Non mi puoi accarezzare, io sono un fantasma, le tue dita oltrepassano il mio granulo profilo. Hai parole confuse ed io non riesco più a leggere, siamo perfetti eppure sconosciuti. Per questo siamo sinceri, per questo forse non ci odieremo mai.
Non c’è bisogno che mi sforzi a guardarti oltre. Pare che sia tu a disegnare col tuo viso i contorni finali della bellezza; e che questa possa essere stata finora soltanto un’ombra vuota alla disperata ricerca di un volto.
I miei occhi sono troppo stretti per contenerti. Sono abituato a cogliere lo splendore a piccole porzioni.
Tanto tu sei completamente all'oscuro. In tal caso temo solo la tua intelligenza.
La tua presenza è un attentato alla mia libera voglia di ignorare i miei stati d'animo. Perché mi fa star bene. Sono davvero tanto fragile, mi ostino a ponderare infruttuoso ed esitante. Oppure non c'è scampo, la solitudine e l'indipendenza sono lussi pressoché negati. Sapere che c'è un altro essere vivente con una mente non mia, che amministra i miei stati d'animo con un bilancino estraneo ad ogni mio tentativo di pacificazione intima, mi indebolisce. Adoperarmi ad edificare il muro è vana fatica se tutto crolla all’intemperante vacillo della noncuranza involontaria.
No, non sono impermeabile, dentro. Ma non c'è logica, neanche qui.
Non sono impermeabile, ma neanche una spugna. Temo di non esserci già più l’istante successivo all’improvvisa consapevolezza di sentirmi schiavo della tua attenzione. E a restarmi cucita addosso è solo un’inquieta ed inspiegabile friabilità dell’essere. Una duna è una temeraria illusione di essere un monte soggiogato da impalpabili spifferi.
Crolla il castello di carte, resta solo la certezza d’aver perso tempo. Del resto ci si infischia.
È una giostra a cui non ci si assuefa, una droga che non procura dipendenza, è solo il fastidioso e dissacrante sgomento di un attimo. Mi sorprende cogliere istanti in cui sembra che la vita non mi abbia del tutto sfibrato. Sono lì che brulicano nel diletto della tua fine inconsapevolezza, a cui non mi è dato imputar niente, di grazia.
Gioca con la mia bonaccia dell’anima come con una pigotta fatta di stracci e piume presi in qualche dormitorio. Il sole scende come miele sulla donna del porto, che indica i colori tra la spazzatura e i fiori. Eroi tra le alghe marce e bambini nel mattino. E famigerati racconti che non hanno sorgente tra i miei domani e i miei forse senza un perché.
Solo, quando hai finito di giocare senza saperlo, prova a non spargere piume sul pavimento.
Perché poi mi scazza enormemente fare pulizia nel cervello.
Oh! E tu, vecchio barbone che ti sei preso il lusso di mettere in un angolo la mia trasparenza perché nella pantomimica commedia della vita pubblica si rende necessario non essere sempre sinceri, anche se non lo saprai mai lo cogli nel mio sguardo. Prenditi la tua esperienza da navigato traghettatore di anime perdute nei fetori del Flegetonte della tua ignoranza, e chiudendo gli occhi come per predisporti al piacere beato, infilati la tua saggezza nei tortuosi cunicoli della tua ampolla rettale.
E smettila di cacare il cazzo. Che alla prossima riunione ti sputtano in pubblico. Cloaca di merda.
Ultimamente sto adoperando un linguaggio poco cortese? Non è dovuto a problemi di digestione. E neanche a fastidi dovuti ad irregolarità nei processi di smaltimento.
Ora mi bazzica così. E questo blog potrebbe avere le ore contate. Giace costantemente sull'orlo della sua distruzione. Requiem.
Verrano tempi in cui scrivere non servirà a nulla. Non serve già adesso. Ma ancora non l'ho ben realizzato. Le parole non tradurrano i celebri versi delle voci di dentro. Parleranno scosse di libertà frammiste a silenzio, bagliori e scosse poderose di asce e scudi.
Lampi nel buio di bengala, fuochi d'artificio e petardi, mortaretti, tricche tracche e castagnole...
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