E se tutto questo scomparisse? Luciano Fleurier si guardò allo specchio e scoprì di non esistere. Nessuno esisteva davvero. Si recò nella camera da letto della madre. Aprì l'enorme cassetto e tra la biancheria e i fazzoletti raccolse nel palmo della sua mano la rivoltella che il signor Fleurier aveva regalato alla moglie prima di partire per la guerra.
Aveva la canna dorata ed il vergine tamburo non aveva esploso alcun colpo; il calcio in madreperla. Un superbo e raffinato latore di morte si faceva sempre più pesante nell'infantile manina del giovane dai riccioli biondi. La bambolina che tutti un tempo stringevano e canzonavano, il mocciosetto effemminato che si pisciava nei calzoncini, ma che appariva più sveglio di Rirì, il cugino più grande e più coccolato, stringeva tra le dita la preziosa chiave per porre fine ad ogni dubbio.
Luciano Fleurier accarezzava ogni giorno quella pistola.
Si era prefissato una data. Poi lo si sarebbe letto sui giornali, a contorno di una foto ritraente un fanciullo con un buco in testa ed il sangue intorno. Ed i titoli sarebbero stati trionfali, perché Luciano avrebbe vinto. Lui non esisteva, e l'avrebbe dimostrato al mondo intero, che pur non esistendo, s'illudeva nella menzogna di esserci e per questo appariva più povero, più debole, nella sua oscura inconsapevolezza. Luciano lo sapeva.
Passavano i giorni e si avvicinava il termine da lui sancito per porre fine a quella condanna.
Ma la sentenza non arrivò mai. Luciano Fleurier divenne grande. Riempendosi d'odio.
Aveva la canna dorata ed il vergine tamburo non aveva esploso alcun colpo; il calcio in madreperla. Un superbo e raffinato latore di morte si faceva sempre più pesante nell'infantile manina del giovane dai riccioli biondi. La bambolina che tutti un tempo stringevano e canzonavano, il mocciosetto effemminato che si pisciava nei calzoncini, ma che appariva più sveglio di Rirì, il cugino più grande e più coccolato, stringeva tra le dita la preziosa chiave per porre fine ad ogni dubbio.
Luciano Fleurier accarezzava ogni giorno quella pistola.
Si era prefissato una data. Poi lo si sarebbe letto sui giornali, a contorno di una foto ritraente un fanciullo con un buco in testa ed il sangue intorno. Ed i titoli sarebbero stati trionfali, perché Luciano avrebbe vinto. Lui non esisteva, e l'avrebbe dimostrato al mondo intero, che pur non esistendo, s'illudeva nella menzogna di esserci e per questo appariva più povero, più debole, nella sua oscura inconsapevolezza. Luciano lo sapeva.
Passavano i giorni e si avvicinava il termine da lui sancito per porre fine a quella condanna.
Ma la sentenza non arrivò mai. Luciano Fleurier divenne grande. Riempendosi d'odio.
E più d'ogni altra cosa, Luciano, odiava sua madre, la signora Fleurier, quell'enorme creatura che lo riscaldava al solo approssimarsi della sua carezzevola ombra. Lo lesse e lo scoprì in sé. Di quanto fosse malsano quel legame così forte che lo legava a sua madre. Un legame forte che avrebbe potuto condurre alla disfatta di entrambi.
Il male è qualcosa di innato. E il giovane Fleurier lo cominciò a comprendere. Un giorno decise che avrebbe cominciato a scrivere. Per esorcizzarlo quel male, per scaraventare l'ineffabile su pagine incolte dalle parole che scivolavano scure, da un lido di realtà concreta, verso incontri e persone mai esistite. Dimensioni e sviluppi di quel magma cocente e inestirpabile che ha preceduto, nella sua carne, la stessa formazione di tessuti e di organi. Un bagno di acido che s'inerpicava negli anni a procedere lungo i suoi vasi linfatici, percorrendo le stridenti concavità del suo animo, e delle sue cellule.
Nessuna meiosi, nessun rimescolamento molecolare avrebbe cancellato un messaggio scritto, anteposto a prologo della sua vita, dall'indifferente e irraggiungibile prestigiatore dei prestigiatori.
