- Cosa sa dirmi del motivo per cui l'hanno mandata qui?
- Non lo so. Cosa dice là?
- Dicono diverse cose qui. Che parlava quando non era consentito. Che è indolente.
- Che succhiavo caramelle in classe...
- Be' il vero motivo per cui lei è stato mandato qui è perché vogliono che lei sia vagliato.
In questo preciso istante mi trovo disteso con le ginocchia piegate nel letto, al buio, con l'orecchio teso a carpire i foschi brusii che provengono, tra gli infrasuoni malcelati, dalle stanze dei miei consanguinei. A loro dà fastidio la luce che emana il mio LCD, quello che funge da pagina immateriale riciclante i miei dilemmi, nonché da lanterna utile alla fruizione della mia droga, anche in condizioni impervie. Mi porto il pc a letto, per ora solo quello. Ma non è un dramma, si sopravvive, anche col fagotto sovrassaturo. Del resto lo asseriva Frued che l'arte non è che una forma di sfogo altenativa per la libidine repressa. Ma qui, miei cari lettori che perdete il vostro inestimabilmente prezioso tempo a badare ai miei farfugliamenti, non si fa arte, perciò non vi è alcuna insinuante reprimenda libido da assecondare ed intingere nel calice di questo acre liquore.
Ora, son due giorni che un languore trapela come uno spago agganciato ad un ago chirurgico che mi trapassa carne e pensieri sfilacciando intenti preziosi tanto quanto una iuta indiana di quart'ordine, ed intrecciando invero rimorsi, delusioni, piaghe di barlumi adombrati da dubbi e fantasie mozzate. So cosa mi prende, come talvolta sento vibrare per un nonnulla il nervo parietale a destra del mio occhio più malandato. Quello che tutt'ora sto torturando per la stanchezza, ed i raggi patogeni che sta assorbendo per colpa mia. Per consentire al mio inconcludente intelletto di svuotarsi dell'aria turgida accumulata nei bronchioli avari, che filtrano in entrata ogni minuziosa vivisezionata osservazione del mondo, e non consentono il tossico riflusso di rigetto con altrettanta beneaugurata efficienza.
Lo sai bene, a quest'ora ad ogni domanda risponde un fiume. Stavo parlando di me, come al solito, come una reticenza che non è che soltanto un vetro sottile che non consente il tatto, ma che si lascia avvincere dalla voce, e dallo sguardo. Uno sguardo dell'anima che non teme siderali distanze. Fingere di non parlare di sé è la peggiore delle ipocrisie. Ed io, ho messo su un berretto che suona, e che mi permette ogni vita probabile, come una giacca rattoppata che si staglia benissimo sulle mie larghe spalle. Quanto sarebbe assurdo scavare e svuotere fino al limite della corteccia, lobotomizzarmi, infine, per recidere il laccio infimo della paura e della diplomatica ritensione cerimoniale in cui è più facile perdere di vista il quid del proprio volere, che armeggiarsi al meglio per conseguirlo.
Nell'assurdo che protegge quello che penso, io vivo e sono libero. E fa male questa puntura di incanto che spesso qualcosa induce senza avvedersi di quel che inietta, e della dipendenza che da ciò si allarga fino a complicare tutto. E qualcuno volò sul mio nido.
Io che non sono mai a casa, che non ho un giaciglio tiepido tra gli alberi,che mi preservi dal vento. Il gioco della vita non mi risparmia, quantunque invano io tenti di esimermi dal lasciarmi coinvolgere. Mi piace, in fondo, ho un vago bisogno, a volte, di perdere sul serio la testa per qualcosa che valga la mia follia. Ma quale logica muove tutto questo, io non la posso comprendere.
Non ho una camera d'albergo da demolire.
Ho un cantuccio mentale da poter soffocare, ho un destino da potermi inventare, ho un quaderno nero da far seccare. Ho questo volto da poter straziare e le mie parole da distruggere.
Perché non valgono. E finché questa illusione perdura non mi curo e non mi importa, la ignoro. Quando mi si paventa innanzi essa mi atterrisce, e mi schianta la verità in faccia. Fredda e irreprensibile, senza appello.
