venerdì 29 febbraio 2008

La trasparente reticenza del prof. R. (parte III)


Una lenta dimenticanza



S. provò a cercarlo con lo sguardo il giorno seguente al loro incontro, ma non lo vide.
Trascorsero diversi giorni senza che succedesse nulla. Come se qualche evento appena trascorso, oppure qualche giorno ancora indugiante dietro l’angolo potesse sbirciare il suo occhio sul presente. R. era ritornato invisibile, inaccessibile, lontano, come se nulla fosse mai successo, oppure come se tutto fosse ricominciato da capo.
Ma non si trattava della sua capacità di far passare la sua presenza sotto silenzio, questa volta passarono diverse settimane intere senza che di R. si ebbe alcuna traccia.
A scuola avevano nominato un supplente ed S. aveva difficoltà a chiedere in giro cosa fosse successo, il perché di quella lunga assenza dal lavoro, anche perché provava un certo disagio nel chiedere e manifestare un interesse che avrebbe potuto destare qualche perplessità. Le capitò così per puro caso di sentire il nuovo supplente scambiare qualche parola con un impiegato e da questi apprese che il prof. R. era in aspettativa.

Non appena capì la natura di quella repentina assenza, restò vagamente sorpresa. Se ne era andato senza un saluto, senza un cenno, in fondo l'essere riuscita strappargli qualche dialogo aveva riempita moderatamente di soddisfazione.
Per questo però avvertiva di aver maturato un particolare diritto a sapere qualcosa in più, almeno per rendere grazia alla inusuale curiosità che quello strano individuo aveva suscitato in lei.
Pensandoci qualche minuto davanti alla sua tazza di cioccolata calda, ritenne però che quella improvvisa scomparsa era perfettamente coerente con le caratteristiche bizzare che aveva imparato ad osservare nel prof. R. Per questo si sentì un po' sollevata da una'incomprensibile sensazione d'offesa e sgarbo che per un attimo aveva creduto di provare.
Si strinse nelle spalle e tornò al suo lavoro in quella mattina chiara e soleggiata.
Il trascorrere dei giorni aveva sedimentato pensieri che drenavano la sua distratta contemplazione verso quella figura inaccessibile con sempre minore frequenza, una lenta dimenticanza che si scioglieva nei giorni.
S. non seppe mai se fu un caso, o se fu uno scherzo della sorte, e pur ripensandoci a lungo alla luce di quello che le sarebbe sucessivamente accaduto, non seppe mai darsi una risposta precisa. Una mattina a scuola, mentre indugiava nella sala professori a completare il suo registro, le parve che una strana sagoma molto alta avesse attraversato il corridoio dinanzi a lei. Non fece in tempo a catturare l'immagine nel suo sguardo che questa era già sparita, e raggiunta celermente la soglia s'accorse che il corridoio era deserto. Lasciò le carte del suo mestiere disordinatamente sulla scrivania dove era stata intenta fino a quel momento, raccolse la sua borsa, e nel prenderla le sembrò di vedere l'impronta di un calcione ed i contorni di un ricordo.
Non c'era molta gente in giro, in uno dei tanti meriggi che cominciava ad assolare le strade e a smorzare gli intenti.


Giunta davanti alla macchinetta del caffè, S., guardandosi intorno, vi inserì nervosamente le monete, l'ultima di questa le cadde maldestramente a terra. Mentre si piegava a raccoglierla le sembrò di udire un passo familiare, lento e silenzioso. Allungò la schiena ed il collo per scrutare eventuali presenze e s'accorse che qualcuno effettivamente c'era. Prese il suo caffè rapidamente, e bevendolo si avviò verso la sala professori. Vi entrò. Scorse tra il bicchiere di plastica e la mano che lo reggeva, una figura. Ebbe un sussulto.
Era solamente il preside.
Pensò che per quel pomeriggio ne aveva avuto abbastanza. Raccolse le sue cose e andò via.
Mentre si avviava verso la sua macchina le squillò il telefono, aprì lo sportello, gettò confusamente la sua roba, e rispose.
"Ecco un fantasma che torna a farsi vivo", pensò, salutando un vecchio conoscente che non sentiva da tanto tempo. Un sorriso si spalancò sul suo viso. Per tanto tempo aveva sperato di ricevere quella chiamata da quella persona. E mentre ogni singolo pensiero e ogni lieta fantasia si dirottava improvvisamnte verso colui che la stava cordialmente invitando a riincontrarsi dopo qualche anno di lontananza, ogni minimo guizzo della memoria che per un attimo la stava confondendo in segnali che accendevano l'immagine di R. nella sua mente, si spegneva inesorabilmente lasciando tutto il suo cielo a disposizione di quell'inatteso incontro, così tanto sospirato...




