- Ue' Alcor? Come va?
- 'nsomma... tu come stai?
- Benissimo! ...e tu, mbe'? Ti sei ripreso?
- In che senso?
- Sei tornato ad inzuppare il biscotto?
- Macché....
- Sei un fallito.
- Se lo dici tu che conosci bene la categoria...
- I miei ricordi più lieti sono sempre fatti di giornate come queste mia cara...
-…a ridere come gli alienati?
- A ridere, non importa dove e come, ma con chi... Ma basta ora, ti sto lodando troppo, sennò sembro Bonaiuti con Berlusconi.
- Veramente stavo pensando a Emilio fede. Ma meglio Bonaiuti, forse.
- Decisamente meglio mademoiselle, Bonaiuti è più intenso… e questa cosa va ben ponderata (se lo capisce...)
- è il fatto di sentire me medesima paragonata a Berlusconi in entrambe le analogie che mi distrugge. Intanto io ho più capelli, poi sono più alta, e meno “lampadata”, (mica per altre ragioni, eh)
- E perché io? Comparandomi a Bonaiuti ci faccio una figura di lusso, vero? Il lardoso lecchino con la gobba, a far da ombra al boss, ad allacciargli le scarpe quando queste si sciolgono… Mio dio… se non fossi tu la mia “Berlusconi”, mi sarei ammazzato…
- E tu mi allacceresti le scarpe? Sul serio? Non porto le scarpe coi lacci di solito, che peccato…
- Sono indeciso se risponderti alla maniera Pulp o se fare il “Petrarca”….
- Il Pulp… e poi tamponi col Petrarca. Tanto in entrambi i casi, lo so che sei tutti e sei nessuno…
- (Costei la adoro…) Vai col Pulp: “Coi tuoi piedi ci farei qualsiasi cosa...”
- mmm…
- Ed ora vai col Petrarca: “solo allacciarle le scarpe, mia dama? Per te bacerei la terra sotto i tuoi passi per farti posare sul mio amore...
- …...........
- Che ne pensi? Meglio il Pulp o Petrarca?
- Ovviamente il Pulp, però mi riservo di tornare al bivio e optare per il Petrarca qualora tu volessi fare cose turpi coi miei piedi, che poi si parlava di scarpe, e
- (Ho udito bene? Metonimia!? Le mie difese son già crollate, porca……………)
- Sei una figura retorica pensante! monsieur!
- Sono una figura... un figurino, un figurante, e a volte, una figuraccia...
- …altre un figurone…
- mmm… questo non saprei...
- Sono gli altri che lo decidono, infatti, a seconda di quanta pena gli facciamo. Voglio sottolineare che non è un modo subdolo per dirle che mi fa pena, (so che lo sta pensando…)
- ... e anche se fosse... ormai... (cristo, no….)
- Ormai che?
- Niente, è un normale intercalare tipicamente decadentista, me lo ha insegnato Arthur. R. (... cavoli…)
- Ma che succede?
- No, niente… (accidenti…)
- Ma che hai?
- Non ti preoccupare, è un insolito formicolio… (Eh, se tu sapessi… ). Dicevamo? Ah, sì! Ma che belle scarpette…
- Eccomi, sigh...
- Da dove vieni?
- Da una riunione politica...
- E che avete fatto?
- Un cazzo... Questa campagna elettorale mi sta uccidendo...
- Cioè?
- Niente. Hai del limone?
- Ma... ti senti bene, che hai?
- Sto bene, un bicchiere di troppo, ma una matrice Hessiana te la so ancora risolvere, tranquilla...
- Che idiota... però barcolli...
- No... va tutto bene, all'incirca.
- Ti voglio bene, Alcor...
- Che hai detto?
- ... che ti voglio bene...
- .. ma hai mangiato cipolla oggi?
- No...
- Ah, pensavo... comunque, usa il colluttorio...
- Perché?
- Lo so io perché...
- Sei uno stronzo... (stizzita)
- No.... sono solo bevuto...
- Stringimi forte, scemotto... (con fare tenero e pacioccone)
- No senti, non hai capito niente. Come diavolo parli? E poi... niente più servizi part-time...
- (sguardo truce e silente)
- Vado a prendere la macchina?
- Sei ubriaco... no.
- Mica prendo la macchina per guidare...
- Sei ubriaco lo stesso...
- Appunto, approfittane cacchio, normalmente ti avrei preso a calci nel posteriore, che cavolo hai mangiato prima di uscire? Cavolfiori al polonio?
- Sei un lurido cafone...
- Tu puzzi ed io son cafone, che cazzo di paese, ecco perché vince Berlusconi... mi fai un massaggio ai piedi?
- Vaffanculo Alcor...
- Ringrazia che vedo doppio... talmente doppio che sarebbe stato come farlo in tre...
- (Sguardo sconcertato) Ma che ci stava nel vino? La peyota?
