, e le sue parole divennero traboccanti di tristezza.
Tutto, era triste, in quella donna.
Quei sospiri d’ansia, le mani, piccole piccole, che poggiavano sul duro volante, l’aria stanca sul viso tondo e delicato dalla pelle chiarissima, quei lineamenti che sembravano carpiti da una statua effigiante una qualche divinità greca, e tanto più s’avvertiva quest’impressione di tristezza, quando stringeva le docili labbra in un disappunto arrendevole che, nel poter accarezzare quel viso, avrebbe reso tangibile a chiunque quella tenerezza. Poi... gli occhi, erano tristissimi, le pupille muovevano lentamente mentre offrivano a chi adesso le fissava, una luce fatta di gratitudine e perdono, come se si fossero misteriosamente accorte del disagio che il professore stava provando, e lo condividevano. Quasi ne conoscessero persino i motivi, finanche fossero andati a scrutare nell’anfratto più depresso per apprendere un segreto, che adesso tenevano esposto tra le palpebre, in un’espressione di pietà e di conforto, e volessero dirgli “Non temere, il tuo mistero morirà in me ad un batter di ciglia”.
I suoi occhi erano talmente lontani da lei, come se fossero appartenuti ad un’altra espressione, forse di una vita che giaceva sepolta in un qualunque angolo di lei stessa, che sopravviveva agli anni, e che il professore sentiva tanto vicino alla sua intimità molto più di quanto non fosse la persona che gli era di fronte.
Improvvisamente il professore si sentì tradito senza capire da cosa o da chi.
Dove aveva già ravvisato quelle sensazioni d’oltraggio, che demolivano in un istante la sua falsa e malferma perspicuità?
[to be continued...]
domenica 19 dicembre 2010
Immobilità - chapter 2
- Ah! Buonasera professor R., come mai da queste parti? - si fece avanti un vecchio dall’aria gracile e attenta, che sembrava conoscere davvero bene il professore, giacché quella sua piccola libreria era uno dei pochi luoghi che a questi non dispiacevano affatto.
Il professore difficilmente avrebbe definito amico quell’ometto, dal volto contrassegnato da un tempo che sembrava averlo incoraggiato a calcare affannosamente gli anni per raccogliere i frutti di quelle promesse ancora senza risposta. Sembrava non aver avuto tregue, ma anche di non essersi mai arreso; anziano e piegato, di certo era una di quelle poche persone che incontravano il professore con piacere, con cui talvolta aveva trascorso lunghi e piacevoli pomeriggi nella libreria. Dal suo canto, il libraio aveva da subito inteso che nell’austera figura dal fiero portamento, fosse celata una personalità del professor R. invverità sempre percepibile sul suo volto, ma che pochi riuscivano a cogliere, in quello sguardovgenuino e timido, diffidente per paura; i suoi occhi emanavano lo sfavillio di un bambino chevnon aveva mai conosciuto l’infanzia e che si era sforzato di cercarla in ogni momento, per poivriscoprirla ogni volta diversa.
Passava da quelle parti e vedendo la libreria ancora aperta aveva pensato di affacciarsi evsalutarlo. Caricava la sua voce di un senso di devozione, come sempre faceva nei confrontivdel vecchio, da qualche tempo relegato nella solitudine della sua attività, che questi rimasevcommosso al punto che, se anche il professore fosse andato via senza comprar niente, sarebbevstato in ogni modo contento per l’importanza che qualcuno finalmente sembravavriconoscergli.
- Ah! Se non fosse per quei pochi che sanno ancora come si sfogliano quattro pagine,vpotrebbero anche chiudere tutte le librerie e le biblioteche! Comincio a credere che oggigiorno non resti che la miseria per quelli come me... tutta colpa del... - mentre questi seguitava a parlare senza prendere fiato, professando una lunga serie d’invettive in un linguaggio quasi ancestrale, il professore gironzolava tra gli scaffali della libreria, che in verità, tra i suoi casellari annoverava più polvere che libri.
Seppure il suo studio fosse colmo quasi quanto quel mercato della cultura avrebbe dovuto essere, il professore indugiava ancora tra i titoli che vi erano esposti, annuendo ogni tanto con un incoraggiante sorriso verso l’anziano che proseguiva il suo monologo con vera passione, gesticolando e imprecando.
Ad un tratto, lo sguardo che per un po’ sembrava aver cercato senza sapere cosa esattamente volesse trovare, si arenò in un indeterminato istante su un volume dalla copertina azzurrina, e vi rimase ad esaminano rigirandolo tra le mai.
- Ehi figliolo, cosa hai trovato di tanto interessante? Eh, eh, possibile che ci sia ancora qualcosa qui dentro che tu non conosca già? Fa vedere. Come?! Non dirmi che non lo conosci! - Esclamò il buffo libraio sbalordito, mentre si avvicinava zoppicando appena, sotto il peso dell’esperienza. S’affrettò ad interrompere il suo sopraggiungere inveente prima che si evolvesse in un’interminabile recitazione di notizie circa quel libro. Restò per qualche minuto immobile con quel volume tra le mani, ne sfogliava avidamente alcune tra le prime pagine, ma dalla direzione lontana del suo sguardo, sembrava che stesse sfogliando l’agenda dei ricordi, che in un certo senso, la vista di quel titolo aveva destato da un sonno a lungo cercato.
Non ebbe il tempo di pensare, neanche in seguito, come mai quel volume l’avesse cosè stranamente colto, non trovava alcun nesso tra quel titolo e ciò che sembrava animarsi nel suo inconscio. Capitavano spesso quegli improvvisi scivoloni della mente in vie mai considerate, a causa della parziale inerzia nella quale i suoi pensieri preferivano scorrazzare senza logica, piuttosto che rassegnarsi all’inattesa e amara inoperosità di quell’età, matura benché ancora inconcludente.
Preso da quell’emozione, decise di riporre il libro al suo posto e di tornarsene subito a casa, per evitare che la sua mente approdasse laddove avrebbe volentieri posto confini invalicabili per la coscienza, temendo il riaffiorare di una memoria tutt’altro che dolce, che appesantisse oltremodo il senso della sconfitta, che in silenzio coagulava in fondo alla sua pallida parvenza d’impassibilità.
La valle giaceva totalmente coperta dall’oscuro abito di velluto che la sera aveva indossato, piccole luci tremavano in lontananza, come lucciole impaurite che avevano di colpo perduto la via in quel pozzo di tenebre; la fievole luce dei lampioni illuminava l’aria fitta d’umidità, accerchiando le lampade di un alone di bianco sbiadito, cosicché la via pareva costeggiata da una lunga fila di spettri che si dissolveva nel buio indistinto.
Un brivido strano lo scosse, come una fuga d’emotività che evadesse dalle rigide gabbie silenziose di quelle giornate che trascinava con sé, impedendo a qualsiasi rimpianto di riproporsi sulla scena del presente. Tante volte aveva temuto la minaccia di timidi ripensamenti che avrebbero potuto minare quell’artificioso equilibrio, ma il tempo, la consuetudine e l’indifferenza riuscirono ad isolare i suoi timori. Adesso però, come blocchi ghiacciati che emergono dalle acque allo sgretolarsi della banchisa, quei pensieri stavano tornando a galla di prepotenza. La sua esistenza, ormai, aveva perso del tutto quel gusto d’imprevedibilità, tanto che sarebbe stato vulnerabile a qualsiasi insolito capovolgersi di circostanze; i suoi attimi si susseguivano sempre identici come freddi binari di un treno immersi in un soffio di tedio dal quale cercavano tregua, senza voltarsi, ad occhi chiusi, senza scopo, senza un forse.
C’erano stati giorni, dove l’abitudine era solamente la cornice esile di un dipinto del quale avrebbe chissà quanto voluto essere sia l’artista sia il soggetto ritratto; i temi che vi raffigurava, erano trame intrecciate tra loro, da cui talvolta spiccava qualcuna che s’allontanava, per rintanarsi in un angolo in basso, dove l’artista avrebbe posto la sua firma, il sigillo che racchiude nelle forme a lui più gradite, sentimenti ed anime senza voce. Nulla lo spingeva laggiù, anzi spesso, un ricamo d’armoniose tinte celesti scendeva, forse per sollevano e trascinarlo via, ma non poteva vincere quei toni scuri che allora s’incupivano ancora, occludendo ogni volta quella speranza.
Una schiena ricurva, rannicchiata su se stessa, abbandonata in un angolo di un’enorme scatola, vuota, dimentica, e le pupille rivolte laddove era quanto lui disertava.