Continua...



mercoledì 27 febbraio 2008

Un uomo, un perché



Ce ne sono tanti di avanzi di cabaret (ovunque, non vorrei essere giustamente accusato di essere parziale, pur essendolo abbondantemente ed orgogliosamente), ma pochi riescono a farmi andare di traverso il brodino come quest'uomo. Sempre lì, fido e costante alle spalle del padrone. Lo avvolge con la sua presenza, appiccicato col veltro alle spalle del boss, a farsi venire la gobba come il dromedario di Alì Babà. E' il verbo pubblicitario incarnato nel seno di sua madre e fattosi persona per annunciare a noi tutti i suoi formidabili  mega-spottoni deliziosi.
E' sciaguratamente meraviglioso ascoltare questo oracolo formulare frasette così caruccie, così teneramente concepite: soggetto, predicato, complemento oggetto, basta davvero poco per confezionare cazzate facilmente fruibili dai 0 ai 95 anni, per chi ci arriva... Pietre miliari della comunicazioni politica come: "Veltroni si presenta come il nuovo: ma chi ci crede?", oppure: "Il PD tarocca il programma del PdL come fanno i cinesi". Cioè, dico, ma ci vuole un Master in Idiozia per dire queste cose? Se è così io voglio seguire questi corsi, prendere l'attestato, in fondo se si divulgano dichiarazioni di così elevato e pregnante livello intellettivo, io voglio ottenere gli stessi risultati di auditel con la gente. Cioè, io mi sono stancato di fare discorsi aulici dove spiego cose complicate, magari attingendo a parabole per esemplificarne il contenuto (parabole non nel senso di antenne, si badi bene), e poi arriva quatto quatto il publi-man di turno improfumato alla vaniglia che spara quelle 2/3  battute alla mulino bianco e magari acchiappa pure di più con le ragazze. A parte me, che al massimo profumo d'oppio (e non l'oppio dei popoli, di cui la mia anima fa a meno), questo non depone a favore del gentil sesso, e no, my darling proprio non ci siamo...
Ma se è così che va il mondo e questi fottono, io me ne fotto dei premi nobel per la matematica, l'economia, la pace e la letteratura, e fotti tu che fotto pure io, comincio a sparare cazzatelle pure io! Ché qua parliamo di ideali o al massimo di soldi, ma i veri rimpianti hanno tutto un altro sapore...
Intanto, questo mitico faccione da panettone con l'uvetta è l'unico di cui non vorrei mai mi si privasse, perché è moderatamente fesso, o così ha accettato di apparire al volgo, magari confidando di sembrare meno lecchino di Bondi, ad esempio. Perché con un Bondi in libera circolazione, ma chi vuoi che si accorga della carenza (nel senso di deficienza) di questi altri pittoreschi cucciolotti da compagnia che ciucciano alla mammella di Arcore... Assurdo.
Ieri nello sconforto ingeneratosi dal constatare come il mondo italico si sia fermato per consentire la libera fruizione di Sanremo a chi ancora ha deciso di non ricorrere all'acido lisergico per farsi del male, mi sono per un attimo seduto al divano nel tinello, sperando che, a chi per anzianità spetta il diritto di telecomando sulla tv, venisse in mente che magari poteva arrecare meno nocumento alle meningi ascoltare D'Alema a Ballarò, anziché Little Tony (che pure non mi dispiace ad essere sincero). Invece no, la gerontocrazia ha prevalso ancora nonostante voteremo tutti convintamente PD. E fu così che mi imbattei in uno strano ballo eseguito dalla valletta mora che, da mia conterranea con amor di patria, ha ballato la pizzica salentina su una strana musica siciliana spacciandola per appula.
E fu così che ho capito il perché di tante cose, anche della presenza di Bonaiuti sulla faccia della terra. Ed ho sorriso, perché come insegna il maestro Luigi Pirandello, dinanzi al dramma non si ride, ma si sorride, un sorriso di compassione per questa maldestra esistenza.
Stamattina ho rivisto Ballarò grazie al fatto che a casa mia saranno pure gerontocratici, ma son mica scemi. Il videoregistratore serve a qualcosa, almeno si concede alle donne di casa di vedersi senza lagna il Pippo Baudo, senza poi farsi assalire dallo scrupolo di essere stati troppo indulgenti nei loro confronti.
Non c'era solo D'Alema a Ballarò, c'era anche Pierferdy, e c'era Formigoni, quello che per un pelo non è diventato il mio presidente della regione... l'ho scampata. Nichi, non dico di essere fiero di te sennò qua mi prendono per ricchione, e con tutto il rispetto, son contento del mio status. Anche perché se la vogliamo dire tutta, di cavolate ne stai facendo parecchie anche tu... ma almeno sei onesto, e non è un dato da sottovalutare questo oggiggiorno, sei di una specie da proteggere.
E poi c'è solo un uomo a cui potrei promettere il mio amore incondizionato... perché è un mito, questo esempio di maschio italico alla deriva intellettiva. Costui è la soluzione dell'enigma che attanaglia tutti gli esseri pensanti scampati all'estinzione nel bel paese, ovvero: ma come si fa a considerare un inquilino della casa del Grande Fratello un "artista"?
Se Bonaiuti c'è allora vuol dire che nulla è davvero assurdo. Nemmeno quella cacchina televisiva che ha fregato il nome all'imperatore di "In hoc signo vinces", e che fa venire il prurito inquinale a esseri portatori di cervelli liquefatti... ed io sorrido.