- No, solo, la prossima volta che mi invii un messaggio perché mi vuoi incontrare, e scrivi "cmq" giuro che ti radio dalle amicizie... e non sto scherzando. Ora va a letto. E salutami tua sorella. Quella sì che merita. - Yawn - Pussa via, adesso...
Non isto vivimus illic, quo tu rere, modo*
E sarà sciorinato dal pendulo labbro
Life's but a walking shadow, a poor player*
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.*
Nel vestibolo appestato
I will show you fear in a handful of dust*
Indolenti mementi di acrostici spifferi acclamanti bocche di pargoli reietti
Our legend be, it will be fit for verse,*
And if no piece of chronicle we prove,
We'll build in sonnets pretty rooms.
Anche la rabbia esige una speranza per essere credibile
Aux heures d'amertume je m'imagine des boules de saphir, de métal.*
Je suis maître du silence.
Pourquoi une apparence de soupirail blêmirait-elle au coin de la voute?
Le incrostate fessure al di là del mio muro
L'assassino s'era già lavato,*
dite a mia madre che non tornerò.
Renderò insopportabili al rimorso queste ansie, e dissalerò ogni vacua impronta.
Non omnis moriar*
E non sarà mai abbastanza.
Non mi puoi accarezzare, io sono un fantasma, le tue dita oltrepassano il mio granulo profilo. Hai parole confuse ed io non riesco più a leggere, siamo perfetti eppure sconosciuti. Per questo siamo sinceri, per questo forse non ci odieremo mai.
Non c’è bisogno che mi sforzi a guardarti oltre. Pare che sia tu a disegnare col tuo viso i contorni finali della bellezza; e che questa possa essere stata finora soltanto un’ombra vuota alla disperata ricerca di un volto.
I miei occhi sono troppo stretti per contenerti. Sono abituato a cogliere lo splendore a piccole porzioni.
Tanto tu sei completamente all'oscuro. In tal caso temo solo la tua intelligenza.
La tua presenza è un attentato alla mia libera voglia di ignorare i miei stati d'animo. Perché mi fa star bene. Sono davvero tanto fragile, mi ostino a ponderare infruttuoso ed esitante. Oppure non c'è scampo, la solitudine e l'indipendenza sono lussi pressoché negati. Sapere che c'è un altro essere vivente con una mente non mia, che amministra i miei stati d'animo con un bilancino estraneo ad ogni mio tentativo di pacificazione intima, mi indebolisce. Adoperarmi ad edificare il muro è vana fatica se tutto crolla all’intemperante vacillo della noncuranza involontaria.
No, non sono impermeabile, dentro. Ma non c'è logica, neanche qui.
Non sono impermeabile, ma neanche una spugna. Temo di non esserci già più l’istante successivo all’improvvisa consapevolezza di sentirmi schiavo della tua attenzione. E a restarmi cucita addosso è solo un’inquieta ed inspiegabile friabilità dell’essere. Una duna è una temeraria illusione di essere un monte soggiogato da impalpabili spifferi.
Crolla il castello di carte, resta solo la certezza d’aver perso tempo. Del resto ci si infischia.
È una giostra a cui non ci si assuefa, una droga che non procura dipendenza, è solo il fastidioso e dissacrante sgomento di un attimo. Mi sorprende cogliere istanti in cui sembra che la vita non mi abbia del tutto sfibrato. Sono lì che brulicano nel diletto della tua fine inconsapevolezza, a cui non mi è dato imputar niente, di grazia.
Gioca con la mia bonaccia dell’anima come con una pigotta fatta di stracci e piume presi in qualche dormitorio. Il sole scende come miele sulla donna del porto, che indica i colori tra la spazzatura e i fiori. Eroi tra le alghe marce e bambini nel mattino. E famigerati racconti che non hanno sorgente tra i miei domani e i miei forse senza un perché.
Solo, quando hai finito di giocare senza saperlo, prova a non spargere piume sul pavimento.
Perché poi mi scazza enormemente fare pulizia nel cervello.
Oh! E tu, vecchio barbone che ti sei preso il lusso di mettere in un angolo la mia trasparenza perché nella pantomimica commedia della vita pubblica si rende necessario non essere sempre sinceri, anche se non lo saprai mai lo cogli nel mio sguardo. Prenditi la tua esperienza da navigato traghettatore di anime perdute nei fetori del Flegetonte della tua ignoranza, e chiudendo gli occhi come per predisporti al piacere beato, infilati la tua saggezza nei tortuosi cunicoli della tua ampolla rettale.
E smettila di cacare il cazzo. Che alla prossima riunione ti sputtano in pubblico. Cloaca di merda.
Ultimamente sto adoperando un linguaggio poco cortese? Non è dovuto a problemi di digestione. E neanche a fastidi dovuti ad irregolarità nei processi di smaltimento.
Ora mi bazzica così. E questo blog potrebbe avere le ore contate. Giace costantemente sull'orlo della sua distruzione. Requiem.
Verrano tempi in cui scrivere non servirà a nulla. Non serve già adesso. Ma ancora non l'ho ben realizzato. Le parole non tradurrano i celebri versi delle voci di dentro. Parleranno scosse di libertà frammiste a silenzio, bagliori e scosse poderose di asce e scudi.
