Le casse con i vuoti a rendere per poco non impedivano l'accesso.
R. si vide costretto a forzare, spingendo con le mani e tenendo tutto bloccato con un piede. Spostò quella colonna di bottiglie, facendole suonare come un campanello. Si affacciò Mario, allarmato, per vedere che cosa stava succedendo. Stai a vedere che qualcuno gli stesse rubando anche le bottiglia di birra.
- Ah. Sei tu - disse. - Ma sto chiudendo. È quasi l'alba - aggiunse poco dopo.
- Vedo. Però tu fammi entrare lo stesso.
- Va bene.
R. entrò seguendo Mario che camminava a gambe divaricate facendo sventolare uno straccio umido che ogni tanto schizzava qualche goccia di acqua puzzolente.
La televisione, posta su una mensola elevata ad un angolo, dava uno di quei programmi amarcord pieno di ballerine mezze nude che avevano cominciato a spopolare con i primi vagiti della tv commerciale, negli anni '80.
Il volume era molto basso, però sibilava. E dava fastidio. Perciò anzichè sedersi al bancone, R. andò a poggiarsi ad un tavolino lontano sul quale giaceva ancora la Gazzetta del giorno prima.
- Pure!
- Che c'è?
- Sto pulendo, cazzo! E ti vai a sedere al tavolino che ho appena lucidato? Vieni al bancone, sennò vattene a dormire. - Nessuna risposta. - Ehi! Parlo con te! E poi ti devi decidere a smettere di bere!
- Sta' zitto e preparami dell'acqua tonica - rispose R. infastidito ma indifferente.
Mario allargò le braccia, e si sentì dopo un po' un bicchiere che s'andava riempendo.
- Ecco. Però vieni al bancone.
R. s'alzò, si diresse verso il bancone, prese il suo bicchiere e cominciò a sorseggiare. Camminò lentamente, guadagnò il suo tavolo, si risedette e decise che non avrebbe prestato più la minima attenzione a quello che gli sarebbe stato detto, o urlato.
"Ci sono io che faccio testo a parte", pensava. Ed immaginava qualcuno, molto lontano, che stesse ridendo a denti stretti. Emise un sorriso e vuotò il bicchiere. Restò poi a fissarlo. Non rifrangeva nessuna luce.
Sentì vagamente dei passi che si avvicinavano e notò l'ombra di Mario che si era sviluppata su quel tavolino in modernariato arrugginito e bianco che si poggiava al muro.
Costui bonariamente sorrideva sotto i baffi grigi.
- Altra notte insonne, eh?
- Sì. Ma ci sono abituato. Dormo scarso un paio d'ore al giorno.
- Dovresti darti una ripulita, ragazzo. Via i capelli, snellisciti, basta sigarette e basta la merda liquida che ti vendo io.
- Dovrei.
- Perché non te ne torni a casa a riposare?
- Spegni la tv, Mario. Ancora a fare il pieno di questo schifo stai.
- Mi fa compagnia, idiota.
Meglio star soli. Meglio star soli, se la compagnia è questa. "Dannazione, parla. Per la miseria, di' qualcosa. Fammi sentire che diavolo pensi veramente! Non posso tirare sempre a deduzioni". Si sentiva un pochino canzonato, confuso. O forse non lo era a giusta ragione. Solo che lui parlava schietto entro certi limiti. Prese il taccuino e cominciò a scrivere, a dar sfogo alla sua inconsistente ricchezza. A quelle lodi inutili che sbattevano davanti al muro. Pensava ancora a Simone che dormiva da sola chissà dove. La mattina prestissimo faceva sempre freddo, ed una volta tanto non sentiva dentro di voler abbracciare, ma di voler essere abbracciato. E per la prima volta non confondeva quel desiderio ad un'umiliazione.