Perché è triste dirlo ma sembra vero che le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste... Ne ho conosciute tante, erano tutte come noi. Facevano le nostre domande... E con noi, il mondo diventa più fantasioso, più colorato... Ma non cambia mai!

martedì 26 febbraio 2008

How are you, Alcor?



Tutto bene, grazie, sono solo un po' teso...



"...Tesoro, luce della mia vita, non ti farò niente. Solo che devi lasciarmi stare. Ho detto che non ti farò niente. Soltanto quella testa te la spacco in due! Quella tua testolina te la faccio a pezzi!..."


lunedì 25 febbraio 2008

La trasparente reticenza del prof. R. (parte II)

Un così giorno perfetto



Il Prof. R. osservava la sua ombra allungarsi ai piedi di S., vedeva gli occhi di lei sottrarsi alla luce nelle palpebre strizzate e semichiuse che sembravano ulteriormente allungarle le ciglia. Quel volto avrebbe reso un’effigie al sorriso con qualsiasi frammento della pelle, con qualsiasi barlume di viso percepibile in un istante sfiorato con gli occhi da un distratto viandante. Qualunque ricordo dell’espressione di S. sarebbe stato un inganno, se non avesse ridisegnato nell’idea quel suo sorriso, al di là di ogni reale lieta posa delle sue labbra.   
- So chi è lei, professoressa - la interruppe il professore distogliendo via l’auricolare dall’orecchio destro. E le porse la mano.
- Oddio! Non l’avevo proprio riconosciuta! Che figura, professore... -
- Non si preoccupi, signorina S. - Le disse mentre fissava ancora quel suo candido collo bagnato dal sole.
Lei gli sorrise. Il prof. R. accennò a sorriderle a sua volta. E seguitarono insieme in quel tragitto che entrambi conoscevano.
Si sedettero al tavolino del chiosco nei pressi della scuola, S. ordinò la sua abituale cioccolata calda, il prof. R. prese uno strano intruglio composto da tre bevande alcoliche, cremose e dolciastre, rigorosamente molto ben riscaldato.
- Beve spesso quella specie di miscela fumante, o le piace anche altro? - Domandò lei.
- Mi piace molto anche la Sangria. La preferisco con i chiodi di garofano. Ma è ancora presto per le arance. -
- Se vuole ci sono le arance tutto l’anno… -  Disse lei con il cucchiaio di cioccolata ancora poggiato sul suo labbro inferiore.
- Sa che le arance sono un ottimo rimedio per l’influenza? Da bambino a novembre cominciava a prendermi il raffreddore e mi dicevano che dovevo mangiare tante arance, a novembre. -
- Lei di dov’è prof. R.? Non ha un accento riconoscibile… -
- Un posto dove a novembre maturano le arance. - Tagliò corto con uno sguardo alla sua destra il prof. R.
Ascoltava con interesse quanto S. gli raccontava di sé. Tuttavia lei parlava con discrezione, accennando e tentennando tra l’attesa di qualche domanda di curioso interesse da parte del prof. R., e una certa diffidenza nei confronti dell’attenzione di questi a non andare oltre i naturali canoni di una cordiale conversazione che servisse soltanto a riempire il tempo necessario a non mancare di cortesia a chi vi si trovava lì. S. notava però che di tanto in tanto il prof. R. tirava fuori la sua agendina, su cui prese da subito a puntellare alcune pagine con lesta riservatezza. Rispondeva celermente alla conversazione con la signorina S., eppure, senza dissociarsi un attimo dal loro chiacchierare riusciva a dedicare degli attimi alla sua penna e al suo piccolo libricino nero.
S. amava molto parlare anche del nulla, ritenendo che magari un fondo di logica si potesse trovare ovunque. Si rischiarava sovente lo sguardo con la mano, piegando una ciocca della sua frangia vacillante davanti agli occhi. Talvolta prestava attenzione a ciò che ascoltava stringendo le labbra forse per poi prepararsi meglio a sorridere, o forse era soltanto ciò che avrebbe desiderato un qualunque interlocutore che le sarebbe capitato dinanzi, smarrito nella confusione di dover starle dietro nei discorsi, o fermarsi a contemplarle il sorriso sbocciare da quelle labbra strette dal dubbio e poi dischiuse come una rosa rossa ai bisbigli di maggio.
E lui la fissava invece senza essere minimamente coinvolto dalla sua bellezza.
Alcuni che passavano di là vedevano il prof. R. seduto ad un tavolo con una donna, una collega, e non riuscivano a contenere malcelate reazioni di ilarità.
- Lei non si fa vedere molto in giro… professore. -
- Lo so. - 
Attraverso quegli occhiali scuri S. non riusciva a individuare la direzione delle pupille di R., non avrebbe mai potuto indovinare che esse erano rimaste immobili, immutate, poste su un punto fin dal primissimo istante, il suo sguardo si era posato lì e non s’era schiodato.
- È un po’ colpa sua se non l’avevo nemmeno riconosciuta, prima. -
- Sì, è vero… come si trova ad insegnare qui, signorina S.?-
- Potremmo anche darci del tu, che ne pensi? In fondo dovremmo essere anche colleghi… -
- Va bene… -    
- Il francese si insegna facilmente, ed i ragazzi sembrano svegli... - Rispose S.
Il prof. R. non aggiunse altro, piegò il capo alla sua destra, senza tuttavia distogliere il suo sguardo.
- E tu? Sei contento di stare qui? Cosa fai fuori dalla scuola, lezioni? -
Il professore scrisse una parola sul suo libricino e non rispose. Tuttavia emise un sorrisino tenue che faceva capire come comunque avesse trovato nella sua vita un delicato equilibrio e seppure non poteva definirsi felice, di certo non pativa. E i suoi giorni migravano dalla malinconia alla serenità come la nebbia calava o si sfaldava davanti al mattino, senza un perché, soltanto quieta ad un gioco di combinazioni di calore e direzione del vento.
- Ma vivi solo? - domandava lei.
- Vivo… con tante cose che avrei voluto lasciarmi indietro, ma spesso non c’è posto. -
- Ah... Ma, dicevo, vivi solo? -
- No -
- E chi c’è a casa con te? -
- Nessuno. Tu vivi sola? -
- Con mia sorella. -
Seduti per un paio d’ore a quel tavolino, parlarono a lungo ed il prof. R. riuscì a non dire nulla di sé. Le nuvole avevano di nuovo riavvolto il cielo. S. ebbe un brivido che s’accompagnò ad uno sguardo furtivo verso le scure lenti di lui, e mentre stringeva nel suo cappotto coprendosi il collo con la sciarpa verde, non s’accorse che in quel preciso momento aveva del tutto spento l’attenzione di R..
- Tra un po’ piove, perché hai ancora gli occhiali scuri? Il sole non c’è più! -
- Sì, il sole s’è appena coperto. - Disse richiudendo il suo libricino e riponendolo in tasca.
- Vuoi un passaggio? Dove devi andare? -
- No, vado a piedi. Grazie di tutto. -
- Grazie a te, R. Allora… ci vediamo presto. -