Lampi nel buio di bengala, fuochi d'artificio e petardi, mortaretti, tricche tracche e castagnole...
L’altra sera ti ho rivista, e avrei preferito che mi si infilasse inside un asteroide della nube di Oort ad uso di supposta antipiretica. Perché di tutto mi si può saccheggiare il cuore, tranne che della lenta nenia di un rimpianto d’annata. Quello che mi fa compagnia durante le brulle serate, quando mi infilzo l’anima segregato nelle polverose riunioni con canuti soggetti dall’intelletto scarno e genuflesso alla mercé del rincoglionimento galoppante.
Nelle surreali miscele di fumi passivi, e di lagne latrate da bocche indegne di spalancarsi all’aere in un mondo che fosse davvero decente, mi ripristinava all’oblunga quiete dell’esistere il ricordare ancora la presa della tua mano, che, con indifferente vergogna, faceva finta di fingere di non volermi tastare laggiù, eppure esplorava con somma maestria zone proibite della mia dotazione infrastrutturale, ed io, consentendoti libero accesso, mi concentravo sul malizioso sorrisetto che si inarcava soffice sul tuo viso astuto. Mi stavi seduta sulle gambe, ed io, all’epoca novizio, sottomesso al fato, non opposi alcuna puerile resistenza.
Diciotto anni compiuti da un mese appena avevo, tu di inverni come quello ne avevi goduti diversi in più.
Una prosperosa amazzone di tal sorta, che mi guardava dall’alto dei suoi 1,90 facendomi sentire un minuscolo borlotto al suo cospetto, coi capelli lisci di un falso nero, ricoperti dal velo matronale che quella sera ammantava i volti delle dame, all’insegna del medioevaleggiante rievocar di leggende e sacrali storie di martiri venerabili. E rimestando tra quelle reminiscenze empiree, riassaporavo ogni volta il retrogusto di naftalina di quel tuo corpetto lanoso turchese esaltante oltremodo le tue già rigogliose fattezze che stimolavano smisuratamente l’atavico istinto riproduttivo che è il solo fine ultimo di questa cagata di vita.
Non c’era posto per te nell’allegorico e carnevalesco banchetto in costume, e affabilmente tu mi adoperasti a guisa di poltroncina; con mia somma soddisfazione, poggiasti su di me le tue natiche perfette il cui tocco ancora esita nella rimembranza mielata di quella soave adiacenza. Ancor oggi vorrei punire le mie infantili inermi mani, che hanno molto peccato in omissione, nonostante la mia mente peccasse già in pensieri e parole tacitamente profuse, ed un altro organo ingovernabilmente peccasse già opportunamente in opere…
La vita strofinava quei minuti che trattenevo nei miei respiri con l’apnea che apponeva zavorre al piacente appagamento che ti sconvolge e ti rende prono a sacrificar tutto l’esistibile e l’esistente per non troncare mai quel godimento serafico. Non oso immaginare se tu me l’avessi data che diavolo mi verrebbe da scrivere adesso, dopo tutti questi anni foschi.
Perché quella sera, dopo la farsa buffonesca per le vie del borgo antico, dovetti entrare in scena, con la stola e la tunica vescovile di un santo martire innocente. Disperante e dolente nella finzione di un precoce incontro con la morte, la mia mente e qualcos’altro erano ancora lì, accanto e sotto le tue grazie indimenticabili, e la mia carne lesa dal supplizio di non averti meco in singolar tenzone. T’avrei distrutta.
T’ho cercato, in seguito quella sera. Ributtando complimenti inutili e tediosi, nella moltitudine circondante scrutai lesto per vederti spiccare con la tua chioma nera e gracile come una notte di marzo. Raggiungendoti ti presi la mano, e ti mormorai romanticamente: “tu stasera non ti ritiri incolume”; ti chiesi di aspettarmi mentre recuperavo le mie vesti borghesi, e per liberarmi dai sacrileghi costumi ecclesiali. E tu sorridesti affabilmente vogliosa di iniziarmi a quell’unica opera per cui il mio involontario soggiorno si compiace e si trastulla.
Ma, ahimè, mi sorprese quel giornalista infame a cui successivamente ho rivolto le mie più acrimoniose maledizioni, estese poi a tutta la sua malsana generazione di rompicoglioni. Perché bastarono alcune indicibili e scontate domande ad accelerare il tempo e dilatare l’attesa di colei che non c’era già più, mandando a farsi fottere la libidine accumulata che mi stava trapanando il cervello, e lasciandomi solo a dover gestire un’incazzatura mista alla famelica eccitazione.
Quattro fidati amici scorsero la costernazione omicida che pulsava nei miei occhi arrossati dai fotoni infetti degli occhi di bue puntati addosso a me per tutta la sera.