Ciononostante, in un tempo o nell’altro ancora, anche per lui poteva esserci stato altro, oltre l’illusione, e quel libro n’aveva ridestato il gemito sepolto, in fondo al ruscello mite dei ricordi, ed una nostalgia diversa prese a comprimergli il fiato. Forse, proprio per questo adesso si trovava in città, conduceva una vita regolare scandita come dai battiti di un orologio il cui pendolo oscillava nel vuoto, per non badare a quella notte priva di luna che s’addensava nel suo intimo.
All’improvviso, qualcosa interruppe la sua assenza, un lampo di realtà lo rapì per un momento inconsapevole e popolò i suoi visionari pensieri di nuove presenze, che quel corpo senza coscienza incontrava lungo il cammino.
Un’auto di piccole dimensioni procedeva lentamente verso di lui, pareva che avesse bisogno d’aiuto, tuttavia, scosso com’era, il professore sembrò ignorare in un primo momento l’automobile che s’avvicinava, poi attese che questa si facesse più prossima. Prima che il mezzo si fosse fermato, riuscì a distinguere una donna alla guida; probabilmente estranea a quei luoghi.
[to be continued...]
venerdì 17 dicembre 2010
Immobilità - chapter 1
I tranquilli passi incontravano la strada bagnata e sembravano non risentire affatto della solitudine con cui percorrevano il solito tragitto che riempiva quei vuoti pomeriggi, traghettando il tempo fino alla tiepida luce della prima sera.
Scorgeva quel sole introverso cedere lentamente il dominio della via, come se fosse svogliato nel tornare padrone per quei pochi minuti, che di lì a poco avrebbero annunciato l’arrivo del vespro, oppure, come se avesse paura di schiarire un cielo scialbo e velato, ignorato per tutto quel giorno, del quale si vergognava a raccogliere le ultime briciole, lasciando che l’ombra trionfante limitasse la vista, impedendole di smarrirsi e giungere laddove un cielo più azzurro si tuffava alle spalle dell’orizzonte incolore, oltre le colline argentate che cingevano la valle, coronandola di cime levigate e dalle semplici fattezze.
D’estate, la valle che stava volgendo in punta di piedi al crepuscolo, si diffondeva di colori e profumi che si stentavano a ricordare nella landa grigia che si stagliava ora dinanzi, dove fragili banchi di foschia si dissolvevano, spandendo qua e là un senso di sterminata stanchezza, il desiderio di un riposo che nulla avrebbe dovuto violare e impedire, mentre si dileguava ogni istante un’eco remota dei giorni lieti fra i bassi picchi dei colli, sempre più vicini alla notte, sempre più lontani.
In una confusione di malinconia e ammirazione, poggiava le sue braccia affacciandosi al muretto oltre il quale si poteva scorgere quella piccola immensità, mentre le prime luci della strada s’accendevano pigre. Sapeva che quella sera sarebbe durata più a lungo e che avrebbe volentieri ritardato il suo rientro a casa.
Dalla piazza del centro proveniva ancora il frastuono delle automobili immerse nel traffico serale, e il vocio dei passanti, che pullulavano vispi attraverso le vie avrebbe riempito i marciapiedi finché l’orologio non avrebbe rispedito ognuno a compiacersi dei sapori della cena, o forse ad agghiacciarsi dinanzi la televisione.
Da quando aveva smesso di lavorare, egli evitava di percorrere quelle strade colme di persone, tanto che il viale costellato da pozzanghere, che s’ergeva sul fianco del colle su cui era adagiata la cittadina, era per lui quanto di più caro e insostituibile la giornata potesse offrirgli; ogni attimo trascorso lungo quella strada era una finestra aperta alla memoria del suo paese, e la nostalgia, quantunque non lo visitasse mai, poteva incontrarlo unicamente in quel luogo, in cui ugualmente non avrebbe mai avuto alcuna possibilità di rivalsa.
Non poteva essere certo un senso d’insopportabile nostalgia per delle radici di cui mai s’era sentito germoglio sano e felice a rendere pavido il suo incedere quotidiano lungo quel mirabile belvedere che l’ospitava, ma nei sospiri che la terra acerba d’autunno emetteva, sembrava arenarsi ancora più saldamente quel vivo sentore intrinseco di disfatta, per una fuga senza movente che all’improvviso s’era arrestata, dopo un incauto peregrinare che avrebbe dovuto dare un’anima ai suoi giorni, ai suoi sollievi, che avrebbe dovuto comporre il volto della speranza e di una presenza delle quali essere artefice.
Ancora non era riuscito a capire, ancora sentiva di dover tornare a cercare, senza che le ombre e le tentazioni di disperati e umilianti ritorni potessero capovolgere il suo irrequieto intento di conquista. Ma in quella conquista s’era smarrito da tempo, E tra quella cinta di colli si spegneva la sua nebbia, il dubbio che l’aveva spinto ad andare, che ora s’indeboliva in quelle che non erano crude certezze, ma indefinite benché tangibili prigioni concentriche incatenanti e infiacchite dal tempo, del quale mestamente egli tutto ora accettava, e quella stanchezza irresoluta, e quella sua inefficacia, e il suo silenzio, l’avevano vinto.
La valle era adesso sgombra dai suoni e dai sapori del temporale che s’andava sfogando lontano, le piccole botteghe del quartiere del borgo antico s’accingevano a salutare quel giorno che si disponeva a tacere. Soltanto la vecchia libreria era ancora aperta, aspettando la sua quotidiana razione di soddisfazioni, che quel giorno non le aveva ancora portato.
Non appena giunse nei pressi dell’entrata e ne varcava la soglia, un docile motivo dai precipitati lamentosi disegnava i contorni di un piccolo ambiente rosicchiato dall’umido, ad accoglierlo era come sempre un’affettuosa voce familiare, destata da un’inattesa fiducia, pregustante la possibilità che finalmente sarebbe potuto entrare qualcos’altro, oltre al cliente.
[to be continued...]
giovedì 16 dicembre 2010
Homini lupus
Ebbene, non gli serviva a niente fingere: non era affatto contento dell'esistenza di altri esseri umani. Non gli si farciva l'esistenza di variegate distrazioni, non gli si coloravano le giornate, non aveva dismesso i panni lerci dell'insonne.
A dire il vero, a volte avvertiva una temporaneamente magnetica attenzione verso categorie circoscritte di popolo: elettori afferenti alla sua medesima circoscrizione elettorale in pieno godimento dei propri diritti politici, consumatori, clienti, puttane... persone a progetto.
Qualche conto, tuttavia, non tornava. Perché nonostante non facesse alcuno sforzo per variare il gradiente di apprezzamento attivo e passivo tra lui e gli altri, gli capitava sovente di finire sul cazzo agli altri senza alcuna ragione.
Ma ciò che più lo turbava era di non riuscire a farsi odiare quando vi si adoperava scientemente: perché non riuscivano a capirlo.
E non vi è più profonda cesura con il convinto presiedere se stessi nel mondo dello sprecare il proprio odio verso chi non sa apprezzarlo.
venerdì 10 dicembre 2010
mercoledì 8 dicembre 2010
In nomine patris, et filii
I
Io e te non abbiamo mai realmente parlato. Sai, quella cosa che si fa sorseggiando un bicchiere con le gambe incrociate ad un trespolo, mentre una tettona ti riempie un boccale da una pinta.
Niente. Al netto delle nostre divergenze sui metodi educativi implementanti sui prodotti maturi dei tuoi coiti, s'intende.
Ed è stato anche giusto. Una disciplinata separazione dei ruoli, delle funzioni, delle carriere. Però ora te lo dico, visto che mi stai ascoltando, e che puoi fare solo quello.
Non ho mai sopportato quella tua arroganza di voler forzare ogni cosa con tecnocratico dirigismo, con lo stesso buffonesco esito di un viandante con un ombrellino rotto al cospetto dell'uragano katrina.
Questa ostinazione a non voler includere il normale corso delle cose nel novero delle condizioni ammissibili: l'asciugacapelli sulla calotta brulla, quelle tue orribili combinazioni nel gestire gli abiti gessati con associazioni improprie, quel non voler accettare l'ammortamento dell'automobile, quella maniera rude di spremere il limone su ogni cosa, quel tuo insulso ricordare ogni singolo trascurabile affronto che ti ha reso imponderabile qualsiasi apertura di credito con il futuro.
Marchiare il mondo per provare ad ottenerne un capillare controllo.