Penso di sentire dentro qualcosa che non rintracciavo da tempo, quando il ricordo è così smunto dal confondersi nel bugiardo androne dei mai e dei sempre. Quando coccola un bisogno d'eternità che non arriva agli orli di una giara capiente quanto un istante fulminante. Penso che tutto questo tremore è la vita che monta e poi riscende che mi conturba e mi riappacifica con un umano sentire anche un freddo di cui non rammentavo più l'odore granitico. Vorrei saper la musica per esprimere, senz'essere inteso da nessuno, neppure da te, tutto questo tumulto di vita che mi gonfia l'anima e il cuore. Nessuno lo saprà mai, anche se il mio cuore ne dovesse scoppiare. Esiste un passo lieve di una corda tesa a guisa di violino, e nel suo vibrare qualcosa mi accende di un remoto silenzio che non cela ricordi frammisti al frastuono sordo di un tonfo prolungato e piatto.
A questo alludo e qui mi esilio, cadendo dai rami, senza abbisognare di planare, perché non v'è terra che raccoglierà frantumi di piume e canzoni.
Non lo so se queste mie pagine si apriranno ancora. Questa è la mappa del cielo animata per questa settimana.
Forse l'ultimo di un cielo sempre uguale perché ansioso di specchiarsi negli stessi, identici, amabili sguardi, da qualunque angolo di questo scoglio disadorno lo si voglia scorgere.
Ho mal di testa. Non sto bene. Ma non è quello. Va bene così. Solo un altro mattone nel muro. Dopo tutto, sono felice.
- Non lo so. Cosa dice là?
- Dicono diverse cose qui. Che parlava quando non era consentito. Che è indolente.
- Che succhiavo caramelle in classe...
- Be' il vero motivo per cui lei è stato mandato qui è perché vogliono che lei sia vagliato.
In questo preciso istante mi trovo disteso con le ginocchia piegate nel letto, al buio, con l'orecchio teso a carpire i foschi brusii che provengono, tra gli infrasuoni malcelati, dalle stanze dei miei consanguinei. A loro dà fastidio la luce che emana il mio LCD, quello che funge da pagina immateriale riciclante i miei dilemmi, nonché da lanterna utile alla fruizione della mia droga, anche in condizioni impervie. Mi porto il pc a letto, per ora solo quello. Ma non è un dramma, si sopravvive, anche col fagotto sovrassaturo. Del resto lo asseriva Frued che l'arte non è che una forma di sfogo altenativa per la libidine repressa. Ma qui, miei cari lettori che perdete il vostro inestimabilmente prezioso tempo a badare ai miei farfugliamenti, non si fa arte, perciò non vi è alcuna insinuante reprimenda libido da assecondare ed intingere nel calice di questo acre liquore.
Ora, son due giorni che un languore trapela come uno spago agganciato ad un ago chirurgico che mi trapassa carne e pensieri sfilacciando intenti preziosi tanto quanto una iuta indiana di quart'ordine, ed intrecciando invero rimorsi, delusioni, piaghe di barlumi adombrati da dubbi e fantasie mozzate. So cosa mi prende, come talvolta sento vibrare per un nonnulla il nervo parietale a destra del mio occhio più malandato. Quello che tutt'ora sto torturando per la stanchezza, ed i raggi patogeni che sta assorbendo per colpa mia. Per consentire al mio inconcludente intelletto di svuotarsi dell'aria turgida accumulata nei bronchioli avari, che filtrano in entrata ogni minuziosa vivisezionata osservazione del mondo, e non consentono il tossico riflusso di rigetto con altrettanta beneaugurata efficienza.
Lo sai bene, a quest'ora ad ogni domanda risponde un fiume. Stavo parlando di me, come al solito, come una reticenza che non è che soltanto un vetro sottile che non consente il tatto, ma che si lascia avvincere dalla voce, e dallo sguardo. Uno sguardo dell'anima che non teme siderali distanze. Fingere di non parlare di sé è la peggiore delle ipocrisie. Ed io, ho messo su un berretto che suona, e che mi permette ogni vita probabile, come una giacca rattoppata che si staglia benissimo sulle mie larghe spalle. Quanto sarebbe assurdo scavare e svuotere fino al limite della corteccia, lobotomizzarmi, infine, per recidere il laccio infimo della paura e della diplomatica ritensione cerimoniale in cui è più facile perdere di vista il quid del proprio volere, che armeggiarsi al meglio per conseguirlo.