Perché il bastarsi non è in concorrenza col desiderio d'averla accanto. L'errore madornale sta nell'alienare altrove un punto di ancoraggio alla vita che è singolare, individuale e talmente problematico da non ammettere altri carichi in groppa su questo delicato equilibrio. Ma tenersi stretto a quella mano che spazzasse via una parte di quella solitudine, no, di quello sentiva un gran bisogno.
E quando sentiva montare il silenzio, ed irrompere la solitudine era solo a Simone, e soltanto a lei, che pensava.
La sentiva riempire quelle strade e quel riposo. La sentiva in tutta la sua assenza che affollava quel suo vuoto. La sentiva mentre al buio d'una notte più acerba un po' lo canzonava e un po' lo arginava. Come se delle volte lei si mettesse una mano davanti agli occhi per non ascoltarlo. Perché voleva mantenere la coscienza di ripararsi, ma allo stesso tempo voleva incontrarsi in quelle parole.
- Ma che diavolo c'è su quel libricino che ti porti sempre appresso? - tornò ad esistere Mario.
- Un manuale di istruzioni, lo aggiorno io.
- E funziona?
- Per una vita da stronzi, forse sì. Non lo so, non è il mio caso.
- Ma ti ci attieni?
- No.
Mario si avvicinò con un altro bicchiere d'acqua tonica.
- E quando ti muovi al di fuori del manuale, funziona?
- Non lo so. Non mi è dato di capirlo. Oppure lo so, e faccio finta di non vedere per non starci male. Oppure è tutto l'opposto. Chi cazzo ci capisce più niente... - ringraziò alzando il bicchiere e lo vuotò d'un sorso.
- Dimmi un po', ma che ti senti preso in giro?
- No, macché. Ci provassero... Nessuno mi prende in giro. Si gioca un po' probabilmente, e faccio finta, ma io ci indovino. Non sono mica scemo.
- Tu pensi troppo.
R. lo guardò. Si tolse gli occhiali. Afferrò il bicchiere fissando un punto imprecisato nel muro. Poi i punti aumentavano, e aumentavano i rapidi guizzi delle sue pupille. Uno strano bollore gli si colorava sul volto. Picchiava lentamente ma incalzante il bicchiere vuoto sul tavolo.
Poi si fermò. Parallelamente Mario che aveva notato con crescente affanno questa mutazione in R. si tranquillizzava. Poggiò sulla fronte la pezza umida e abbassò lo sguardo.
R. riprese il bicchiere vuoto.
Lo lanciò oltre la testa Mario con inaudita violenza.
- Ma vaffanculo. - urlò.
Mario si spaventò al tonfo d'un bicchiere che non si ruppe. E restò basito a guardare.
R. s'alzò e si diresse verso il bancone. Guadagnò la posizione della cassa vicino alla quale c'era il bicchiere a terra. Lo raccolse e allungò un braccio sulle bottiglie che avevano dissetato i vizi degli ultimi avventori, e che Mario non aveva ancora riposto.
Versò qualcosa che non profumava nel bicchiere ancora intatto. Bevve in un sol sorso.
Mise una mano in tasca e cavò delle monete che lasciò davanti alla cassa.
- Io non ho bisogno di pensare. - disse - io le cose le so senza pensarle.
Uscì dal bar e ripose la pila delle casse di birra così come l'aveva trovata. Ascoltò un po' del racconto di quell'alba che faceva a pugni con le nuvole. Un fresco sorriso gli spalancò la faccia. Ed era la risposta a tutte le burrasche.
La differenza era che quelle burrasche facevano spazio ad un ristoro ancora più luminoso. Che quando si è tremendamente complicati si pensa a quanto debba dar fondo il male e la sensanzione di galleggiare sulle intemperie. Ma non si pensa a quanto è più profondo il mare. A quanto è più luminoso il sole. A quanto è più caldo un abbraccio con chi svuota la vita di tutto il resto, quando arriva anche solo per un minuto a bussare all'uscio della tua trasparente reticenza. A quanto fanno più male i pugni ma a quanto son più soffici le carezze. A quanto tutto è estremo, folle, esaltato e vibrante come un brivido che graffia ogni lembo di pelle.