Che hai? Vuoi che ti tolga la benda dagli occhi e il fazzoletto dalla bocca? Ma devi continuare ad ascoltarmi. L'udito è senza dubbio il senso più prezioso di un essere umano, dopo l'olfatto.
Adesso ascolta le mie parole, e percepiscine il fetore.
Devo farti i miei complimenti. Non puoi vedermi, ma ti informo che mi sto inchinando reverenzialmente di fronte a te. Hai avuto l'abilità di plasmarmi al tuo controllo senza lasciare incustodito il libretto di istruzioni che tradisse il tuo archiettato proposito.
Ma forse sei una vittima anche tu di questa folle resistenza ad una guerra che non ci appartiene. E ci hai portati con te in trincea per soverchio amore.
L'armistizio lo scriviamo insieme però.
Vedi, è stato istruttivo rapportarsi al mondo con una strategia già delineata. Una collocazione di tempi e luoghi somministrata con sapiente sagacia in modo tale da sembrare inevitabile. Posti da vivere e comportamenti da assumere iniettati nell'immaginario del percorso prima ancora che quella sorte si potesse manifestare.
Così il tenore dei miei eventuali successi, così tutti gli alibi delle mie imprevedibili mancanze.
Bravo, per essere riuscito a presentare come una via assoluta, quella che era meramente una delle tante possibilità.
Cosicché l'esperienza già predisposta a tavolino, già confezionata nell'alterata sofisticazione dei nostri giorni, ci ha alienati da quelle speranze che oggi sbucciamo con il temperino del rimpianto, scoprendo che forse saremmo stati più bravi nel fare altro.
Perché tutto doveva andare per bene. Per soverchio amore.
Ma adesso che abbiamo parlato, poniamo fine a questa stagione, e lasciami il testimone di questa precotta mensa dei poveri. Posso servirmi da me.
Non mi interessa la tua opinione, non oggi, padre mio. Oggi qualcosa sfuggirà al tuo controllo, oggi non potrai dirigere nulla, ma potrai soltanto ascoltare.
Cos'è questo scatto che hai appena ascoltato? La tua Beretta, padre. Quella che custodivi nella tua valigetta nascosta in fondo alle tue ridicole giacche nel tuo armadio.
Sei pronto, padre?
Non la ricordavo così pesante. Me la facesti tenere in mano da bambino, l'ultima volta, mentre imamginavi un avvenire radioso per me.
Ora la stringo io, e determino il prossimo, restante breve futuro per te.
Ci siamo.
Mirare da così vicino faciliterà ogni cosa.
Non sento niente, padre.
I tuoi gemiti sono ormai lontani.
Addio.
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II
Qualche ora dopo, a seguito dello sparo, nella vecchia cantina trovarono l'uomo legato e imbavagliato. Ai suoi piedi una pozza di sangue dove giaceva il cadavere del figlio morto.
lunedì 6 dicembre 2010
Monologo interiore
- Ci sono dei files sparsi nella mente che rallentano i tuoi processi, Alcor. Li dobbiamo archiviare in un'unica cartella.
- Va bene.
- Come prefersci che la chiamiamo la cartella: "esperienza" o "inculate"?
- È lo stesso. Fai tu.
domenica 5 dicembre 2010
Wise
Ci sono giorni in cui rivolgermi la parola non è proprio una mossa saggia.
venerdì 3 dicembre 2010
mercoledì 1 dicembre 2010
Scripta volant
Scrivere non è catartico, e non giova alla salute. Scrivere non è come far sesso, che ti aiuta a guardare la giornata con il sorriso di Joker all day long.
Scrivere non è una maniera per rimpinguare i buchi di tempo, né una forma di raccolta differenziata degli scarti di idee. Scrivere non ha nemmeno la funzione di una rete per molluschi gettata nel bacino ricolmo di donzelle bramose di farsi imbonire dalle chiacchiere di chi non accetta l'estinzione del congiuntivo.
Scrivere non è il surrogato freudiano della masturbazione, e non genera calli alle mani. Scrivere non è neanche comunicare perché di quello che viene recepito da coloro che leggono non me ne può fregar de meno.
Una volta mi è capitato che qualcuno mi chiedesse di partecipare a contesti collettivi, e accettai di buon grado. Noi che apparteniamo al ceto della sinistra snob, quella che partecipa alle manifestazioni della FIOM senza disdegnare alcune delle parole espresse da Marchionne, e che dialoga con i lavorati di Pomigliano stringendo sotto il braccio il Sole 24ore, non amiamo pubblicizzare il nostro operato.
Però queste cose me gustano assai. Indi pubblicizzerò: la penna del diavolo.
Ah, va bene tutto. Ma Pietro Germi era molto meglio di Monicelli.
domenica 28 novembre 2010
Top secret
Pare che wikileaks abbia appena rivelato una verità sconvolgente.
Qualcosa che nessuno si sarebbe mai immaginato: il Cavaliere è solito organizzare feste selvagge.
Dopo la scoperta dei celatissimi covi di Provenzano e Iovine, che nessuno avrebbe mai potuto immaginare si nascondessero nei loro domicili, si attende ora una clamorosa rivelazione circa il ruolo esercitato da Luciano Moggi nel mondo calcistico tra la fine degli anni '90 e inizio anni '00.
Se solo Wikileaks potesse entrare nella mia mente e frugare tra le opinioni che ho di voi, frequentatori di questo blog...
sabato 27 novembre 2010
Saturday Night fever
Si tratta del terzo sabato sera consecutivo che trascorro a lavorare. Non che me ne sia fottuto mai una mazza della collocazione delle mie esigenze in una convenzionale casella del calendario.
Anzi, una volta mi è capitato di leggere un proclama emanato da una delle menti più sottili che mi sia mai capitato di incontrare, che proponeva una petizione a favore dell'abolizione del culto del sabato sera.
Io il sabato non mi faccio la barba e non cambio cappotto. Ma continuo a chiedermi se non fosse più sano tentare di guadagnarmi un ruolo standardizzato stile ragioniere anni '50, con gli orari predeterminati ed un salario che non riserva sorprese di nessun verso vettoriale.
Le toppe ai gomiti, il fordismo da ufficio, i mocassini, i furti d'ombrello e il pandoro aziendale.
La cervicale.
Ozio programmato con cui acconciare le tesi idonee ad essere confezione ad arte e consegnate nelle improvvide menti che bussano alla ricerca di comprensione e pietà.
La normalità è una santa e dignitosa conquista all'interno della quale preservare un'integrale unicità. Per questa ragione mi sta bene anche trottorellare senza tregua e senza trincee.
Senza sosta, come una particella di sodio nella vescica di un vecchio incontinente.
domenica 21 novembre 2010
Be Proud!
Ti capisco.
Tanti sacrifici per poter legittimamente ambire ad una collocazione degna degli spurghi endocrini di questi anni.
Hai persino passato la lima per le unghia ad addolcire gli spigoli più rigidi e caratterizzanti le tue indubbie qualità.
Hai un'onestà che rasenta la pena, una non petita propensione cirenaica a sobbarcarti i fardelli di tutti gli stakeholder che hanno lanciato la scalata alla tua esistenza.
Ogni risposta è resa con lo sguardo basso teso alla preventiva discolpa.
Comincerai forse a credere all'esistenza di una banca della sorte, o di una regia spettrale che dispensa alchimisticamente le dosi di ventura in base a formule funzionali alla prosecuzione cinica e caustica della specie. Che pur nella triste fungibilità delle sue trascurabili monadi ha quanto meno il pregio di eleggere i lividi e le inculate in uno storicistico, epico contributo all'avvento di un uomo migliore.
No, quello è il pizzico dell'ottenebramento della ragione che tenta di fotterti. Bada che non ti dirò di mollare, perché ognuno saprà attardarsi lungo la propria emancipazione.
Ma quando verranno a dirti che ogni sofferenza è un'apertura di credito per soddisfazioni future, e che i vuoti odierni sono la capitalizzazione di un utile postdatato, sappi che sono tutte stronzate.
mercoledì 17 novembre 2010
Lo specchio di Zeno
Compariva a tratti, quasi al comando di quegli occhi che fingevano di non cercarla staccandosi per qualche rapidissimo istante dal fuoco della sua osservazione nel quale ella spuntava.
Costei irruppe nella sua traducibilissima vita grazie ad un mai così opportuno errore. L'aveva scambiato per qualcun altro.
Lo chiamò, palesando frettolosamente costernazione per un saluto negatogli in chissà quale vita parallela che adesso incidentava bruscamente con la sua. Ella s'accorse dell'errato destinatario della sua premura e sorridendo ritornò sui suoi passi.