Nell'assurdo che protegge quello che penso, io vivo e sono libero. E fa male questa puntura di incanto che spesso qualcosa induce senza avvedersi di quel che inietta, e della dipendenza che da ciò si allarga fino a complicare tutto. E qualcuno volò sul mio nido.
Io che non sono mai a casa, che non ho un giaciglio tiepido tra gli alberi,che mi preservi dal vento. Il gioco della vita non mi risparmia, quantunque invano io tenti di esimermi dal lasciarmi coinvolgere. Mi piace, in fondo, ho un vago bisogno, a volte, di perdere sul serio la testa per qualcosa che valga la mia follia. Ma quale logica muove tutto questo, io non la posso comprendere.
Non ho una camera d'albergo da demolire.
Ho un cantuccio mentale da poter soffocare, ho un destino da potermi inventare, ho un quaderno nero da far seccare. Ho questo volto da poter straziare e le mie parole da distruggere.
Perché non valgono. E finché questa illusione perdura non mi curo e non mi importa, la ignoro. Quando mi si paventa innanzi essa mi atterrisce, e mi schianta la verità in faccia. Fredda e irreprensibile, senza appello.
Penso di sentire dentro qualcosa che non rintracciavo da tempo, quando il ricordo è così smunto dal confondersi nel bugiardo androne dei mai e dei sempre. Quando coccola un bisogno d'eternità che non arriva agli orli di una giara capiente quanto un istante fulminante. Penso che tutto questo tremore è la vita che monta e poi riscende che mi conturba e mi riappacifica con un umano sentire anche un freddo di cui non rammentavo più l'odore granitico. Vorrei saper la musica per esprimere, senz'essere inteso da nessuno, neppure da te, tutto questo tumulto di vita che mi gonfia l'anima e il cuore. Nessuno lo saprà mai, anche se il mio cuore ne dovesse scoppiare. Esiste un passo lieve di una corda tesa a guisa di violino, e nel suo vibrare qualcosa mi accende di un remoto silenzio che non cela ricordi frammisti al frastuono sordo di un tonfo prolungato e piatto.
A questo alludo e qui mi esilio, cadendo dai rami, senza abbisognare di planare, perché non v'è terra che raccoglierà frantumi di piume e canzoni.
Non lo so se queste mie pagine si apriranno ancora. Questa è la mappa del cielo animata per questa settimana.
Forse l'ultimo di un cielo sempre uguale perché ansioso di specchiarsi negli stessi, identici, amabili sguardi, da qualunque angolo di questo scoglio disadorno lo si voglia scorgere.
Ho mal di testa. Non sto bene. Ma non è quello. Va bene così. Solo un altro mattone nel muro. Dopo tutto, sono felice.
Dicono che la notte sia il momento peggiore.
RispondiEliminaLo dicono quelli che sono atterriti dall'horror vacui, e di notte restano come soggiogati e vinti dal silenzio dei telefonini che non squillano, dall'impercettibile respiro di quelli che di giorno urlano,e ridono, e fanno cose e vedono gente.
Dicono che la notte sia il momento peggiore, perchè è solo nel silenzio ed al buio che riesci a "riportare tutto a casa" e non ci sono mappe, nè stellari nè terrene, che ti facciano strada.
Io credo, piuttosto, che la notte sia il momento peggiore proprio per chi, come te, sente il tremore della vita che monta.
E' quello il momento peggiore, secondo soltanto a quello in cui trovi il genietto della lampada fallica che ti obietta: "Ah, e dunque tu non vivi!".
Stronzate, chè dello scegliere se vivere o meno son capaci anche i sassi, l'atto sovrumano è scegliere A QUALE LIVELLO vivere.
...Poi, di serate di luna piena tiepide e dolenti ne ho avute anche io.
Stai lì, isola irraggiungibile esposta a chiunque, e la vita ti monta dentro e fai una telefonata.
Perchè in tutto questo tragicomicamente involontario soggiorno, la domanda, come al solito, non è mai "Perchè?".
La Domanda è sempre "E perchè no?".
C'è anche un'alternativa solitaria e remunerativa: un barattolone di nutella alto un metro.
RispondiEliminaCristo, come siamo fatti male...
Sono affascinata dal modo in cui scrivi.
RispondiEliminaFreud - pur rimanendo comunque geniale -è un po' troppo fissato con la libide & company...
La nutella è cosa buona e giusta!
Eh il vecchio analista viennese... benvenuta :-)
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