La mia libertà di intendere e di volere era stata strangolata dal mio post-adolescenziale testosterone, tradito dalla mancata iniziazione con una giumenta di quel calibro…
Raccolsero i miei abiti civili in un sacco, e ancor travestito da vescovo trafitto, mi condussero in una cantina laddove su un soppalco giaceva un vecchio materasso insudiciato dalle inique pratiche che lassù vi erano state agite. Mi distesi distrutto.
Scomparisti lasciandomi un mal di testa che manco Polifemo con la trave acuminata nel suo unico occhio. Non bastarono le passive inalazioni della marijuana dei miei amici, né i litri di non so che cazzo mi fecero bere… per non pensarti avrebbero dovuto prosciugarmi letteralmente i capillari di tutto il sangue e farvi scorrere dentro il mosto puro del peggior tokaij sintetico che servono a Budapest e che avvelena pure i marziani.
Non bastarono gli strilli di Ian Gillan e gli assoli di Ritchie Blackmore, no, urlavo solo il tuo nome e la mia dannazione.
Guarito dalla turba dopo pochi giorni, t’ho vista spesso, ma non sarebbe stato lo stesso folle gesto di quella sera. Ti ho ricacciato nella quasi indifferenza, come facesti tu del resto. Sei rimasta lì dov’eri, nel rimpianto nobile che mi ha insegnato molte più cose che non le splendide erudite nozioni che un giorno saranno mangiate dai vermi insieme al mio epidermide inutile.
Sei rimasta lì, nel mio lieto pensiero di solitudine, almeno fino all’altra sera.
Quando t’ho rivista al tavolino di una pasticceria, ad ingurgitare una torta ipercalorica con una tua amica, e avrei voluto morire oppure massacrarti di botte. Perché al tuo posto vedevo la sorella minore di Moby Dick, e percepivo sottile il lamento della sedia di plastica bianca su cui premevano immonde le chiappe da pachiderma che ti sei fatta crescere.
M’è venuto istantaneo dirottare la mia sensibilità percettiva sul mio basso ventre che tu rendesti felice posandole su di me, quando esse meritavano inchini e lodi, in quella sera di sublimi presagi andati poi al becero macero… e vedendoti ora goffa e lardosa, il mio dolce rimembrar s’è irreparabilmente riempito di schifo. Neanche se io fossi un napoletano nostalgico dinanzi a Maradona ridotto ad ippopotamo.
Ecco, quella sera lontana sei sparita portando via con te un’occasione dignitosa per sancire il senso della mia presenza, lasciandomi un rimpianto sguazzante beato nella innata orda nichilista dei miei pensieri.
L’altra sera ti sei portata via anche questo, alienandomi a considerare ancora una volta che diamine sia, in fondo, la quadruplice radice del principio della ragion sufficiente. Cioè nulla.
L’estate giunse rapidamente, ma il sole già declinava la goffa circonferenza spezzata da un orizzonte che separava realtà ed immaginazione.
S. risaliva il corso velocemente stretto da marciapiedi alti e da palazzine severe, aveva lo sguardo piegato e la via si alterava distendendosi a metà tra le sue pupille castane e una lacrima che recalcitrante provava a ringoiarsi dentro all’animo.
Tornava indietro, aveva sempre provato a ritornare, sebbene non avesse avuto una direzione precisa quel suo convinto imprimere tra le ore stentate il tambureggiare dei tacchi lungo il tragitto. Era come un labirinto che conduceva al punto di partenza, laddove l’entrata non consentiva l’uscita, e tra quei viottoli di montagna non sembrava possibile sperare che si squarciasse un varco fuggente attraverso spianate ove trafugare ampie fette di libertà all’inesorabilità, contraddizioni alleggerite dal peso dei rimproveri, dall’assoggettamento ad un’empia coerenza che riconducesse all’ordine i clandestini strepiti di diserzione a quel granitico cortile dorato.
Se lo ripeteva voracemente come lo stornello di una litania di cui fosse talmente convinta da potersi accontentare di una occhiata transitoria sui suoi pensieri, ci era cascata ancora una volta. Nel lasciarsi afferrare dalla traversata di un nembo nel suo cielo, aveva immaginato che fosse stato possibile osservare quel piccolo mondo dall’alto, imparare ad amarlo finalmente sibilando un addio.
Senza neanche presenziare completamente alle sue azioni, S. si tuffò in una tavernetta dall’insegna lignea appesa ad una vecchia e sottile trave di ferro infilata tra le grigie mura.
Non ci era mai stata prima lì, e passò lestamente i polpastrelli della sua mano sinistra ad asciugarsi le inquietudini ancora affacciate sotto gli occhi.
Andò verso un tavolino, si sedette in attesa di ordinare da bere.
Era stanca di ammettere ancora una volta la sua sconfitta. Stanca di doversi imporre un ordine, di doversi affidare a dei traguardi di serenità postuma. Stanca di dover odiare le immagini replicanti di se stessa che popolavano un passato da cui non imparava abbastanza, e che dissipava nel numeroso baule di rimorsi, zeppo di foto di persone diverse che rispondevano sempre allo stesso unico nome.