Divenne per lui fattore di inestimabile distrazione. La attendeva, con scrupolo e riservatezza, facendosi carico di esplorarsi in tutta la sua curiosità. Cominciò a figurarsi dentro, con animo dozzinale, l'ipotesi di restituirle l'incidente e di richiamarle alla mente quell'apostrofo errato che li aveva intrappolati in una scatola di imbarazzo reciproco.
Lui la richiamava mentalmente a sé ed ignara di tutto ella spiccava. Innescava la raccolta di tutte le domande possibili, l'enucleazione di tutte le scuse impugnabili per sottolineare la fatalità di quel lieto incontro. Non bastava il tempo per formalizzare in pochi sibili di presentazione tutta la sua disordinata pressione, che ella si volatilizzava.
S'accorse dopo diversi giorni, che costantemente s'arrampica a quei minuti.
Ma perchè ella ostenta in quella maniera? Perché procedeva al passo di un minuetto sembrando richiamare a sé tutte le attenzioni come una rete lanciata nella buia baia calpestata dalla risacca?
Provò a ricordarsi se ci fosse qualcosa che le cingesse l'anulare sinistro, e se quei fanchi avessero già tradito una o più elargizioni di nuove esistenze.
E se fosse davvero madre, ostentatrice e magnetica, che stesse provando a rapire tra i tentacoli dei suoi folti ricci solamente un custode per potersi concedere un lucchetto meno serrato alla spensieratezza di donna già provata e vissuta?
Egli attese, lei apparve. E continuò a domandarsi quale potesse essere la formula giusta. Finché giunse il tempo in cui in fondo a quegli interrogativi non si profilò che un unico definitivo quesito: perché proprio a lui?
E cambiò strada.
mercoledì 10 novembre 2010
Criminologia
Dacché è entrata prepotentemente in scena la criminologa Roberta Bruzzone, ho constatato l'aumento del mio interesse paranoico verso la vicenda di Avetrana, e per la seconda serata di Rai Uno.
venerdì 5 novembre 2010
Comodati d'uso
Da una distanza marginalmente fisica.
Tanto quanto basta a scavare l'angolo basso di una tana incavata tra il muro dell'alibi, e il collerico pozzo delle possibili vite ripudiate. Quella donna si rivolse con queste parole al proprio accompagnatore:
"dove credi di andare, ché tanto le lo ho io le chiavi della macchina..."
Capisci che ormai l'unica maniera per definire "felici" giorni come questi è farlo ispirandosi a Samuel Beckett:
"Che cosa so del destino dell'uomo? Potrei dirvi di più a proposito dei ravanelli. (S. B.)"
lunedì 1 novembre 2010
Modelli
- Alcor sei un bel ragazzo, ma mi sa che non sei il mio tipo. Peccato.
- Non sono il tuo tipo, me ne farò una ragione. Ma non ripetermelo ogni 5 minuti.
- ...eh sì....
- Tanto sei tu che creperai tra i rimpianti.
- Però sei paziente...
- ....
- Ti sei offeso, Alcor?
- Macchè! Per essere offeso devono trafiggermi il costato con una lancia da centurione romano.
domenica 31 ottobre 2010
Hello wind
Tutti si credono un po' cuori sanguinanti, ed un po' artisti, quando hanno una qualche fregatura da tamponare con un banale poemetto emostatico.
Regressioni nella Pangea di una notte in cui si stenta a sedare l'anima nella naftalina di qualche pensiero di ripiego e di riserva.
Dolly, modificare l'umore di un uomo con involontari gesti è come giocare a fare cerchi concentrici nella diga del Vayont.
Oh, Dolly, piove. Va tutto bene Dolly, non aver paura.
Il tuo inquieto odore si gonfia ad ogni centimetro recuperato dalle mie scarpe lorde e pesanti. Piove, ed il tuo odore è quello delle felci che si imbellettano con le gocce di pioggia e presenziano al galà della notte sibilando desiderio e impazienza.
La corda è tesa, Dolly, ma ci sono qua io a liberarti dalle tue ansie. Questo impermeabile chiaro imbevuto di pioggia è impostore vicario di una Luna che ha abbandonato questi cieli.
Dolce, generosa Dolly che osservi disdegnosamente ogni cosa immobile roteando le smeraldine pupille quasi sino a far luce alle tue spalle. Non impegnarti a tremare ma accosta il tuo capo sul mio petto e sotterra ogni giacimento di rivalsa. Così, pudica e quieta, il viso rischiarato delle nuvole si specchia nel solco bramoso delle tue labbra piegate sulla mia camicia.
Dolly, non occorre che tu parli, io ti solleverò dal carico di questa partita. Dimenticherai i tuoi affanni, allontanando le iniquità che hanno albergato nelle tue tende. Tu che mi hai decriptato la sorte in un sorriso su cui depongo la finora ricusata meraviglia della mia progenie.
Oh Dolly, alzerai la fronte e sarai sicura, e senza timore. E la tua vita brillerà più del meriggio. Baciami così, Dolly, il buio sarà come il mattino.
Starai sicura perchè ora c'è di che sperare, ti guarderai intorno tranquilla e riposerai. Ti adagerai e nessuno ti turberà, molti invece tenteranno di corteggiarti.
Ma gli occhi dei malvagi languiranno, per essi non c'è più scampo e la loro speranza esala in soffio.
Ti amo, Dolly.
La lama del mio coltello fende la notte, le esalazioni, e il tuo petto.
Quanta vita scorgo ancora nei tuoi occhi, quanta innaturale calma ti priva del tuo peso, e ti dilegua fra i rimbalzi della pioggia. Indurisci il tuo abbandono sul mio petto, Dolly.
Quel tuo profumo di smeralda felce piangente è ancora lindo.
martedì 26 ottobre 2010
sabato 23 ottobre 2010
Justice
Grazie.
mercoledì 13 ottobre 2010
Cruel intentions
Questo perché la crudeltà non ha bisogno di buone ragioni per manifestarsi.
venerdì 8 ottobre 2010
Back upping life
Dopo tanto tempo. E tornarono a chiamarlo prof.
Quando non occorreva più nemmeno la barba a sancire il lasso di tempo speso ad esistere formalmente.
Quella stazione offriva cubature abitative senza feritoie in cielo, che mietevano presto il mattino autunnale. Da lì erano state sigarette ansiose, valigie zoppe e sformate, e tramezzini col tonno e salmone.
Cimeli jacopini verso un hub delle ambizioni proteso verso vasti bacini di tetti stranieri, loggie di speranza larghe quanto le pazienti cosce di una puttana. Dove sembrava possibile sistemare i mattoncini e le intercapedini in modo tale da produrre una discreta coerenza cogli insegnamenti pagati caramente ai refrattari depositati ai bordi del binario di partenza.
Ogni tanto si scorge qualche fumo lontano dalle balaustre del porticciolo, e gli ultimi ciuffi della coda montuosa tra le cui estremità è narrata con dovizia tutta l'epica di un distacco.
Che come un faro stanco, affanna la sua rotazione intorno all'asse del proprio coraggio. Mansueta e ubbidiente luce esso posa sulle rotte tracciate da chiglie più affilate.
Dà l'idea di poter passare, di dover smettere, e mi scova ancora.
domenica 19 settembre 2010
Salsicciocracy
E sono al decimo giorno consecutivo in cui mi nutro solo di panini con la salsiccia.
Indi mi risparmio di palesare i riverberi delle mie inique stagioni alimentari. Mi do un anno di tempo per guarire.
Poi un anno per trovare uno stipendio allineato alla mia speranza di vita;
un anno per imparare il francese;
un anno per farmi guarire del tutto le unghia;
un anno per smettere di fumare;
un anno per migliorare la dizione;
un anno per maledire i recalcitranti ingorghi di rimandi a fantasmi riposanti in qualche cimitero dorato, rinnegato nel medio termine lungo il meridiano delle scelte. Altrui.
sabato 11 settembre 2010
Scarpate scoscese
martedì 7 settembre 2010
Eventi di vita
Alcor, sappi che se andrà male stavolta non sarà colpa tua.
Ma di una bagascia cazzona travestita da psicologa che aveva l'ardire di voler giocare con il tuo animo, la tua fame, e l'adrenalina che ti ballava nell'antro intestinale.
martedì 31 agosto 2010
Sconoscenze familiari
Rimembri la reazione che avesti quando trovasti i preservativi nel comodino?
lunedì 30 agosto 2010
Magre soddisfazioni
- Cazzo, Alcor, sei in gran forma. Sei dimagrito, capello allungato, viso disteso. Avrai di sicuro trascorso delle vacanze divertenti. Hai trombato abbastanza? Meglio così, ci attendono un sacco di cose da fare.