Salutò S. con un cenno della mano e le pupille rivolte alle montagne, voltandosi, scomparve dopo pochi passi.
Quella mattina però non fu l’unica. Si incontrarono il giorno dopo a scuola. S. non s’era mai soffermata sulla presenza pressoché anonima di R. in quell’istituto. Si accorse in quei giorni quanto fosse accorta la sua capacità di sembrare invisibile. Salutava lentamente le persone senza guardarle, non diceva nulla che non fosse scontato, già detto, inutile. Eppure era sempre lì il prof. R. Sempre presente ma invisibile. Riusciva a mimetizzarsi con le pareti bianche, confondersi tra i banchi scompostamente disseminati nei corridoi, tra gli armadi e le cattedre, nelle lavagne macchiate da polvere di gesso, nelle formule che i suoi alunni vi scrivevano.
Non dava cenni di cedimento dalla normalità, la sua prevedibilità era una mantella trasparente che lo rendeva insignificante all’attenzione di tutti. Faceva le sue cose, quello che andava fatto e poi spariva. S. stava imparando ad esaminarlo, ma non riusciva conoscerlo. Scambiavano delle parole di tanto in tanto ma lui non diceva mai nulla. Riservato come il portone di un vecchio maniero settecentesco con l’edera radicata sulle giunture. Non s’apriva. Non si capiva che cosa si celasse dietro quegli occhiali scuri, che cosa mai ascoltasse in quegli auricolari che non lasciavano scappare via nemmeno un suono per sbaglio. Era inaccessibile. E scriveva, appuntava, annotava, a volte semplicemente guardava.
E tutto questo col passare del tempo spingeva S., contro la sua stessa volontà, a non lasciarlo in pace con gli occhi, e con la mente. Lei era moderatamente curiosa, era gioviale, allegra. Aveva sempre tante attenzioni addosso, tante tranne una. Quella che le si posava soltanto quando le capitava di fare irruzione nella calma marmorea e serafica del prof. R.
Una volta, dopo qualche settimana capitò improvvisamente che R. invitò S. a fare una passeggiata di pomeriggio in pineta.  Glielo chiese in maniera fulminea, come se glielo stesse meramente notificando, senza darle il tempo di pensare e capire altro che fosse diverso da un bisillabo di rifiuto o gradimento. E lei, non senza pentirsi per poi ripensarci subito dopo, spiazzata, accettò.