Quando le capitava di ritrovarsi sulla sua stessa ribalta attori di uno spettacolo vecchio, aveva sempre pensato di poter riafferrare l’accomiatato copione, correggerlo in tutto quello che le era parso sbagliato e guasto, per darsi un’altra possibilità. Aveva sempre pensato che le luci sulla sua scena, i costumi da indossare nelle diverse occasioni che avrebbe attraversato con l’esperienza fossero sempre state delle occasioni perfette, rovinate poi soltanto da lei, dai lineamenti della sua persona che le impedivano ogni volta di trovare un comodo passaggio tra gli abiti diversi che avrebbe dovuto via via indossare per arricchirsi e sentirsi sempre splendida attraverso vite sempre diverse e continuamente rinnovate.
Le capitavano questi improvvisi flashback reali a renderle l’onere della prova che non fosse imputabile a lei la ferita da cui trasudava quell'inclinazione al disastro che sentiva di conservare, che la inchiodava a sentirsi debitrice inadempiente con le obbligazioni del passato, quelle che s’appendevano come zavorre alla sua voglia di scappare e scegliere finalmente la sua vita, o la sola brama di sentirsi all’altezza di poter fare una scelta.
E mentre brindava alle altre cambiali rilasciate ai suoi rimorsi alzò lo sguardo nel locale che già si riempiva della sera. Poca gente, atmosfera da vagabondi avventurieri, da gente profonda mantenuta a galla nella vita leggera, musicisti sconosciuti suonavano ricordi in bianco e nero nelle numerose foto appese sulle pareti. Pensava che esistesse una forma di passato che più si tingeva di grigio, più si arricchiva di mistero e valore, a differenza dell’insostenibile futilità che graffiava ancora più irritante le sue riflessioni. In una bottiglia di vino del ’61 posata su una mensola accanto a brocche di terracotta riconobbe il senso della pazienza e del desiderio a voler quasi far passare sotto silenzio i suoi anni sino farli scomparire dalla storia. Pensava su cosa volesse significare vivere come fosse una goccia di quel nettare frizzante scaldato dal ventre di vetro che impediva all’aria di smussarne i caratteri e gli aromi, una purezza preservata e consacrata. Avrebbe pagato qualsiasi cifra per un sorso di quel vino. Sino a quando solo un lontano ricordo avesse reso un qualunque valore a se stessa e a tutti i suoi rimpianti, si sarebbe potuta assopire anche lei su una mensola, dietro una tranquilla e trasparente reticenza.
Un colpo di tosse maschile la distolse. Proveniva da un tizio che si chinava a raccogliere una matita che le era scappata di mano poco più in là, su uno sgabello nei pressi del bancone centrale dove erano appesi calici e boccali.
Una rigida custodia per chitarra era poggiata alla sinistra di costui, che indossava una giacca scura nella cui tasca destra sembrava in quel momento riporre un piccolo taccuino.
Erano trascorsi mesi, quasi un anno, ed il prof. R. era lì, apparso come dal buio.
S. si alzò e raggiunse il balcone ad una certa distanza dalla posizione del professore, incredula. Sentiva crescere dentro una specie di catarsi e di risentimento, la confusione che nella luce attenuata dalle umide lanterne si stava vagamente acquietando, lasciava il campo ad un tipo di inquietudine di cui non coglieva il senso. Mentre intorno a lei una melodia folk irlandese cominciava a sfiorarle l’udito.
Questi guardava davanti a sé con il capo leggermente reclinato in avanti ed i capelli che davanti agli occhi ne coprivano ogni attenzione. S. non le era vicino ma egli, tra le fisarmoniche ed i cauti violini, avrebbe potuto riconoscere la sua voce, qualora questa le fosse ancora impressa nella memoria.
Premurosa di non colpirlo e disturbarlo con gli occhi, lo guardava con le parole spezzate dinanzi alla sua bocca socchiusa. Lo guardava mentre sembrava che la vita gli scivolava addosso con reciproca noncuranza. Intero ed inscindibile scambiava qualche cenno di mano al grassoccio con i baffi e le bretelle che gli riempiva il bicchiere.
Un attimo dopo che quest’ultimo servì R., virò il suo sguardo in direzione di S. che con voce lievemente alta e ansiosa volle farsi sentire:
- Prendo anche io quello che ha preso il signore. - Indicando con un timido gesto dell’indice lo sgabello su cui un disattento R. era poggiato - Il professore sarà ben lieto di offrirmi da bere stasera. -
A quelle parole, R. si voltò e bastarono pochi istanti per riconoscerla. Piegò lentamente il collo verso la sua sinistra e le sorrise. Con un cenno all’uomo fece segno di versarle da bere, e con un altro cenno a S. la invitò a sedersi accanto a lui.
- Che stai bevendo? -
- Lo fanno con le loro mani, è del ’61. -
S. bevve un sorso dal suo calice. Sembrò di mandar giù anche le migliaia di domande che avrebbe voluto rivolgergli. Esse perdevano di importanza attimo dopo attimo.