Non mi stava prendendo per il culo.
Ecco, un classico esempio di come il tema della deduzione logica teorizzato da Conan Doyle se ne va splendidamente a puttane.
venerdì 27 agosto 2010
Me & Teo
- Alcor, la cosiddetta "pazienza di Giobbe" non c'entra un bel niente...roba da catechismo di bassissimo livello. Giobbe è oggetto di una scommessa fra Dio e il Male. Gli viene tolto tutto, i suoi amici lo deridono, lo incolpano, ma...lui non cede, perché "il Signore ha dato, il Signore ha tolto, benedetto sia il Signore". È il libro della totale fiducia in YHWH. Anticipazione cristologica e cristocentrica di Colui che sarà fedele sino alla morte e alla morte in croce...
- Sì, ma ammetterai che oggigiorno Giobbe lo possiamo identificare come un individuo vittima di un'eterna scommessa tra il culo e la sfiga. Un essere tragico privo della minima possibilità di avere voce in capitolo sulla propria condizione. Una busta di plastica alla mercé del vento; questa fiducia incondizionata pare tanto una cambiale scoperta.
L'uomo è ridotto a fare il Super Mario Bros della situazione, mentre il culo e la sfiga si contendono il joystick per comandarlo in console...
- La tua è un'ermeneutica sempliciotta... leggi e guarda "più in alto"...se applichi la metodologia narrativa al testo biblico, ricorda, indentificarsi con il protagonista, ma il protagonista è sempre e comunque Dio. Giobbe siamo tutti e tutte, ma Dio, se scommette su di noi è perché sa che ce la faremo...strumenti nelle Sue mani ma il risultato finale è la vittoria!
Nel baratro della sconfitta si rinasce a nuova vita. Giobbe riavrà ciò che aveva perso e ancor di più.
- Ma che siamo trastulli a responsabilità limitata? Se siamo così etero-diretti nelle possibilità, in quanto depositari di un progetto ultroneo, e possiamo muoverci entro uno stretto recinto esistenziale, vuol dire che Dio è un dirigista e un comunista.
- Come puoi ben vedere SIAMO A RESPONSABILITA' LIMITATA perché siamo umani e...peccatori (= sbagliamo sempre), vedi amici di Giobbe e Giobbe stesso quando accusa Dio. "De Servo Arbitrio" - Martin Lutero docet! Ma, nell'accogliere il progetto di Dio ci LIBERA definitivamente dalla spirale di errori... sbaglieremo comunque ma capiremo dove e quando. Siamo eterodiretti dal Male...e Qualcuno vuole liberarci da ciò...in modo definitivo! Giobbe capisce e finalmente è LIBERO!
- Sarà anche così. Ma non mi piace affatto. La natura umana stessa è fallace e costringe l'uomo a doversi piegare ad una libertà di seconda mano, una libertà targata Mediolanum. E il prezioso riscatto per le attuali pene lo si deve riscuotere chissà in quale iperuranica dimensione.
Questa è truffa aggravata.
mercoledì 25 agosto 2010
Après-midi
Udire dei passi che camminano è già irritante in sé.
Se poi sono felpati è peggio.
Perché significa che chi cammina ha intenzione di non farsi sentire, e che pertanto sta tramando qualcosa.
lunedì 23 agosto 2010
Blog Warning
In missione per conto di Lenin
- Obladì Obladà!
-...insomma... avrai... capisci cosa voglio dire?
- Obladì Obladà!
- Quella fottuta puttanella!
- Obladì Obladà!
- Quella... vuoi chiudere quella boccaccia? Non Lennon, Lenin! Vladimir Ilyich Ulyanov!"Questa incapacità ad addormentarmi è tra le cause sostanziali della mia inconcludenza. E devo sbrigarmi, ché domattina devo continuare a mettere ordine. Non saranno quattro paginette da carcere morale a salvarmi.
Avrei dovuto fare l'artista.
Sì insomma, ci pensi che tra meno di una decina di giorni le cose potrebbero sistemarsi? Intendo una restribuzione stabile, un ruolo, una scrivania personale che nessuno dei tuoi colleghi è tenuto a usurpare senza giusta causa, risme di carta a volontà, il condizionatore coi bacilli, la pausa pranzo, gli scompensi alimentari della pausa pranzo, il traffico, i faldoni, la cravatta al posto della maglietta di emergency, la barba tutte le mattine anzichè una volta al trimestre... il week end di soli due giorni.
La sveglia alle 6.00, il caffè e la prima sigaretta che per pochi minuti sostituisce il cervello con un mantice da camino. Tutti i giorni. E se magari le cose non andranno né meglio, nè peggio, tutto questo rischia di prolungarsi per sempre.
Capisci? Fino al giorno in cui non avrò più il cielo in una stanza, ma in una camera ardente.
L'ideale sarebbe quella di andarmene a spasso con la laurea tra i rimpianti di tempo perso, e la vita scolpita nel taglio degli occhi. Ma occorrerebbe una maledettissima rendita.
Una bella fattoria di gnu alle pendici dell'Hymalaya. Che te ne pare? Coi secchi per pisciare, la resina per gli spifferi, e le pomate per i reumatismi ai piedi.
- Perché ci sono gli gnu in Nepal?
- Se non ci fossero si potrebbe ripiegare sui conigli e i bachi da seta, e poi ci si fa la tessera a slow food. Ovviamente ci vado solo. Vuoi venirci? Forse ti consentirò di venire a farmi visita.
- No, Alcor, non ci vengo. Magari rischio di trovarci quella che ogni tanto si rifà viva.
- No, mi ha licenziato da un pezzo. A mezzo telegramma, come fa Marchionne...
- Ah....
- Ti è piaciuto il cortometraggio sullo sfruttamento nelle campagne? Tra la Puglia e la Basilicata ogni anno migliaia di rumeni ed extracomunitari sono "utilizzati" per la raccolta dei pomodori. Ogni anno scoppiano casini perchè il prezzo dei pomodori per i produttori primari è talmente basso che agli agricoltori non conviene nemmeno guardarli.
Tralasciando l'incidenza del malaffare più o meno legalizzato che gira intorno alla raccolta di questi maledetti ortaggi che tra l'altro mi fanno pure schifo, è il gioco della concorrenza internazionale a mettercela dritta lì, proprio lì.
Quindi che faresti tu, dolcezza?
- Alcor, sei ubriaco...
- No, è che non c'è alternativa... la produzione di cibo deve passare nelle mani dello stato... tutti i fallimenti di mercato sono di competenza dell'agente pubblico. Ma secondo te alla Puglia e alla Basilicata che fanno parte dell'OCSE conviene produrre pomodori? No! Li produciamo perchè siamo costretti, e siamo costretti anche a impiegare manodopera sfruttata, malpagata e frustrata per stare a galla, e che raramente si vendica stuprando qualche nostra compagna di scuola elementare.
Ma dobbiamo produrli 'sti cazzi di pomodori, perchè altrimenti sai che brutto avere una distesa di pannelli solari... Lo stato deve produrli, come monopolista, e redistribuire in maniera autarchica secondo quote e richieste, seguendo piani quinquennali ben organizzati...
- Alcor, hai terminato il comizio?
- Senti, no.
- Come: no?
- Non ho alcuna intenzione di dare il mio contributo nel farti rischiare una gravidanza. Mi dispiace, ci ho ripensato...
- Ci hai ripensato?
- Eh, sì... vedi, c'ho come una specie di blocco emotivazional vitale come fosse antani., di cuio angaro tupio, capisci?
- ....
- .... Mi vedo una faccia davanti che sembra una vigilessa con la paletta alzata. E allora mi viene di oltraggiare la pubblica ufficiale... con lo scapellamento a sinistra.
- Sono senza parole, Alcor. Lo sai che sei un mascalzone?
- Sì. Fifty-fifty. E quello è Giove.
Non si è mai abbastanza crudeli verso il proprio passato.
venerdì 20 agosto 2010
This isn't a pipe
Così, nei giorni della dipartita di Cossiga, dell'ennesimo tonfo di Wall street, della Cina che sorpassa il Giappone, nell'ansiosa veglia che ci prepara a vivere la caduta del governo, noi qui si attende il momento cruciale.
Un altro.