Camminavano addentro all’autunno e lei lo guardava finalmente aprirsi in storie e racconti di vite non sue, perdersi in discorsi sugli alberi e sugli uccelli, sulla minuziosa descrizione delle abitudini bizzarre di alcune piante e di fiori; intensamente coinvolto sui ricordi che sembravano dettargli quelle nozioni e conoscenze su qualsiasi cosa si posasse il loro sguardo. Non aveva gli auricolari, sembrava non avere neanche la sua così strana agendina. Ad un certo punto giunsero ad una panchina di pietra dinanzi ad uno stagno, dove la pineta saliva su un dosso aperto al tramonto.
- Aspettami qui… - disse lui -  …torno subito. -
Lei cominciò a pensare che le reticenti resistenze di costui non erano così insormontabili, cominciava a pensare che fosse davvero una creatura senza origini, un emblema del presente che non fosse conseguenza di alcun passato, e non fosse causa di alcun futuro. Egli sembrava vivere l’attimo… era come un fossato con il ponte levatoio sempre calato, ma una volta giunti entro le mura, il castello non c’era.
Tornò dopo qualche minuto dal punto in cui era scomparso dallo sguardo silenzioso di S. che l’aveva visto allontanarsi. Reggeva due coppette.
- Prendi - le disse porgendole una di queste.
- Ma è Sangria! - Esclamò lei sorpresa.
- È novembre, ci sono le arance. -
Seduti a quella panchina, il tramonto cominciava a spianare i pastelli caldi con cui si tinteggiava il cielo.
- Vieni spesso qui? - Chiese lei.
- Sì, mi piace passeggiare qui, raccogliere le caduche foglie dei castagni sino al tramonto, fino a quando le voci dei passanti diventano sempre più rarefatte, fino a quando non fischia la sera nei meandri dei cespugli, fino a quel sottile momento in cui il silenzio non è ancora una preda del buio intenso che trasforma il mistero in timore… -
- Non sembri per niente un matematico! - lo interruppe bruscamente lei.
- Lo so... Sono un uomo, ed i giorni necessitano di una logica sempre dimostrabile per essere giudicati e accettati…  -
- Non capisco... - confusa mormorò S.
- Non fa niente - sorrise - Guarda lì, il sole che cala tra i cirri all’orizzonte. Hai l’impressione che il sole si muova se lo guardi all’alba o al tramonto, ignorando poi  per tutto il giorno la sua presenza nel cielo; almeno finché qualcosa di meraviglioso non venga scoperto dalle sua invisibili mani di luce. - E mentre diceva quelle parole, il prof. R toglieva via le scure lenti e increspava lo sguardo in direzione ovest, distendendo lentamente lo sguardo parallelamente al calare completo del sole.
- Chi sei tu? - esplose S. ed R. voltando i suoi occhi verso di lei le sorrise ancora.
- Sono solo alle prese con un involontario soggiorno. Si sta facendo buio, andiamo a casa. -


I cancelli della pineta sarebbero rimasti ancora aperti, S. abitava dopo qualche isolato ed R. la accompagnava guardando alle case senza mancare di commentare alcune forme strane di balcone, o qualche finestra senza parapetto che sembrava potersi perdere nel vuoto, tradendo una strana vertigine nel descrivervi l’inutilità di queste. Ammirava le guglie poste su alcuni vecchi frontoni e avanza ipotesi sul periodo di costruzione di quegli edifici, guardando poi al paesaggio montano, e cercando una logica difensiva alla collocazione di ogni cosa.
- Tutto sembra posto a protezione di qualcos’altro, ogni cosa è collocata per sentirsi al sicuro, guarda. - Ed indicava qualcosa agitando le braccia.
S. ascoltava, a volte interessata, a volte semplicemente colpita da quelle logiche che volevano ricomporre il mondo in un unico grande equilibrio.
- Ti piace il cinema, R.? Magari una sera potremmo andarci, magari, dopo un’altra passeggiata al parco come oggi. -
- Adesso... - disse lui. - Se puoi, non tradire l’ispirazione di questo momento che potrebbe non tornare. Andiamoci adesso. - Rispose con impeto R.
- Andiamo allora. - Disse lei sorridendo, indicando la strada per raggiungere la piccola cineteca di provincia all’imbocco del viale.