- Non sapevo che tu suonassi la chitarra - le disse lei, come se la corda del loro dialogo non si fosse mai interrotta in quei lunghissimi mesi di distacco che parevano cancellarsi in ogni parola che scorreva dall’uno verso l’altro.
S. parlava e percepiva questo lento ricomporsi frenato soltanto dalla sottile amarezza latente che serbava dentro per quella sua improvvisa scomparsa, ma se questo l’avesse aiutata a disperdere nell’oblio anche tutto il tempo trascorso da allora, allora, avrebbe provato a soffiare su quella esile bufera.
R. non ne sembrava affatto consapevole, e nei limiti della sua irreprensibile compostezza manifestava una certa tranquillità. Ma bastò poco, perché l’accumulo di S. giungesse a saturarsi dalla voglia di non contenersi più.
- Sei sparito senza dir nulla, senza lasciare traccia, senza un saluto. - Irruppe lei con tono incalzante ma non aggressivo coprendo la voce di R.
- Pensavo che non te fossi nemmeno accorta. - Continuò lui scavalcandola senza soverchiarla, ma riprendendo le fila del suo discorso, come un monologo recitato da entrambi con un’unica voce.
- Come puoi dire una cosa del genere? Eravamo insieme quella sera. -
- Vivere una sera od un istante non reca in sé la certezza di esserci anche il successivo, o l’altro ancora… -
- Però potevi dirmelo, non siamo stati estranei. -
R. non rispose e bevve, guardò alla sua chitarra forse per non cogliere l’aria di parvente rimprovero issata nel volto di S.
- Scusami… - disse S. temendo di aver oltrepassato una coltre incomprensibile, ma che aveva avuto già modo di accettare come un dato di fatto.
- Come stai S.? - Provò un inaspettato e non maldestro tentativo di gettare un ponte verso la balbettante incertezza di S.
- Non lo so. Non mi è importato nulla di te quando sei sparito. Ma poi ti ritrovo qui, dopo tutto, e mi sembra di pensare che se tu non fossi andato via, forse la mia vita sarebbe stata diversa, che tutto quello che ho passato non sarebbe mai capitato. Avrei avuto un pensiero che mi avrebbe impedito di concedere ogni centimetro della mia mente a chi mi ha fatto star male ancora una volta. Che magari sarebbe accaduto ugualmente, ma ora che mi accorgo che ci sarebbe stata la possibilità di non soffrire, tutto questo mi fa rabbia. Sapere che tu ti sia potuto portar via una briciola dell’illusione di oggi, e della speranza di ieri, non lo accetto. Anche perché non capisco come faccio a pensare tutto questo di te, che non parli, che scrivi in silenzio sul tuo libricino parole che non leggerei mai. Io che a stento conosco il tuo nome e ti ho sentito parlare di tutto, fuorché di te. E adesso sei di nuovo qui a confondermi… - Era un fiume in piena S., e non riusciva a non trattener le lacrime con la stessa applicazione emotiva con cui voleva lasciarlo inerme dinanzi alla possibilità di fargli credere che lui sarebbe potuto diventare importante.
- Che cosa è successo? Che stai dicendo? -
- Se tu non fossi andato via, forse lui non sarebbe tornato, ed io non starei qui, a desiderare di affogare la mia vita in una bottiglia di vino del ’61! -
- È così allora? Posso solo apparirti come un’attenuante su cui riversare la mancata speranza che da sola non si riuscita a riconoscerti? - Piano, il prof. R., per non sembrare severo.
- Non lo so, non lo so. - S. era avvinta dal pianto ormai. R. le si avvicinò la strinse, e le raccolse le lacrime. A quel contatto S. restò immobile, avvertì il calore, avvertì il non essere sola, non guardò in volto la persona che la stava raccogliendo, ma sentiva di sentirsi protetta, sentiva quasi di potersi addormentare in un sonno che l’avrebbe completamente aperto l’alba di un giorno più lontano da quel suo strazio.
- Bevi un altro sorso di questo… - disse lui porgendogli il calice. Lei bevve. - E adesso andiamo via, andiamo a fare due passi. - Le prese il braccio forse la sorreggeva nei suoi passi incerti, ma fuori da quella taverna, sotto una tiepida notte, i passi di S. diventavano sempre più saldi, e il tambureggiare delle orme sulla strada, lasciava lentamente spazio ad una carezza dei passi sul cammino.
Camminavano in silenzio, nessuno dei due parlava.
S. avrebbe voluto raccontargli tutto della sua vita, ora che si sentiva al sicuro, voleva che quel sentirsi a casa che assaggiava passo dopo passo potesse riempirsi di lei, potesse essere un accogliente giaciglio dove poter entrare e sistemare tutto per la comodità del proprio sguardo e per il calore del proprio abbraccio.