La sinapsi esistenziale che rimette in circolazione i traffici di speranza in questa botola dove sembrano sguazzino girini destinati a non essere mai rane. Anfibi sospesi nell'umido di crepuscoli congelati che resistono alla notte e non trovano il coraggio di riaffacciarsi alla luce.
L'ennesimo momento cruciale, attende al vestibolo dell'autunno. Occorre tanta fiducia per accettare di ritrovarsi in un punto che abbia gli stessi vasti panorami di Gibilterra, di Panama, di Suez, di Bering.
Occorre tanta fiducia per credere che queste case avranno stucchi differenti. Una scimmia ha bisogno di credere che ci sia un ramo dall'altro lato dello slancio.
Stanotte ho sognato i black blocs che mi devastavano l'ufficio. Li ho lasciati fare.
domenica 15 agosto 2010
Ingiusti consigli...
... come un vecchio Talisker usato per conservare le ciliegie della scorsa primavera...
... come Casini candidato del centro-sinistra...
... come Topo Gigio che ci spiega come scampare alla pandemia...
... come D'Annunzio sui libri di scuola...
'na schifezza.
venerdì 13 agosto 2010
Vacanze su Plutone
Qui lo scorrere del tempo non segue l'ordine sancito dal calendario del Frate Indovino, bensì direttamente la teoria della relatività di Einstein.
Tant'é che se taluni luoghi del pianeta Terra riescono a misurare il proprio progresso in contenitori annuali di 365 giorni e 6 ore, qui, ove insiste la mia persona, lo stesso tempo ci impiega molto di più: circa 248,1 anni terrestri per varcare le medesime soglie e giovarsi delle medesime conquiste.
Come su Plutone.
Qui, su Plutone, si gioca col suffragio universale come un bimbo di due anni alle prese con la nitroglicerina.
Qui, su Plutone, si sta come in un'incendio estivo, sugli alberi, le foglie.
Eppure il contrappasso dantesco ha stabilito così quest'anno. Una sorta di companatico piacevole ai riassunti e agli intervalli raccontati da coloro che ritornano per trascorrere l'estate su Plutone. L'endovenico cerimoniale prevede sovente il richiamo mnemonico di epiche gesta felliniane compiute durante l'imberbe età.
Il Welfare State non è più un capitolo dell'esame di Scienza della Politica, ma la nuova figura che nell'epoca della giovinezza precaria sostituisce Babbo Natale nell'immaginario onirico.
E se un tempo ci si ritrovava tutti insieme per scagliarsi in faccia piatti di spaghetti col tonno, palle di maionese come fosse neve, oggi si è alle prese con i primi matrimoni nele nostre fila, e con la meditabonda ricerca dell'idea geniale che ci faccia uscire tutti dal torpore, sia terrestri che plutonici.
E pensare che l'anno scorso ero a New York e tentavo di raccontare alle donzelle 'mbriache lo stato di agiatezza e grazia che si vive quando in società si è dalla parte della minoranza.
Il senso di responsabilità che mi ha fatto tornare in patria mi ingenera la stessa vergogna che gronda dal celebre monologo di Califano: avventura con un travestito.
Così, mentre l'amica aggraziata e disperata elucubra nel voler tentare un traffico di caciotte tra l'italico tacco ed il padan triveneto, ella mi sorride e mi suggerisce arcigna:
- Alcor, dammi il tuo CV, ed una lettera di presentazione...
- Ma io già ho le mie consulenze...
- Ascoltami, Alcor.
- Toh, un pezzo della lettera:
"Alcor, colui che sta a Confindustria come Veltroni sta a Martin Luther King. Nasce nel territorio della Comunità Montana più sputtanata d'Italia, nel novembre 1982, una manciata di ore dopo la dipartita del compagno Leonid Il'ič Brežnev. Gli agiografi dell'epoca parlavano di probabile metempsicosi, quando egli cominciò giovanissimo ad elaborare le prime teorie circa la sovranità limitata esercitata dalla sfiga sugli esseri umani, nonché una revisione in chiave sessuologica del marxismo.
La sua formazione culturale risente molto degli effetti della riforma agraria compiuta da De Gasperi, ed è sopravvisuto agli anni '80 e '90 nonostante Berlusconi. Da bambino, dopo aver letto il mito di Teseo, decise che avrebbe fatto politica attiva."
giovedì 5 agosto 2010
Identikit
Provando a varare una stima, incrociando le variabili più o meno comunemente presenti nelle donne fin qui incrociate durante rapporti, avventure, incidenti, consulenze, corrispondenze, maldicenze, e ovviamente miserrimi fallimenti, il ritratto che viene fuori è codesto:
bionda (anche se in linea teorica preferisco le more);
occhi chiari e cristallini;
maggiore o uguale ai miei cm 180;
3° o 4° di reggiseno;
più grande di me;
studentessa fuori corso in preda alle crisi di identità curriculare;
una storia del cazzo appena conclusa che inevitabilmente prolungherà i suoi effetti nell'occasionale presente nel quale casualmente ci sono io a pagare il fio di vergogne che ignoro;
un rapporto di invidia, sudditanza, e viscerale verso la propria madre, che spesso ha la sua stessa voce e finisce per innamorarsi di me più della figlia;
spesso vittima dei flauti magici e ammaliatori della sinistra estrema, e in ogni caso, fortemente critica verso il Partito Democratico;
ex-grafomane decaduta nella palude cerebro-distruttiva di facebook;
come me, apparentemente sbucata da un film di Black Edwards;
in un modo, o nell'altro, la Francia c'entra qualcosa;
insicura, bugiarda, fragile, affetta da ogni genere di psicosi e pronta alla denuncia di stalking se le sbadigli in faccia per puro caso;
avida di succhiare consigli per sanare il debito pubblico di certezze nei riguardi del mondo fuori;
"Ok, Alcor, vediamoci. Ma sappi che c'è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo."
Qualcosa di talmente profondo che non si capisce di che cazzo si tratta;
"Alcor, tu sei la persona che più... che più ... che io abbia mai... però..."
Basta così! Ho capito. Ecco, caro destino o caro "momento sbagliato", questo è il mio ano: accomodati;
afflitta da cicli mestruali modello Katrina 2005, turbodiesel JTD;
mancina;
suona la chitarra, o ci ha provato senza successo;
amante delle sfumature della vita, ma poco incline ad accettarne gli effetti senza il pratico manuale della disperazione a portata di mano;
ride delle più indicibili cazzate;
non regge l'alcol, e crede di essere Eva Kant con una Corona Extra in mano;
ha minimo il poster di Caro Diario appeso in camera. Ed è, ovviamente, fatta male.
Una gran troia nel senso Kill Bill del termine.
martedì 3 agosto 2010
Ottimismo e fastidio
Il pessimismo non esiste.
Al contrario, coloro i quali vengono additati di essere lugubri pessimisti, sono tra le persone più ottimiste in assoluto.
Vi siete mai interrogati sulla speranza che hanno costoro di sopravvivere in un mondo nel quale i Genesis sono considerati un fenomeno di nicchia?
domenica 1 agosto 2010
III RePubic
Ti piace vincere facile?
(parte la musichetta)
mercoledì 28 luglio 2010
Core business
martedì 13 luglio 2010
venerdì 2 luglio 2010
Bastardi senza gloria
Perché non sopporto che tu mi guardi e sorridi, mostrando in maniera palese la contentezza di starmi di fronte. Così, ad usufruire della mia persona per acconciarti una gioia che io non ti ho accordato. Perché fondamentalmente il tuo stato d'animo non mi riguarda. Non credo sia giusto farmi scippare in tal guisa un tuo diritto al benessere procacciato mediante lo sfruttamento opportunistico della mia vicinanza.
E soprattutto, non chiedermi se mi piace.
Il riscontro della mia soddisfazione per saggiare le tue doti, e promuovere il tuo operato, assolvendoti dalla paura di una presunta nullità, è la prova della tua profonda inconsistenza in quanto essere autonomo.
Se non ti sai salvare per conto tuo, è meglio che tu ti lasci perdere.
martedì 29 giugno 2010
Epifanie /2
domenica 6 giugno 2010
18
Odiava che io fumassi, disapprovava tante cose con mirabile coraggio. Non aveva né l'esperienza, né la corteccia per sentirsi ascoltato nei suoi consigli. Solo un'audace convinzione nei suoi precetti.
La sua ingenuità emergeva nel non aver considerato le sigarette consumate per rendere meno inutile l'attesa del suo ritardo.
- Vuoi un caffè?
- Non lo bevo il caffè.
- No? E che bevi?
- Solo il latte.