Dopo il film, dopo i commenti a cui R. non sembrava ben disposto pur facendo trapelare una certa soddisfazione, erano davanti al portone della casa di S.
-
Eccoci qua, io sono arrivata. Se vuoi prendo la macchina e ti accompagno… - Propose lei.
-
No S., non preoccuparti, è così trasparente questa notte, non vorrei mai negarmi questo canto notturno, come un pastore errante… -
-
Leopardi… - disse lei.
-
Sì, proprio lui, anche in una notte senza luna come questa che cancella i pensieri. -
-
Grazie di tutto R., sono stata bene oggi. Spensierata, tranquilla, grazie… - disse lei abbassando lo sguardo dinanzi a chi la fissava diretto e quasi imperterrito. R. non sembrava voler rispondere, alzando lievemente gli occhi al cielo sembrò sorridere dopo qualche timido istante.
-
A volte capitano giorni in cui si riesce a dimenticare tutto quello che circonda la vita di un singolo istante, si dimentica persino chi siamo, si ha come la sensazione di sentirsi qualcos’altro, qualcosa di buono, sono così i giorni perfetti. A presto… -
E sfiorandole dolcemente le dita della mano sinistra come fosse un saluto, come fosse anche un tentativo di allungare quel giorno perfetto, si voltò verso il viale con un cenno del viso, e con la brezza che gli scompigliava i capelli, strinse le spalle intorno a quella notte, lasciando lei a seguirlo con lo sguardo finché non diventava un puntino flebile e lontano. Lo guardava finché non scomparve, sentendo scivolare i brividi di quella sera lungo le braccia, raccogliendo tutti i piccoli attimi di quell’incontro, percependo quasi che la sua vita si strofinasse su questi per assaporarli fino a fondo. Fintanto che non sparì del tutto quella stella nera sotto i lampioni  tersi della notte umida, canticchiando a labbra semischiuse un motivetto docile che preservasse quel giorno perfetto.





Continua...

 


venerdì 22 febbraio 2008

La trasparente reticenza del prof. R. (parte I)

