Ma lasciava quelle fantasiose creazioni soltanto per sé, le covava in silenzio assorbendo il mite ristoro nella sua intensità. Sarebbe rimasta in piedi per tutta la notte, sospesa tra tutte quelle cose che avrebbe potuto essere e che comunque sapeva che non sarebbe mai stata, tra tutte quelle promesse ritrovate incomplete, come lettere interrotte a metà sulla propria scrivania che prima di apprendere il destinatario dimenticano in fretta il nome del mittente.
In quell’ultimo sorso che R. gli aveva offerto sembrava aver dissuaso ogni pressione, relegando ogni ricordo ad un bagaglio di falsa sicurezza di cui non sentiva aver bisogno. Non abbisognava più delle sue incertezze per completarsi ai suoi stessi occhi. Nella mano di R. che gli teneva il braccio sembrava assorbire il coraggio per mandar via tutte le forme di vita nelle quali lei s’era incarnata in passato, e che abusavano di vani troppo spesso ampi nella sua coscienza. Come maschere di cui sentiva di volersi liberare e che ricacciava nell’oblio.
Camminavano, e si ritrovarono presto nel viale lungo il quale tanto tempo addietro s’era intrecciato il cammino di entrambi. La ringhiera dava a quella strada l’impressione di scorrere come un infinito balcone aperto sulla valle e sulla notte.
Il prof. R. le lasciò il braccio e si avviò verso la ringhiera.
S. rimase indietro e lo guardava di spalle, mentre questi alzava la testa al cielo. S. lo raggiunse e si appoggiò al parapetto. La non ripida scarpata sotto i loro sguardi si lasciava ingoiare dal buio della notte, oltre qualche albero e qualche cespuglio la nuda roccia della montagna spariva ai loro piedi. Il prof. R. mostrò ad S. come ad ovest le stelle d’estate erano già tramontate, e come l’oriente avesse già terminato la gestazione delle gemme invernali. Nell’arco di un giorno, se il sole si fosse spento, si sarebbero potute vedere le stelle di un intero anno. Non si sarebbe dovuto attendere un intero giro del mondo intorno al sole per ritrovarsi al centro della propria porzione di cielo, il sorriso di un’occasione che si pensava perduta, la sensazione che ogni giorno si sarebbe potuti giungere puntuali all’appuntamenti con la propria vita, e che quel che era sembrato un secolo, avrebbe richiesto soltanto un attimo. Bastava che si spegnesse per un attimo il sole.
- Ma senza il sole non ci sarebbe la vita - disse S. che ponendosi dinanzi a R. posò le sue mani su quelle di lui, infilate nelle tasche dei suoi pantaloni.
R. la guardava, e pur non avvicinandosi ulteriormente le accarezzò il collo col dorso della mano.
- il sole… - disse quasi sussurrando - … ci sono raggi di sole che non si spengono all’ombra, restano lì dove si sono posati. - Continuando dolcemente ad accarezzarle il collo.
S. sollevò il suo sguardo, R. aveva gli occhi chiusi e le labbra appoggiate in un accenno di sorriso non voluto. E senza nemmeno rendersene conto, prendendo la mano che la stava accarezzando salì sulle punte dei piedi e lo baciò provando ad abbracciarlo.
R. rimase immobile, aprì gli occhi e non si smosse.
Seguiva i movimenti delle labbra di S. senza però infondere nulla di sé. Sembrava non voler rivelare nulla nemmeno con lievi e incomprensibili fughe dell’anima.
S. si staccò senza rancore, capì che non c’era nulla da fare, non ne comprendeva la ragione, non ne coglieva il senso, ma quel suo sentirsi a casa contribuì affinché si rese conto che il mondo intero non ce l’avrebbe fatta contro di lui.
R. era semplicemente così.
- Non mi sono mai accorto dell’importanza del sole, prima che illuminasse qualcosa di meraviglioso - disse R., riprendendo ad accarezzarle il collo.
S. si allontanò questa volta.
- Tu non sei capace di amare. - Gli disse senza guardarlo. - Eppure le tue labbra non sono così aride e fredde. -
- Non sono mai stato educato all’amore, non lo conosco. C’è troppa luce ed io non riesco a guardare oltre questa ringhiera se c’è la luce. Al buio non si vede nulla, e non mi importa. Ma se adesso fosse giorno io non sarei capace a stare davanti a questo panorama senza farmi tremare le gambe e la schiena. Se tu non ci fossi, e se non ci fosse il mondo, io potrei appendermi su una staccionata ai margini di un abisso, non mi importerebbe nulla. Non avrei paura. Ma se tu venissi accanto a me, sull’orlo, io non ci riuscirei più a sopportare la mia presenza. Perché avrei troppa paura per te, le mie mani tremerebbero al pensiero di vederti sospesa, non avrebbero la forza di afferrarti e tenerti al riparo da un passo fuorviante. E così cambierebbe tutto, io non sarei più io, tu ne andresti via da sola. Non posso darti quello di cui tu hai bisogno. -
- Tu pensi di saper tutto… No, non importa. Che cosa c’è che ti priva di vivere nella normalità? –
- Questa normalità non mi appartiene, io non dovrei nemmeno esserci… Addio S. - Disse impugnando la rigida custodia della chitarra che aveva appoggiato alla ringhiera.