L'età può scavare finestre larghe o fessure stringate di quel cuniculo, sui giorni. Può imbiancare alcune ciocche di capelli sulla fronte, quando la pelle è ancora liscia e morbida, e le prosettive di disfattismo cutaneo appaiono un miraggio che non si addice ad un percorso tutt'ora inconcludente e vagamente inutile. Ed il pegno del tempo non è un investimento dal rendimento crescente man mano che ci si approssima a rendere una casa mesta di cui non si è mai stati padroni.
Ed il mio sentirmi a casa, equivale ad un tuffo nell'unico potere che è nel nome che indosso come un abito stretto e sconosciuto. L'immaginazione. Il ridurre a marionette il mondo e la sua falsa dose di benevolenza. Posso rendere attimi perfetti, posso proferire incanti verbali e allietare con dolcezza l'angustia dei tormenti passati. Posso scavare in profondità il crudo mordere della menzogna di questo lugubre palcoscenico che è la vita. Posso spegnere tutto e fottermene, e rivalermi su ogni cosa, portando come in questo viaggio chi sento dentro essermi vicino come un soffio di fiato che risplovera un collo madido di lacrime ingiuste.
E posso farlo, se mi si stringe una mano e mi si guarda negli occhi. Non nelle parole. Che hanno troppo il sapore dell'esistenza. Quando io la rifuggo e la rigetto. Nella mia perenne rivolta di straniero nella peste. Ed Albert deve perdonarmi se a lui ritorno alla fine di ogni mia iperbole.
Stamattina una telefonata m'ha svegliato. Una signora è morta. Ricordo di lei la marmellata di fichi, lo sciroppo di mandorle e un dolce alle more e alle bacche che disseminano i boschi e le alture tra le quali s'è sperso il gusto di non vivere mai. Quel sapore di infinito che è proprio di un'infanzia incosapevole. Quell'unico periodo della storia umana nel quale non si ha la consapevolezza di essere alcunché. Ed è stato splendido, tanto come è falcidiante ricordarlo.
Questa signora è scomparsa tra le colline marchigiane tra le quali era ritornata per custodire l'approssimarsi di ogni nuovo giorno. Suo marito se ne era andato qualche mese fa'. Non avevano figli, sorridevano in continuazione, potevano permetterselo ed avevano girato il mondo. Le loro amicizie si sparpagliavano come polveri nell'atmosfera.
I loro sorrisi sempre accesi, i loro incoraggiamenti, le loro grigliate in aperta campagna mentre io cercavo di far capire loro che ad est non era la stazione MIR quella che loro credevano brillassa così forte, ma Giove, quasi un dio.
Mi abbracciavano forte e non sapevano nulla di me. Però, cavolo, mi sentivo voluto bene.
Avevo una vecchia casa in una valle stretta che scorre tra due boschi di lecci più bassi di un uomo, e rovi e cespugli. Ed ora non c'è più nulla. Come non c'è, ancora e mai, la mano che mi indicava la stella polare al di sopra di ogni sguardo incapace di riconoscere quanto eterno sia dipinto nelle stelle.
A piccoli pezzi scompare tutto. E torna, torna, torna fragoroso... come l'urlo del nulla custodito nel guscio di un granchio.
Ed è insopportabile...
Ha il sapore di una promessa non mantenuta al capezzale di un morto.
Il male è qualcosa di innato. E il giovane Fleurier lo cominciò a comprendere. Un giorno decise che avrebbe cominciato a scrivere. Per esorcizzarlo quel male, per scaraventare l'ineffabile su pagine incolte dalle parole che scivolavano scure, da un lido di realtà concreta, verso incontri e persone mai esistite. Dimensioni e sviluppi di quel magma cocente e inestirpabile che ha preceduto, nella sua carne, la stessa formazione di tessuti e di organi. Un bagno di acido che s'inerpicava negli anni a procedere lungo i suoi vasi linfatici, percorrendo le stridenti concavità del suo animo, e delle sue cellule.
Nessuna meiosi, nessun rimescolamento molecolare avrebbe cancellato un messaggio scritto, anteposto a prologo della sua vita, dall'indifferente e irraggiungibile prestigiatore dei prestigiatori.
L'età può scavare finestre larghe o fessure stringate di quel cuniculo, sui giorni. Può imbiancare alcune ciocche di capelli sulla fronte, quando la pelle è ancora liscia e morbida, e le prosettive di disfattismo cutaneo appaiono un miraggio che non si addice ad un percorso tutt'ora inconcludente e vagamente inutile. Ed il pegno del tempo non è un investimento dal rendimento crescente man mano che ci si approssima a rendere una casa mesta di cui non si è mai stati padroni.