"Ma perché non mi parli, perché le mie parole cadono al suolo senza colpire, e senza neanche rompersi, come quel bicchiere."
Prese il telefono intanto che il cielo schiariva e il venticello si improfumava di aghi di pino. Trovò il numero di una persona che aveva cacciato fuori a calci dalla sua vita.
Senza sapere perchè prese a far squillare quel numero.
- Ehi, mi senti. Come stai?
- ...
- Lo so ti sveglio. Scusa - disse con voce seccata.
- ...
- Che fai dopo? ...Senti non cominciare a fare quella voce di cazzo che vuole fingere di trattarmi con cortesia. Se hai da mandarmi a cacare, fallo sinceramente.
- ...
- ...Non ti ho chiamato per sapere come stai. Non me ne fotte un accidenti di niente della tua vita.
- ...
- ... Hai da fare dopo? Passo a prenderti al posto di una volta?
- ...
- ... Non hai capito un cazzo, non ho alcuna voglia di parlare. Che voglio fare? Voglio solo scopare. Senza se e senza ma, senza dirci ciao, senza dire niente. Con la stessa merda da sconosciuti incatenati l'un l'altro con cui abbiamo vissuto cinque anni fingendo di conoscerci un po'. Però stavolta ti infilo con quella indifferenza che ci riconcilia almeno nel rispetto di essere sinceri, una buona volta. Si scopa. E poi torniamo a maledirci reciprocamente per l'eternità. Se ti va rispondi subito, sennò va' al diavolo anche stavolta.
- ...
- Ok, va bene. Vattene a fanculo tu, e tutta la razza tua. Stronza.
R. non rimpianse. R. si sedette su una panchina di cemento sporca di resina. I suoi jeans si sarebbero rovinati. E attendeva Venere alta a sud-est.
"Dove sei, Simone? Perché non mi dici niente, perché... io ti..."
Se la spezzò in bocca quella parola. Perché era limpidamente vera. Pianse. E sorrise.
R. si vide costretto a forzare, spingendo con le mani e tenendo tutto bloccato con un piede. Spostò quella colonna di bottiglie, facendole suonare come un campanello. Si affacciò Mario, allarmato, per vedere che cosa stava succedendo. Stai a vedere che qualcuno gli stesse rubando anche le bottiglia di birra.
- Ah. Sei tu - disse. - Ma sto chiudendo. È quasi l'alba - aggiunse poco dopo.
- Vedo. Però tu fammi entrare lo stesso.
- Va bene.
R. entrò seguendo Mario che camminava a gambe divaricate facendo sventolare uno straccio umido che ogni tanto schizzava qualche goccia di acqua puzzolente.
La televisione, posta su una mensola elevata ad un angolo, dava uno di quei programmi amarcord pieno di ballerine mezze nude che avevano cominciato a spopolare con i primi vagiti della tv commerciale, negli anni '80.
Il volume era molto basso, però sibilava. E dava fastidio. Perciò anzichè sedersi al bancone, R. andò a poggiarsi ad un tavolino lontano sul quale giaceva ancora la Gazzetta del giorno prima.
- Pure!
- Che c'è?
- Sto pulendo, cazzo! E ti vai a sedere al tavolino che ho appena lucidato? Vieni al bancone, sennò vattene a dormire. - Nessuna risposta. - Ehi! Parlo con te! E poi ti devi decidere a smettere di bere!
- Sta' zitto e preparami dell'acqua tonica - rispose R. infastidito ma indifferente.
Mario allargò le braccia, e si sentì dopo un po' un bicchiere che s'andava riempendo.
- Ecco. Però vieni al bancone.
R. s'alzò, si diresse verso il bancone, prese il suo bicchiere e cominciò a sorseggiare. Camminò lentamente, guadagnò il suo tavolo, si risedette e decise che non avrebbe prestato più la minima attenzione a quello che gli sarebbe stato detto, o urlato.