- Solo il latte?! - pausa - E scommetto che non bevi vino, birra, whisky. Giusto?
- Una volta ho bevuto un cicchetto.
- Un cicchetto...
- Sì.
- Che razza di comunista...
Avrebbe dovuto immaginarlo tutto il mio disappunto nell'aver distolto il mio tempo dall'ozio e dal sonno per ascoltarlo. Tutto quel tempo che avrei benissimo potuto impiegare nell'ingegnare scuse sempre originali per omettere la cura indefessa che avrei dovuto prodigare negli altrui affari.
- Allora, dimmi tutto.
- Il fatto è questo: sono giunto alla conclusione che tutto quello che noi facciamo è inutile. Che non riusciremo mai a far cambiare idea alla gente, perché la gente non ha idee. Per questa ragione pensavo di non rinnovare la tessera al partito.
- Ti dà fastidio se accendo un'altra sigaretta? Figliolo, abbiamo una generazione da rimpiazzare. Non crederai mica ad un generalizzato risveglio di massa? Sono le elites che scrivono la storia, le masse indifferenti la subiscono. Al massimo si esaltano in applausi verso i cerberi che straziano loro le carni ammorbandone la dignità con elemosine di varia natura.
- Lo diceva Lenin.
- Raccogli il giusto coraggio perchè un giorno dovrai marciare contro i diritti di tuo padre, oppure morirai di fame. Hai 18 anni, non ti accontenterai mica di voler modificare il mondo in maniera riformista, giusto?
- No.
- Il riformismo, lascialo a quelli come me.
- Credo che farò la tessera.
- Bene.
- Sarà per me come le chiavi di casa.
- Andiamo a farci un goccetto, sarà per noi come l'angelo nocchiero.
venerdì 14 maggio 2010
Deep blue day
domenica 25 aprile 2010
Un giorno, o l'altro
Quando avrò terminato di rammendare tutti i calzini spaiati.
martedì 13 aprile 2010
Only U
- Per fortuna ho un buon anti-spam e non me ne sono accorto.
martedì 30 marzo 2010
Desaparecidos
E usano Chrome, un browser di merda.
sabato 27 marzo 2010
Faith
La recita del Santo Rosario tutte le mattine alle cinque, il pane azzimo e la verdura amara, le invocazioni al cuore di Gesù, l'intercessione dei Serafini, le genuflessioni prima della puntura dell'insulina, l'acqua santa ...
Ma ho il vago sospetto che anche il curriculum abbia le sue responsabilità.
Ma è solo un sospetto, gli inquirenti accerteranno di chi è la colpa.
mercoledì 17 marzo 2010
Spin off
mercoledì 10 marzo 2010
Entropia
- Piacere di conoscerti, Alcor.
- Uhm... a cì a' vutè?*
Bene, visto che siamo rimasti in pochi, possiamo fare un piccolo punto della situazione.
In sintesi funziona in questa maniera: Rifkin sostiene che la società ideale si regge sull'empatia, a me basterebbe un minimo di telepatia intranet in un manipolo di miei compatrioti.
La risposta più frequente dopo il segnale acustico è: ...va bene, sì, farò il possibile per risolvere 'sta situazione. Solo che sono parecchio impegnato tra la campagna elettorale e lo studio...
Tradotto sarebbe: ...che scassacazzi.
Credo di poter escludere che si tratti di disincanto. Io non avrei mai rincorso il mare come Antoine alla ricerca della libertà, per poi sentirmi costretto a raccattare qualche permesso premio ai margini del piccolo cabotaggio.
Il massimo dell'incanto possibile sarebbe stato sfidare l'attrito della sabbia bagnata per drenare le conseguenze delle cene elettorali quotidiane, altro che emancipazione dagli incubi delle passioni.
Chissà se è ancora possibile rendere interessante questa follia; se il liquame licenziato dal frullatore che ha miscelato quest'ultima stagione, non abbia fatto altro che rimettere ordine nella stanza.
Ciascuno al suo posto a compilare il registro degli utili, mettendo in lista i capoversi della personale impropriatezza, addendi scontati ai saldi invernali, e poi inventarsi un quoziente senza resti. Così si sta tranquilli, risolvendo le spigolature e gli scomodi crinali con una pacca sulla spalla.
La stanza in ordine, e i compromessi ben catalogati nello stipetto del salvadanaio.
Perchè la scrittura? Perchè questa specie di carburante la cui pompa otturata ha praticamente mandato in panne le carrozze?
Capitolo primo:
"In quella sigaretta concentrava la somma di tutte le sue debolezze, nell'incapacità di separarsene tradiva lo scorrimano della sua zoppa discesa. La responsabilità della scelta era tale da indurlo a dover notificare i suoi imperativi ad un messo notificatore che provvedeva ad appuntare, su supporti di fortuna, l'impegno solenne. Un atto di ancoraggio al pubblico dileggio per condannare, con l'aiuto del mondo, atti che egli stesso riteneva stupidi, ma dai quali non riusciva a perpetrare una definitiva censura."
No, non va bene... capitolo primo:
"Le disse che con quella foto l'avrebbero votata anche gli alberi, pertanto lei non avrebbe dovuto mostrare alcun timore nell'esibire il magnifico santino che avrebbe consacrato la di lei campagna elettorale.
Il suo nervo ottico avrebbe sentitamente ringraziato.
Un tale omaggio alla sua bellezza, impressa nelle carte da propaganda, fu il massimo della dolcezza che egli seppe manifestarle. Troppo preso era il suo cervello a cercare di codificare il senso di certi comportamenti a lui rivolti da parte della bella candidata.
Uno di questi fu il porgere il vassoio degli antipasti fritti solo verso di lui, e il chiedergli di accompagnarla fuori a fumare, addebitandosi l'onere di offrire allo sprovveduto il tabacco di cui lui, l'unico, pareva essere privo.
Il tempo di compredere il messaggio insito a questa serie indecifrabile di atti, tra i quali la rischiesta da lei avanzata di non parlare sempre e solo di politica, ma magari toccare qualche altro lato tipico, berché d'importanza trascurabile, dell'umano vivere, e lei sarebbe scomparsa come tutte le altre, poste sempre in attesa nell'anticamera al laboratorio di smaltimento delle sue ubbie".
No, non mi piace, non rende l'idea. Vediamo così:
"Alcor è una stella della costellazione dell'Orsa Maggiore, con magnitudine apparente 4,02 e un tipo spettrale A5 V. Distante circa tre mesi-luce da Mizar, con cui forma un sistema binario.
Tanto difficile da scorgere, essa veniva individuata dai Greci come misura per saggiare la miopia della gente.
Questo valeva per lui, e per qualche altro sparuto erede delle grandi civiltà del Mediterraneo precristiano.
Per la stragrande maggioranza dell'umanità, invece, Alcor è il nome occidentale di Koji Kabuto, esimio esponente della saga di Goldrake, fedele spalla di Actarus."
Ok. Scrivere è una forma di puro cazzeggio.
* trad.: "Uhm... i giorni 28 e 29 marzo, in occasione delle elezioni regionali, in favore di chi esprimerai il tuo consenso?"
martedì 9 febbraio 2010
Mio fratello è figlio unico
Mio fratello è figlio unico, stanco ogni sera quando torna a casa, ma non ne ricorda alcuna ragione economicamente rilevante.
Mio fratello è figlio unico e non crede al fascino del rigurgito di leninismo rivoluzionario tra le masse scioperanti.
Mio fratello è figlio unico quando gli amici mostrano segni di cedimento verso il partito radicale.
Mio fratello è figlio unico tutte le volte che sente scorrersi dentro l'A14, l'Eurostar e i biglietti ryan air a 3 euro più le spese.
Mio fratello è figlio unico pensando che non occorre aver fatto giuste scelte a 19 anni per rendersi conto della solitudine.
Mio fratello è figlio unico mentre sceglie di colare l'aranciata, fregandosene dei benefici effetti delle fibre.
Mio fratello è figlio unico ha compreso che l'unico vero indotto dell'ILVA siano ormai le bancarelle di panini in ottimo stato di conservazione ed esposizione, coltellini serramanico, campane di cd vergini, dvd pirata in cui di vergini non ve ne è nemmeno il sospetto.
mercoledì 3 febbraio 2010
Schegge
Quelli che... fanno gli autotrasportatori, si prendono in finanziaria più soldi loro dei magnifici rettori, e bloccano una statale per chilometri perché alla velocità di 50 km/h tentano vani sorpassi a vicenda... oh yeah...