Ed il mio sentirmi a casa, equivale ad un tuffo nell'unico potere che è nel nome che indosso come un abito stretto e sconosciuto. L'immaginazione. Il ridurre a marionette il mondo e la sua falsa dose di benevolenza. Posso rendere attimi perfetti, posso proferire incanti verbali e allietare con dolcezza l'angustia dei tormenti passati. Posso scavare in profondità il crudo mordere della menzogna di questo lugubre palcoscenico che è la vita. Posso spegnere tutto e fottermene, e rivalermi su ogni cosa, portando come in questo viaggio chi sento dentro essermi vicino come un soffio di fiato che risplovera un collo madido di lacrime ingiuste.
E posso farlo, se mi si stringe una mano e mi si guarda negli occhi. Non nelle parole. Che hanno troppo il sapore dell'esistenza. Quando io la rifuggo e la rigetto. Nella mia perenne rivolta di straniero nella peste. Ed Albert deve perdonarmi se a lui ritorno alla fine di ogni mia iperbole.
Stamattina una telefonata m'ha svegliato. Una signora è morta. Ricordo di lei la marmellata di fichi, lo sciroppo di mandorle e un dolce alle more e alle bacche che disseminano i boschi e le alture tra le quali s'è sperso il gusto di non vivere mai. Quel sapore di infinito che è proprio di un'infanzia incosapevole. Quell'unico periodo della storia umana nel quale non si ha la consapevolezza di essere alcunché. Ed è stato splendido, tanto come è falcidiante ricordarlo.
Questa signora è scomparsa tra le colline marchigiane tra le quali era ritornata per custodire l'approssimarsi di ogni nuovo giorno. Suo marito se ne era andato qualche mese fa'. Non avevano figli, sorridevano in continuazione, potevano permetterselo ed avevano girato il mondo. Le loro amicizie si sparpagliavano come polveri nell'atmosfera.
I loro sorrisi sempre accesi, i loro incoraggiamenti, le loro grigliate in aperta campagna mentre io cercavo di far capire loro che ad est non era la stazione MIR quella che loro credevano brillassa così forte, ma Giove, quasi un dio.
Mi abbracciavano forte e non sapevano nulla di me. Però, cavolo, mi sentivo voluto bene.
Avevo una vecchia casa in una valle stretta che scorre tra due boschi di lecci più bassi di un uomo, e rovi e cespugli. Ed ora non c'è più nulla. Come non c'è, ancora e mai, la mano che mi indicava la stella polare al di sopra di ogni sguardo incapace di riconoscere quanto eterno sia dipinto nelle stelle.
A piccoli pezzi scompare tutto. E torna, torna, torna fragoroso... come l'urlo del nulla custodito nel guscio di un granchio.
Ed è insopportabile...
Ha il sapore di una promessa non mantenuta al capezzale di un morto.
Ed ora che hai visto il mio lato oscuro, che cosa vuoi fare? Vuoi ancora tenermi con te?
E se io ti mostrassi, ancora una volta, il mio volto debole spalancando le porte dell'anima, che cosa farai? Venderai la mia storia ai pettegolezzi... mi lascerai solo... sarà un sorriso infame, mentre mi ricaccerai fuori da tutto quello che abbiamo vissuto? Oppure mi riporterai a casa?
E se io ti mostrassi, ancora una volta, il mio volto debole spalancando le porte dell'anima, che cosa farai? Venderai la mia storia ai pettegolezzi... mi lascerai solo... sarà un sorriso infame, mentre mi ricaccerai fuori da tutto quello che abbiamo vissuto? Oppure mi riporterai a casa?
Pensavo di dover strappare il sipario.
Tenevo il coltello con mani tremanti...
pronto a farlo ma poi ha suonato il telefono
e non ho mai avuto la forza di dare il taglio finale.
Gradirei non essere commentato, stavolta.
Tenevo il coltello con mani tremanti...
pronto a farlo ma poi ha suonato il telefono
e non ho mai avuto la forza di dare il taglio finale.
Gradirei non essere commentato, stavolta.
Nessun commento:
Posta un commento