"Ci sono io che faccio testo a parte", pensava. Ed immaginava qualcuno, molto lontano, che stesse ridendo a denti stretti. Emise un sorriso e vuotò il bicchiere. Restò poi a fissarlo. Non rifrangeva nessuna luce.
Sentì vagamente dei passi che si avvicinavano e notò l'ombra di Mario che si era sviluppata su quel tavolino in modernariato arrugginito e bianco che si poggiava al muro.
Costui bonariamente sorrideva sotto i baffi grigi.
- Altra notte insonne, eh?
- Sì. Ma ci sono abituato. Dormo scarso un paio d'ore al giorno.
- Dovresti darti una ripulita, ragazzo. Via i capelli, snellisciti, basta sigarette e basta la merda liquida che ti vendo io.
- Dovrei.
- Perché non te ne torni a casa a riposare?
- Spegni la tv, Mario. Ancora a fare il pieno di questo schifo stai.
- Mi fa compagnia, idiota.
Meglio star soli. Meglio star soli, se la compagnia è questa. "Dannazione, parla. Per la miseria, di' qualcosa. Fammi sentire che diavolo pensi veramente! Non posso tirare sempre a deduzioni". Si sentiva un pochino canzonato, confuso. O forse non lo era a giusta ragione. Solo che lui parlava schietto entro certi limiti. Prese il taccuino e cominciò a scrivere, a dar sfogo alla sua inconsistente ricchezza. A quelle lodi inutili che sbattevano davanti al muro. Pensava ancora a Simone che dormiva da sola chissà dove. La mattina prestissimo faceva sempre freddo, ed una volta tanto non sentiva dentro di voler abbracciare, ma di voler essere abbracciato. E per la prima volta non confondeva quel desiderio ad un'umiliazione.
Perché il bastarsi non è in concorrenza col desiderio d'averla accanto. L'errore madornale sta nell'alienare altrove un punto di ancoraggio alla vita che è singolare, individuale e talmente problematico da non ammettere altri carichi in groppa su questo delicato equilibrio. Ma tenersi stretto a quella mano che spazzasse via una parte di quella solitudine, no, di quello sentiva un gran bisogno.
E quando sentiva montare il silenzio, ed irrompere la solitudine era solo a Simone, e soltanto a lei, che pensava.
La sentiva riempire quelle strade e quel riposo. La sentiva in tutta la sua assenza che affollava quel suo vuoto. La sentiva mentre al buio d'una notte più acerba un po' lo canzonava e un po' lo arginava. Come se delle volte lei si mettesse una mano davanti agli occhi per non ascoltarlo. Perché voleva mantenere la coscienza di ripararsi, ma allo stesso tempo voleva incontrarsi in quelle parole.
- Ma che diavolo c'è su quel libricino che ti porti sempre appresso? - tornò ad esistere Mario.
- Un manuale di istruzioni, lo aggiorno io.
- E funziona?
- Per una vita da stronzi, forse sì. Non lo so, non è il mio caso.
- Ma ti ci attieni?
- No.
Mario si avvicinò con un altro bicchiere d'acqua tonica.
- E quando ti muovi al di fuori del manuale, funziona?
- Non lo so. Non mi è dato di capirlo. Oppure lo so, e faccio finta di non vedere per non starci male. Oppure è tutto l'opposto. Chi cazzo ci capisce più niente... - ringraziò alzando il bicchiere e lo vuotò d'un sorso.
- Dimmi un po', ma che ti senti preso in giro?
- No, macché. Ci provassero... Nessuno mi prende in giro. Si gioca un po' probabilmente, e faccio finta, ma io ci indovino. Non sono mica scemo.
- Tu pensi troppo.
R. lo guardò. Si tolse gli occhiali. Afferrò il bicchiere fissando un punto imprecisato nel muro. Poi i punti aumentavano, e aumentavano i rapidi guizzi delle sue pupille. Uno strano bollore gli si colorava sul volto. Picchiava lentamente ma incalzante il bicchiere vuoto sul tavolo.