- Parti? -
- Non tornerò, stavolta. - R. si girò verso di lei, che nel frattempo aveva fatto qualche passo allontanandosi. Lei era ferma con lo sguardo chino, stretta nelle braccia. Poteva sentir freddo, ma probabilmente non avrebbe potuto cingerla col suo calore. Non avrebbe potuto violentare ancora di più la sua delusione. Però le si avvicinò e sfiorandole la mano, la baciò sul collo, laddove sentiva ancora premere un raggio di sole sulla pelle soffice di lei.
E senza un cenno, si avviò dandole le spalle. S. lo guardava sparire. Si fermò davanti ad un cestino per i rifiuti, trasse fuori il suo libricino nero, e dopo averlo rigirato tra le mani per pochi secondi, lo gettò nel cestino vuoto. E lei non lo rivide mai più.
Andando verso casa S. passò davanti al cestino. Vi guardò dentro e vide il taccuino semi aperto. Lo prese. Lo aprì. Non c’era scritto nulla su nessuna pagina.
Eppure era il libricino su cui aveva visto sempre R. appuntare qualcosa, fare dei segni. Scorse le pagine voracemente alla ricerca di una risposta e giunse ad un’unica pagina piena di segni. Era piena di scarabocchi incomprensibili, segni nervosi senza alcuna razionalità, tutti in quell’unica pagina. Tutti con penna o matita scura. Non c’era alcuna parola, tranne una data, scritta con una penna rossa.
Ripose quel libricino nella sua borsa, era un oggetto dal quale non avrebbe voluto mai liberarsi, un ricordo che forse l’avrebbe protetta, perché nel corso dell’esistenza nulla sarebbe potuto mai sembrare scontato.
Dopo qualche giorno in città riaprirono le scuole, e la vita riacquistò il suo andamento solito e prevedibile.
S. era lì, puntuale al suo posto, come un’immanente pedina del destino, solo un po’ più consapevole. Mentre guardava il calendario delle lezioni vide il vecchio segretario sistemare alcuni documenti e volle dargli una mano. Improvvisamente un foglio cadde fuori da un fascicolo che recava la data dell’anno scolastico precedente. S. si chinò e vide che il foglio era una notifica di trasferimento a carico del prof. R. Il documento portava un luogo di nascita, il nome di un paese che S. non riuscì a fare a meno di ricordare.
Terminate le sue ore, S. tornò a casa. L’autunno conservava ancora troppo dell’indolenza estiva, e si sdraiò sul letto stanca e con un forte mal di testa. Ad un certo punto il nome di quel paese cominciava a pullulare nella sua mente, prese il vecchio taccuino e con una penna rossa scrisse il nome del paese nella stessa pagina dove vi erano i ghirigori e la data, quasi per scaricare su quella pagina il pensiero che le impediva di riposare.
Ma più che un pensiero, quello cominciava a sembrare un richiamo. Guardava la pagina con la data scritta ed il paese di origine di R. Se quella data era scritta lì avrebbe potuto avere un significato.
Accese il computer per fare provare a cercare una conferma alla sua supposizione, digitò la data e il nome del paese, ma non trovava nulla. Scorreva le pagine senza esito, quando ad un certo momento il suo pigro sguardo scemante fu colpito e cominciò a leggere un vecchio articolo di un giornale di quel paese.
Man mano che leggeva un senso di angoscia iniziò a colpirla. Lesse della triste sorte di un’intera famiglia, padre, madre, un figlio di cinque anni ed una piccola di due anni.
Padre impiegato, madre casalinga, una famiglia abbastanza conosciuta in un paese di pochi abitanti, un centro urbano sconvolto dal dolore. Il figlio era nato con una malformazione non gravissima, un problema al cuore che avrebbe però impedito al ragazzo di vivere una vita normale e che avrebbe potuto avere delle complicazioni in futuro. Dopo diversi tentativi i medici consigliarono alla famiglia che il piccolo fosse operato, se avessero rimediato presto, il problema sarebbe stato rimosso definitivamente. La famiglia intera fu così costretta a partire per raggiungere il centro ospedaliero presso il quale il bambino sarebbe stato sottoposto all’intervento.
S. proseguì a leggere.
Il tragico bilancio parla di una famiglia distrutta, tre morti, tutti e tre occupanti la prima carrozza, il padre, la madre e la piccola di due anni. Tra i feriti, c’è anche il piccolo sopravvissuto.
Il bambino, portato immediatamente in ospedale in stato di shock sarà presto operato per una malformazione all’atrio sinistro del cuore. La sua famiglia era partita per lui, per consentirgli di essere operato. Questo rende ancora più drammatico il caso di questo terribile incidente, ora che il bambino di cinque anni di nome R., apprenderà della tragica scomparsa della sua famiglia…