Quelli che... l'UDC mi fa schifo!!! - E il PDL vince le elezioni... oh yeah...
Quelle che... Alcor dobbiamo fare attività fisica, dobbiamo andare in palestra, verresti con me che da sola mi annoio? Ma per fare attività fisica insieme dobbiamo per forza andare in palestra? Avrei delle valide alternative... oh yeah...
sabato 23 gennaio 2010
venerdì 22 gennaio 2010
lunedì 18 gennaio 2010
Cultura garantista
potrebbe anche aver truccato appalti negli acquisti di apparecchiature medicali all'ASL di Bari;
potrebbe anche aver falsato gare e concorsi...
potrebbe anche essere lesbica;
potrebbe anche essere una delle cause della sconfitta del centrosinistra in Puglia...
Ma io me la tromberei con manifesta violenza.
domenica 10 gennaio 2010
2036
Tra 26 anni l'asteroide 99942 Apophis urterà il nostro pianeta in un punto qualsiasi.
La noiosa notte di Capodanno da me trascorsa mi ha cagionato una tale ventata di pessimismo da prendere in considerazione l'ipotesi che, fra tutti i 5,100 656 × 1014 metri quadrati della superficie terrestre, i 320 metri quadrati di questo matto sassolino riuscirebbero a coprire benissimo lo spazio che devo farmi a piedi da casa mia per raggiungere il posto in cui sono stato costretto a parcheggiare la macchina.
Qualcuno mi obietterà che sono troppo pessimista: perché quei 320 metri quadri di pietra cosmica dovrebbero proprio cadermi in testa? No, noi riformisti sappiamo accettare le sventure in nome del bene comune, la logica antagonista e no-global del "not in my garden" che frena lo sviluppo capitalistico non ci riguarda...
Il pessimismo sta nel fatto che mi sono immaginato nel 2036, a 54 anni suonati, ancora qui nel luogo natìo senza alcuna evoluzione: ad uscire dalla casa paterna, ed ogni volta indugiare per qualche minuto a cercare di ricordarmi se la macchina l'avevo lasciata 320 metri a nord, piuttosto che a sud... e non è un particolare di poco conto se consideriamo che tra nord e sud vi è una pendenza del 20%, e vi è una probabilità di maltempo pari all'80%.
Sì, insomma, Apophis avrebbe tutto il tempo di prendere la mira.
E non sarà certo il mio piccolo ombrellino automatico che pagai 9.00 dollari nella pharmacy sulla Avenue P a tutelarmi.
Oh... e pensare che stavo riuscendo a guarire la mia mente affosandola nell'affannosa ricerca di una soluzione che renda il socialismo marxista ancora compatibile con le caratteristiche salienti della società contemporanea. Ero talmente entusiasta da farmi venire orgasmi automatici dinanzi a possibili soluzioni che contemplassero una visione neo-internazionalistica che attraversasse per forza di cose l'orizzonte della costruzione dell'Europa politica e la formazione dell'esercito europeo.
Ero certo che l'impostazione dialettica reggesse in un impianto che sostituisce la lotta individuale alla lotta di classe. Devo ancora lavorarci, conosco la meta ma devo trovare un percoso logico-teoretico per raggiungerla, che non sia qualche visione indotta da intrugli di erbe al limite della legalità.
E invece no! Di nuovo scomodi pensieri cagionati da articoli su certa stampa, deviata e comunista, che ci costringono a fare i conti con quell'amara evidenza che rende inutile ogni sforzo terreno, persino la dieta a base di cereali in bianco: la dipartita che attende ogni essere vivente al varco.
E pensare che ero riuscito a tenere a freno la mia passione sfrenata per il trash evitando di andare al cinema a vedere 2012... Una delle rare volte in cui una cazzata cinematografica riesce a far tirare un sospiro di sollievo, perchè è impossibile che gli autori di una così immane scemenza possano indovinarci. Basterebbe questo per annullare ogni timore e ogni sospetto che Voyager tenta di infonderci.
Secondo me era una strategia dei Maya per vendere più calendari. Un po' come Vanna Marchi. Almeno noi post-moderni per vendere calendari abbiamo pensato di esporre fiche, migliorando di gran lunga i servizi da offrire per combattere la solitudine e la malinconia.
Certo, è vero, si obietterà che il "limite" contribuisca a rendere ogni cosa più apprezzabile, ma esistono indubbi risvolti deprimenti in tutto questo... pensateci. Operare nel mondo come un'ape laboriosa per poi sentirsi lo sguattero di qualcuno che verrà a cuccarsi i frutti al posto tuo, quando tu sarai ormai diventato il concime dei cachi che lui si mangerà ad ottobre.
Ora capisco perchè quelli della prima repubblica ci hanno lasciato il debito pubblico, chiamali fessi. Devo assolutamente rivedere le mie posizioni su Craxi e sull'ipotesi che gli dedichino una via o una piazzetta a Milano.
Proporrò subito una petizione per l'abolizione del patto di stabilità e di crescita previsto dal Trattato di Maastricht, è ingiusto ai sensi dell'edonismo a cui la mia generazione ha diritto, cazzo.
A me non interessa un futuro migliore per i miei figli, anche perchè la sola idea di avere dei figli mi fa dilatare il colesterolo. E non perché sono un tipo irresponsabile, nossignore, diversi testimoni sarebbero pronti a deporre innanzi il tribunale di L'Aja che sarei un bravo padre. È che l'idea di qualcosa di regolare e predeterminato come la famiglia, le paghette ai marmocchi, la fila al patronato per la dichiarazione dei redditi, e i litigi coniugali sulla contrattazione dei menu settimanali, proprio non riuscirei a viverli.
Una galera per tutte quelle idolatrate arcadie che magari non esistono, ma che fa bene pensare in un punto X del mondo ancora da esplorare.
Meglio Apophis a quel punto, e non una noia mostruosa di fare tutto come un canovaccio goldoniano.
Oh, sono talmente attaccato alle cose... una voglia di trattenere il tempo e l'esistenza qui in una continua ebollizione di contemporaenità che non si estingue, cosparsa di cimeli, ricordi impagliati in qualche simpatico oggetto epigrafico. Persino le cicatrici fisiche hanno un senso, gli infortuni permanenti... la scottatura che mi prese entrambi i pollici mentre preparavo il caffè per una cazzona che non meritava manco un infuso alle alghe di Mururoa, l'alluce fracassato a New York che ancora mi avverte dei cambiamenti di correnti d'aria, il polso sinistro frantumatosi giocando a calcio in seconda media, e che scricchiola ancora quando mi produco in sforzi impropri.
Anche la mandibola malconcia retaggio di un incidente d'auto fatto da bambino.
Al contempo però che scatole la vita eterna... non c'è deterrente peggiore per i cattolici, nella loro opera di evangelizzazione, che promettere 'sta cazzo di vita eterna che può accattivare solo gli idioti che non sanno di quanto si annoierebbero. E con chi diavolo la dovrei condividere questa vita eterna, con dei babbei? Per piacere, ce ne stanno fin troppi nella vita a tempo determinato...
L'idea di una vita a progetto non mi dispiacerebbe, un po' meno quella a chiamata intermittente, di sicuro non part-time. Sarei favorevole al job-sharing esistenziale, ma con chi dico io.
Niente articolo 18, niente sindacati. Ichino forever.
Qualasiasi soluzione presa risulta sbagliata. Un po' come la faccenda della candidatura a presidente della Regione Puglia per la sinistra, o centrosinistra, o centrocentrosinistra.
Verrà la morte, e avrà gli occhi della maestra d'asilo che mi ha riempito la coscienza di simpatici traumi infantili.
Finirà, forse prima ancora che io diventi un vecchio zoppo che va a fare la spesa guardando male gli immigrati e maledicendo il governo per la pensione; non avrò mai girato un film vero, e le mie pubblicazioni saranno talmente insignificanti da potersi scaricare gratuitamente da internet.
Resterà questo inutile blog che mi ha rovinato gli ultimi tre anni, anonimo, e di autore ignoto.
E resteranno quelle pagine stupide, figlie di una dolcezza che mi hanno scippato. E non ho sporto denuncia perché in fondo coltivare l'ingiustizia è una forma di eredità che lasciamo ai posteri. L'eredità del socialismo, che ha un senso in quanto argine all'ingiustizia. Se vi lottiamo e la sconfiggiamo avremo un mondo dove il socialismo non esisterebbe.
E le mie elaborazioni sarebbero, appunto, inutili. E ritorniamo al punto di partenza.
Dio, che pensiero deprimente...