Poi si fermò. Parallelamente Mario che aveva notato con crescente affanno questa mutazione in R. si tranquillizzava. Poggiò sulla fronte la pezza umida e abbassò lo sguardo.
R. riprese il bicchiere vuoto.
Lo lanciò oltre la testa Mario con inaudita violenza.
- Ma vaffanculo. - urlò.
Mario si spaventò al tonfo d'un bicchiere che non si ruppe. E restò basito a guardare.
R. s'alzò e si diresse verso il bancone. Guadagnò la posizione della cassa vicino alla quale c'era il bicchiere a terra. Lo raccolse e allungò un braccio sulle bottiglie che avevano dissetato i vizi degli ultimi avventori, e che Mario non aveva ancora riposto.
Versò qualcosa che non profumava nel bicchiere ancora intatto. Bevve in un sol sorso.
Mise una mano in tasca e cavò delle monete che lasciò davanti alla cassa.
- Io non ho bisogno di pensare. - disse - io le cose le so senza pensarle.
Uscì dal bar e ripose la pila delle casse di birra così come l'aveva trovata. Ascoltò un po' del racconto di quell'alba che faceva a pugni con le nuvole. Un fresco sorriso gli spalancò la faccia. Ed era la risposta a tutte le burrasche.
La differenza era che quelle burrasche facevano spazio ad un ristoro ancora più luminoso. Che quando si è tremendamente complicati si pensa a quanto debba dar fondo il male e la sensanzione di galleggiare sulle intemperie. Ma non si pensa a quanto è più profondo il mare. A quanto è più luminoso il sole. A quanto è più caldo un abbraccio con chi svuota la vita di tutto il resto, quando arriva anche solo per un minuto a bussare all'uscio della tua trasparente reticenza. A quanto fanno più male i pugni ma a quanto son più soffici le carezze. A quanto tutto è estremo, folle, esaltato e vibrante come un brivido che graffia ogni lembo di pelle.
"Ma perché non mi parli, perché le mie parole cadono al suolo senza colpire, e senza neanche rompersi, come quel bicchiere."
Prese il telefono intanto che il cielo schiariva e il venticello si improfumava di aghi di pino. Trovò il numero di una persona che aveva cacciato fuori a calci dalla sua vita.
Senza sapere perchè prese a far squillare quel numero.
- Ehi, mi senti. Come stai?
- ...
- Lo so ti sveglio. Scusa - disse con voce seccata.
- ...
- Che fai dopo? ...Senti non cominciare a fare quella voce di cazzo che vuole fingere di trattarmi con cortesia. Se hai da mandarmi a cacare, fallo sinceramente.
- ...
- ...Non ti ho chiamato per sapere come stai. Non me ne fotte un accidenti di niente della tua vita.
- ...
- ... Hai da fare dopo? Passo a prenderti al posto di una volta?
- ...
- ... Non hai capito un cazzo, non ho alcuna voglia di parlare. Che voglio fare? Voglio solo scopare. Senza se e senza ma, senza dirci ciao, senza dire niente. Con la stessa merda da sconosciuti incatenati l'un l'altro con cui abbiamo vissuto cinque anni fingendo di conoscerci un po'. Però stavolta ti infilo con quella indifferenza che ci riconcilia almeno nel rispetto di essere sinceri, una buona volta. Si scopa. E poi torniamo a maledirci reciprocamente per l'eternità. Se ti va rispondi subito, sennò va' al diavolo anche stavolta.
- ...
- Ok, va bene. Vattene a fanculo tu, e tutta la razza tua. Stronza.
R. non rimpianse. R. si sedette su una panchina di cemento sporca di resina. I suoi jeans si sarebbero rovinati. E attendeva Venere alta a sud-est.
"Dove sei, Simone? Perché non mi dici niente, perché... io ti..."
Se la spezzò in bocca quella parola. Perché era limpidamente vera. Pianse. E sorrise.
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