- Mi scusi - esordì la donna con voce ansiosa, abbassando celermente il finestrino della sua vettura, mentre accostava nervosamente ai margini del marciapiede. - Sa dirmi la strada per raggiungere la stazione? -
Il professore percepì quelle parole pronunciate velocemente, con un tono molto strano o camuffato, come se fossero usate per nascondere delle menzogne senza avere la capacità di mentire, anche se lei lo faceva con molta innocenza e paura, come una bambina che si rivolgeva con ingenuo inganno ai genitori.
Ebbe subito la sensazione che la donna avesse più anni di quelli che dimostrava.
La pausa che seguì la precisa richiesta fu interpretata dalla donna come dovuta alla raccolta delle informazioni necessarie ad esaudirla. Invece il professore restava a fissare qualcosa che aveva catturato la sua tensione, che si agitava alle spalle della signora, un giovinetto che al massimo avrebbe potuto avere quattro anni dallo sguardo severo e beffardo allo stesso tempo, scurissimo di capelli, che si dimenava forse per impazienza di un viaggiotroppo lungo come evidentemente le valigie ammassate rivelavano.
Quasi basito nello scrutare il volto di quel fanciullo dall’aria euforica, ma stranamente familiare, continuava a tacere.
- Perdonatemi signore, ma... - irruppe spazientita la madre di questi come per mettere ordine a quelle circostanze e pensieri che s’erano affastellati di colpo nella mente del professor R., esibendo tutta l’ansia che provava e che non riusciva camuffare.
Egli rinvenne confuso e indicò lentamente il percorso osservando la strada che avrebbe dovuto attraversare, come se stesse scoprendo quella via adesso per la prima volta.
La donna prestava attenzione, ma la sua aria non convinse il professore che dopo aver indicato la strada, indugiò in silenzio, non scorgendo nessun segnale d’appagamento in quel volto, che sembrava avere nel buio una collocazione naturale e spontanea come quella della luna o delle stelle. Forse il professore si aspettava ancora qualcosa, qualcosa d’insolito che non tardò ad arrivare.
- Mi scusi ancora, è lontano il liceo... - mentre cercava di ricordare qualcosa che le sfuggiva, prese un foglio molto stropicciato, che dimostrava d’essere stato letto chissà quante volte, dalla sua borsa e, leggendo tra quelle righe, sembrò calmarsi lentamente come il vento che s’intorpidiva sul mare. - ... il liceo classico “C. Pavese” ?
Il professore sibilò soffocato e incredulo; ebbe un evidente sobbalzo, come se avesse ricevuto un poderoso pugno nello stomaco, al sentir pronunciare il nome dell’istituto dove aveva insegnato per circa quattro anni e che da tre ormai era scomparso nell’attesa di essere riedificato dopo il terremoto che lo aveva distrutto. Un imprevedibile tuffo nel suo imminente passato, che per la prima volta gli si parava dinanzi, l’ultimo dei suoi rimpianti veniva così sobriamente evocato, mentre spalancava senza pietà il cancello da cui un torrente di rimorsi sconfinò nella coscienza, ed un tifone di rabbiosa afflizione eruppe violentemente straripando ovunque.
Si sentiva avulso da quanto accadeva in quel momento, isolato da tutto, senza significato, incomprensibile, ove la notte assurgeva a nido incombente da cui partoriva ogni illuminazione insensata e senza vita, ove trionfava mostruosamente l’espressione di quel bambino che continuava ad agitarsi, che si muoveva sempre più avidamente, sempre più rideva come se si stesse dilettando a vederlo travolto in quel vorticoso tumulto di follia, come fosse proprio quel moccioso a manovrare la sua coscienza a lungo immota, adesso strapazzata come una pagina nivea, mai scritta, in preda alla bufera.
- Si sente bene? Ha bisogno d’aiuto? - la donna si rese conto che il professore ebbe uno strano mancamento e sudava parecchio, e mentre s’affrettava ad uscire dal veicolo per aiutarlo, il professore si riebbe immediatamente e con un cenno, seguito da un rassicurante sorriso, respinse cordialmente l’assistenza della signora, per ricomporsi immediatamente.
- La scuola, è chiusa...è crollata tre anni fa... il terremoto… - emise quelle parole sciorinando in esse lo spirito dei ricordi angosciosi legati a quell’evento, vittima com’era di quell’inspiegabile confusione.
Qualcosa non andava, era evidente, come se qualcosa che lì si trovasse non doveva esserci affatto adesso, come se appartenesse ad un altro tempo, ad un altro mondo, e fosse lì a sconvolgere il suo, coinvolgendolo in quello sconcerto. Era forse il bambino? Ma cos’era, un diavolo nei panni di quel moccioso fremente?
- Peccato... mi dispiace, davvero - sospirò una delusione che dissipò tutta l’ansia accumulata, il che poteva indurre a pensare che alla donna la stazione non importasse granché, o non abbastanza quanto la scuola. Si sentì in diritto di sapere.
- Posso sapere, perdonatemi, perché cercavate l’istituto? - provò in ogni modo a non tradire un interesse personale nella sua domanda, per farsi sentire, e sentirsi, del tutto estraneo alla faccenda.
- No, niente, ci tenevo a salutare una persona che……Giuseppe! Basta! - urlò rivolta contro il birbante alle sue spalle, con un’energia ed uno sdegno di cui non la si sarebbe ritenuta capace. C’erano stati attimi in cui quel ragazzino aveva arrecato disturbi maggiori, e la madre l’aveva ignorato, forse perché fin troppo assorta in un pensiero dal quale ora restava svuotata dalla delusione, o forse il disturbo era solo un fastidio che quel bambino arrecava con la sua semplice vitale presenza, tanto difforme dal clima torbido che si stava vivendo. La donna, scaraventò sul sedile accanto al suo il vecchio foglio che non aveva mai posato fin da quando lo trasse fiori la prima volta, e le sue parole divennero traboccanti di tristezza.
Tutto, era triste, in quella donna.
Quei sospiri d’ansia, le mani, piccole piccole, che poggiavano sul duro volante, l’aria stanca sul viso tondo e delicato dalla pelle chiarissima, quei lineamenti che sembravano carpiti da una statua effigiante una qualche divinità greca, e tanto più s’avvertiva quest’impressione di tristezza, quando stringeva le docili labbra in un disappunto arrendevole che, nel poter accarezzare quel viso, avrebbe reso tangibile a chiunque quella tenerezza. Poi... gli occhi, erano tristissimi, le pupille muovevano lentamente mentre offrivano a chi adesso le fissava, una luce fatta di gratitudine e perdono, come se si fossero misteriosamente accorte del disagio che il professore stava provando, e lo condividevano. Quasi ne conoscessero persino i motivi, finanche fossero andati a scrutare nell’anfratto più depresso per apprendere un segreto, che adesso tenevano esposto tra le palpebre, in un’espressione di pietà e di conforto, e volessero dirgli “Non temere, il tuo mistero morirà in me ad un batter di ciglia”.
I suoi occhi erano talmente lontani da lei, come se fossero appartenuti ad un’altra espressione, forse di una vita che giaceva sepolta in un qualunque angolo di lei stessa, che sopravviveva agli anni, e che il professore sentiva tanto vicino alla sua intimità molto più di quanto non fosse la persona che gli era di fronte.
Improvvisamente il professore si sentì tradito senza capire da cosa o da chi.
Dove aveva già ravvisato quelle sensazioni d’oltraggio, che demolivano in un istante la sua falsa e malferma perspicuità?
[to be continued...]
lunedì 20 dicembre 2010
Immobilità - chapter 3
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