Il prof. R. aveva capelli nerissimi tra i quali la luna avrebbe confuso il suo alveolo dissipando le notti in un cielo sbagliato.
Il prof. R. amava camminare a piedi ad orari inconsueti, e non curava affatto gli sguardi che soventemente lo colpivano senza essere corrisposti di ogni minima attenzione. Era comparso involontariamente in quel piccolo paese di collina e lì trascorreva il suo tempo impartendo silenziose lezioni di matematica. Aveva un piccolo libricino nero dai contorni consumati e dalla copertina in cuoio che ogni tanto traeva fuori per appuntare velocissimi segni, come se volesse  soltanto ritoccare qualche singola virgola o scegliere la giusta parola per un pensiero che avesse la possibilità di aggiornarsi e mai sfiorire, sin dal suo primo concepimento.
S. insegnava nella stessa scuola. Un po' disordinata e confusa, aveva lisci capelli scuri ed una sciarpa verde che le cingeva il collo e che si perdeva alle sue spalle. Amava spendere le ore tra una lezione e l'altra a parlare con i suoi studenti, o con qualche collega, seduta al tavolino rotondo del chiosco appena fuori il cortile della scuola. A lei piaceva sedersi lì perché riteneva che vi servissero la migliore cioccolata calda del paese, anche se talvolta le capitava di sedersi ad una seggiola con le gambe leggermente arrugginite; nessun comodo ed elegante caffè del centro avrebbe mai compensato il gusto di quella cioccolata che le piaceva trattenere il più a lungo possibile ad accarezzarle la lingua prima che quella dolcezza le scivolasse via giù sino alla profondità di un godimento a cui non avrebbe mai rinunciato. S. era terribilmente sbadata.
Il prof. R. acquistava due quotidiani ed un settimanale londinese che veniva fatto recapitare a quel giornalaio esclusivamente per lui ad un prezzo superiore, avrebbe potuto trovarne delle semplici copie all'edicola della stazione ad un prezzo normale. Ma a lui la stazione non piaceva, e ne stava ossessionatamente alla larga.
Lo si sarebbe ritenuto una persona silenziosa e schiva. Parlava talmente poco che nessuno pareva ricordarsi con precisione il timbro della sua voce. Nelle varie riunioni a cui prendeva sempre parte si esprimeva a bisillabi e misurava i suoi interventi dosando parole e toni di modo da non poter imprimere in alcun modo un ricordo sostanziale della sua presenza, al di là di ciò che di documentabile riportava la sua firma. Se non vi fosse questa burocratica testimonianza della sua presenza, qualcuno avrebbe potuto mettere in discussione la sua stessa esistenza. E se non fosse anche per qualche invadente curiosità che aleggiava in pochi, intorno alla strana figura di quel giovane professore dai capelli leggermente lunghi che gli coprivano la fronte e ne dimezzavano lo sguardo, che passeggiava con le mani in tasca e le braccia strette nel suo cappotto nero sfiancato dal cui bavero alzato spuntavano due auricolari ai lati del collo, confusi tra i capelli. A volume bassissimo non si percepiva che cosa ascoltasse.
Una mattina stava appuntando qualcosa sulla sua agendina, e sembrava che stesse registrando qualcosa di davvero importante perché vi impiegava qualche istante in più. Era un brumoso mattino d'ottobre ed i contorni non erano così rigidi in quel viale. Il prof. R. tossiva ed una sciarpa bianca gli cingeva la gola. All’improvviso vedeva nella nebbia un’ombra indistinta che correva. Il professore aveva i consueti occhiali scuri e sbuffò violentemente e fastidiosamente all’idea che quell’ombra stesse correndo verso di lui… gli ricordava qualcosa, il frammento di un film già visto, un fotogramma di voci e ricordi tra cui stava già liquefando i suoi pensieri e distogliendo lo sguardo dalla realtà, mentre riappoggiava l’auricolare all’orecchio destro, che sentiva molle.
Si sentiva chiamare in quel pensiero ombroso che gli correva incontro… era lui, in quel mattino di un marzo svogliato, e c’era una voce di donna… l’agendina, doveva scrivervi su qualcosa…
C’era sì una voce di donna quella mattina, ma non chiamava lui, il professore. L’ombra che correva aveva due mani ed una di esse stringeva una borsa. La voce femminile urlava a quell’ombra di ragazzo di fermarsi. E quella voce inveiva da una figura di donna che correva all’inseguimento dell’ombra del ragazzo. Mentre il professore prendeva fin troppo tempo per capire l’ovvio di quello che era successo, quel ragazzo voltandosi non riuscì a frenare il suo impeto in fuga dinanzi alla sagoma che gli si era materializzata improvvisamente dinanzi, e rovinò maldestramente addosso al professore, macchiando di fango il suo cappotto nero. Il prof. R. bloccò il ladro di borsette afferrandolo dalla caviglia impedendogli di scappare ancora, e lo fece rialzare da terra non prima  d’avergli assestato un violento calcio nell’addome. Intervennero allora altre persone, ma il ragazzo impaurito riuscì comunque a scappare.
La donna aveva raggiunto affannosamente il professore che si guardava addosso gemendo mugugni di rabbia, senza minimamente accorgersi dei passi di colei che si approssimava ringraziandolo. Profondamente innervosito per il fango che aveva intorpidito il suo cappotto, con un gesto di stizza il prof. R. scalciò violentemente quella borsa marrone che si trovava ora ai suoi piedi, a causa della quale s’era scatenato quel casino.
- Ehi! Ma che fa? La mia borsa! – il prof. R. s’accorse di quella donna, e si rese conto di aver scalciato una borsa…
-
Ah… la borsa sì… - Riassestandosi il cervello. Raccolse la borsa dal muretto verso il quale era stata scaraventata, e spazzando via la polvere dal suo cappotto, la porse alla donna, senza sollevare il suo sguardo.
-
Cazzo! Il cellulare è in mille pezzi! - guardando torva l’alta sagoma scura che le si imponeva dinanzi.
-
… saranno state le scosse della corsa… oppure la caduta… - balbettava il prof. R.
-
… oppure quell’inutile calcione! – Disse lei sorridendo con gli occhi. - Non importa… se non fosse stato per lei non so se avrei recuperato nemmeno questo. Grazie… -
Il professore rispose con un lievissimo inchino e senza parlare. E si predispose al suo incedere, infilando gli auricolari al loro posto, salutando con un lieve cenno della mano.
-
Aspetti! Dove va? Venga con me, devo sdebitarmi… le posso offrire una cioccolata calda? -
-
Veramente io… -



Il prof. R. non era abituato a passeggiare in compagnia, di solito faceva volentieri due passi con qualche suo alunno, ma di rado lo si era visto in compagnia di qualcuno, men che mai in compagnia di una donna. Non poteva negarsi di provare un certo disagio. Sentiva che la donna parlava, diceva un sacco di cose, ma per lui tutto quello era solo un brusio che sottendeva al rumore dei suoi passi, alla musica che ascoltava. La donna parlava e a tratti sorrideva allargando la bocca. Il suo sguardo si piegava con difficoltà verso di lei, e tutte le volte incrociava quel sorriso. Il sole di metà mattinata spuntava dalle colline e apriva una breccia nella nebbia e lungo la strada, un contorno dorato prese a disegnare tutte le cose, e volgendosi verso di lei, notò rapito un incantevole contorno del suo collo avvolto da una sciarpa leggerissima e verde, così sfiorato e irradiato dai raggi del sole.
Si fermò a guardare quel velo di luce che lì vi aveva scorto. Non aveva ascoltato una sola parola di quello che quella donna aveva raccontato.
- Ma sa che io l’ho già vista da qualche parte? – aggrottando le ciglia incuriosite, disse lei. –
Solo che non mi ricordo dove… Ma che maleducata non mi sono neanche presentata! Permette? Mi chiamo S.





