Per la seconda volta Lucien Fleurier si sentì pieno di rispetto per se stesso. Ma stavolta non aveva più bisogno degli occhi di Guigard: era ai suoi occhi propri che appariva rispettabile, ai suoi occhi che finalmente riuscivano a passare attraverso il suo involucro di carne, di gusti e disgusti, d'abitudini e d'umori. "Là dove mi cercavo non potevo trovarmi". Aveva fatto, in buona fede, il minuzioso censimento di quello che era.
"Prima massima - si disse - non cercare di vedere dentro di sé, non c'è errore più pericoloso". - Il vero Lucien, adesso lo sapeva, bisognava cercarlo negli occhi degli altri, nella timorosa obbedienza di Pierrette e di Guigard, nell'attesa piena di speranza di tutti quegli esseri che crescevano e maturavano per lui, di quei giovani apprendisti che sarebbero divenuti i suoi operai, di quelli di Férolles, grandi e piccoli di cui un giorno sarebbe stato il capo. Ma Lucien aveva paura: si sentiva quasi troppo grande per se stesso.
Tanta gente lo aspettava al varco: ed egli era, lo sarebbe sempre stato, questa immensa attesa per gli altri.
"È questo, un capo", pensava.
E vide nuovamente apparire una laga schiena muscolosa e poi, subito dopo, una cattedrale. Egli era entrato e vi passeggiava in punta di piedi sotto la luce filtrata che cadeva dalle vetrate. "Però, questa volta, sono io la cattedrale!"
Fissò intensamente lo sguardo sul suo vicino, un cubano lungo, bruno e dolce come un sigaro. Bisognava assolutamente trovare delle parole per esprimere la sua straordinaria scoperta. Pian piano, con precauzione si portò la mano sino alla fronte come fosse una candela accesa, poi si raccolse in un istant, pensoso e solenne, e le parole gli vennero da sole: - Ho dei diritti! - I diritti vanno oltre l'esistenza, come i corpi matematici e i dogmi religiosi.
Ed ecco che Lucien, per l'appunto, era questo: un fascio enorme di responsabilità e diritti. Per molto tempo aveva pensato di esistere per puro caso, alla deriva: era per aver riflettuto troppo.
Molto tempo prima della sua nascita, il suo posto era segnato al sole, a Férolles.
Già, e molto tempo prima ancora del matrimonio di suo padre, egli era aspettato; era venuto al mondo per occupare questa posizione: Esisto, - pensò, - perché ho il diritto di esistere. E per la prima volta ebbe una sfolgorante visione del suo destino.
Allora lasciò perdere la tenera Maud (voleva continuamente andare a letto con lui, era seccante, le loro carni confuse sprigionavano nel calore torrido di quel principio di primavera un odore di arrosto un po' attaccato). "E poi Maud è di tutti, oggi è mia, domani d'un altro, tutto ciò non ha senso". Poi pensò all'opera del padre, era impaziente di continuarla e si chiese se il signor Fleurier non sarebbe morto presto.
Un orologio suonò mezzogiorno: Lucien si alzò. La metamorfosi era compiuta: in quel caffè un'ora prima era entrato un ragazzo grazioso e incerto; ne usciva un uomo, un capo. Lucien mosse alcuni passe nella luce gloriosa d'un mattino francese. All'angolo della strada delle scuole si avvicinò a una cartoleria e si guardò nello specchio: avrebbe voluto ritrovare sul suo viso un'aria impermeabile. Ma lo specchio non gli rimandò che un grazioso visetto ostinato che ancora non era abbastanza terribile.
"Mi lascerò crescere i baffi", decise.
È una folle gabbia, lo so. È una maniera come un'altra per procrastinare la noia. Un mezzo gratuito per generare frettolosamente il sonno e far stancare le ginocchia alla sera. Una spalata di brecciame. L'impronta di un mignolo che tergiversa sul vetro dove filtra il richiamo dell'occhio non desto.
Dietro l'ombra che transita nell'eclittica della luna nuova. Voltata di schiena.
Non si riesce a colmare del cielo. Non del tutto.
"Prima massima - si disse - non cercare di vedere dentro di sé, non c'è errore più pericoloso". - Il vero Lucien, adesso lo sapeva, bisognava cercarlo negli occhi degli altri, nella timorosa obbedienza di Pierrette e di Guigard, nell'attesa piena di speranza di tutti quegli esseri che crescevano e maturavano per lui, di quei giovani apprendisti che sarebbero divenuti i suoi operai, di quelli di Férolles, grandi e piccoli di cui un giorno sarebbe stato il capo. Ma Lucien aveva paura: si sentiva quasi troppo grande per se stesso.
Tanta gente lo aspettava al varco: ed egli era, lo sarebbe sempre stato, questa immensa attesa per gli altri.
"È questo, un capo", pensava.
E vide nuovamente apparire una laga schiena muscolosa e poi, subito dopo, una cattedrale. Egli era entrato e vi passeggiava in punta di piedi sotto la luce filtrata che cadeva dalle vetrate. "Però, questa volta, sono io la cattedrale!"
Fissò intensamente lo sguardo sul suo vicino, un cubano lungo, bruno e dolce come un sigaro. Bisognava assolutamente trovare delle parole per esprimere la sua straordinaria scoperta. Pian piano, con precauzione si portò la mano sino alla fronte come fosse una candela accesa, poi si raccolse in un istant, pensoso e solenne, e le parole gli vennero da sole: - Ho dei diritti! - I diritti vanno oltre l'esistenza, come i corpi matematici e i dogmi religiosi.
Ed ecco che Lucien, per l'appunto, era questo: un fascio enorme di responsabilità e diritti. Per molto tempo aveva pensato di esistere per puro caso, alla deriva: era per aver riflettuto troppo.
Molto tempo prima della sua nascita, il suo posto era segnato al sole, a Férolles.
Già, e molto tempo prima ancora del matrimonio di suo padre, egli era aspettato; era venuto al mondo per occupare questa posizione: Esisto, - pensò, - perché ho il diritto di esistere. E per la prima volta ebbe una sfolgorante visione del suo destino.
Allora lasciò perdere la tenera Maud (voleva continuamente andare a letto con lui, era seccante, le loro carni confuse sprigionavano nel calore torrido di quel principio di primavera un odore di arrosto un po' attaccato). "E poi Maud è di tutti, oggi è mia, domani d'un altro, tutto ciò non ha senso". Poi pensò all'opera del padre, era impaziente di continuarla e si chiese se il signor Fleurier non sarebbe morto presto.
Un orologio suonò mezzogiorno: Lucien si alzò. La metamorfosi era compiuta: in quel caffè un'ora prima era entrato un ragazzo grazioso e incerto; ne usciva un uomo, un capo. Lucien mosse alcuni passe nella luce gloriosa d'un mattino francese. All'angolo della strada delle scuole si avvicinò a una cartoleria e si guardò nello specchio: avrebbe voluto ritrovare sul suo viso un'aria impermeabile. Ma lo specchio non gli rimandò che un grazioso visetto ostinato che ancora non era abbastanza terribile.
"Mi lascerò crescere i baffi", decise.
È una folle gabbia, lo so. È una maniera come un'altra per procrastinare la noia. Un mezzo gratuito per generare frettolosamente il sonno e far stancare le ginocchia alla sera. Una spalata di brecciame. L'impronta di un mignolo che tergiversa sul vetro dove filtra il richiamo dell'occhio non desto.
Dietro l'ombra che transita nell'eclittica della luna nuova. Voltata di schiena.
Non si riesce a colmare del cielo. Non del tutto.
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