Continua...


giovedì 21 febbraio 2008

Reversibilità




Un palindromo. Reversibilità...
E mi viene in mente una battuta de La Stanza del Figlio, quando Giovanni è disperato per la morte di suo figlio, ed  immagina che questi, Andrea, quel maledetto giorno avesse potuto continuare a correre insieme a lui: "è proprio questo che voglio fare, tornare indietro", riagganciare la storia e invertirla, tenerlo ancora accanto a sé, anziché lasciarlo andare con i suoi amici in quell'immersione fatale in un mare in burrasca. Sì, proprio il mare in burrasca, lo stesso che segna dall'inizio il mutamento imprevisto nella vita di Pietro Paladini.
Mentre la moglie Lara moriva in un incidente, da sola, lui salvava la vita di una donna che stava per annegare in un mare agitato. Sua moglie moriva da sola, cadeva, sprofondava nel male e nella solitudine, di un amore estinto.  Pietro salvava una donna sconosciuta da un probabile tormento.
Un mare agitato, dove tentare un salvataggio è pericoloso, rischioso,  che richiede di scommettere qualcosa sulla propria sopravvivenza, esige il rischio che si sottende ad un pegno d'amore universale. Un universale per cui si è disposti a donare, a dispetto di un "personale" di cui in fondo non ci importa poi un granché. Se però ne La Stanza del Figlio il dolore è talmente intimo, talmente interno da minare solidi affetti, comunicabilità, da distogliere i protagonisti dal cercarsi, volersi stringere... qui il dolore ha una dimensione completamente ed esclusivamente sociale, pubblica, e pertanto pressoché apparente. Profonda soltanto nella misura in cui mette a nudo l'aridità nei propri sentimenti. L'amore a volte non è soltanto un vaso dorato che gremisce il senso della nostra vita, esso può trasformarsi in una diga perforata che, dopo aver segnato una profonda distanza, si svuota lasciando sotto il sole una vasca di cemento armato che riesce a riempirsi inutilmente di un vento che la irride e la sovrasta, con un balzo di vita che sembra del tutto inaccessibile alla rimpicciolita umanità.
La morte di Lara è una maschera che si sgretola. Di lei non si sa nulla, non se ne ricorda neppure il volto, si narra di un suo presunto dolore, di una sua insofferenza, di un forte squilibrio dovuto al non sentirsi amata. E Pietro tutto questo non lo sapeva, non voleva riconoscerlo, non sembrava riconoscere quasi nulla, e forse nemmeno gli importava fino in fondo. Sua moglie si scriveva mail con uno scrittore di favole per bambini. Che cosa c'era in quella corrispondenza? Quali clandestine parole legavano quei due? Non importa, non serve a niente, si cancella tutto. A che cosa sarebbe servito riempire un vuoto di assenza affettiva con un pallido sentore di rancore di una finta gelosia.
Quello che brucia non è il dolore della perdita, ma la pressoché totale calma dinanzi ad essa. Forse anche un senso di colpa per aver sottratto dai morsi della disperazione anche sua figlia, l'unica creatura verso la quale Pietro sembra davvero provare sentimenti veri. Perché non c'è amore più profondo che possa legare un genitore ad un figlio, è quello che Nanni ha sempre riconosciuto come unico, vero, ed insostituibile amore (La messa è finita).
Questa "maschera nuda" che vuole essere vicina a l'unico sentimento che riconosceva, per riappropriarsi dell'amore che non era riuscito a provare, lo porta ad estraniarsi dalla regolarità. Perché qui l'alienazione si produce attraverso un'immersione totale nel mondo esterno, un'immersione che consente la rinascita nella totale simbiosi con le cadenze del mondo esterno in cui egli raccoglie nient'altro che sè stesso. Quella panchina nel parco antistante la scuola è parte di lui, è lui. Come il susseguirsi del giorno e della notte, così lui è sempre lì, si immerge, si identifica, incarna un ruolo. Fa parte di un equilibrio. Svuotato da ogni sussulto, come un mare placido e calmo, si lascia inondare dai cataclismi altrui.
Ciascuno con i propri problemi, con i propri dolori provano dapprima a consolare uno sconforto ritenuto istituzionale forse, ma successivamente si trovano a volere riempire quella calma, a contemplarla. Andare lenti, far cadere gli occhi su ogni mossa, su tutti i dettagli che sfuggono impercettibili ma che determinano una complessità che si arricchisce di particolari. La confusione, il caos non consente di cogliere i minimi significati fondamentali che si mescolano e si perdono nel tutto indistinto; non manca proprio niente nel piatto di pasta coi broccoletti che Pietro e Jean-Claude mangiano al bar, ma per amalgamare tutti gli ingredienti in un unico sapore, la cuoca aveva aggiunto del pecorino. "Tu sei insicuro della riuscita, allora inserisci il pecorino, ma così non si sente il sapore dei broccoletti", per un attimo ho sentito parlare il Michele Apicella che inquadrava nel suo piccolo archivio le abitudini ed i comportamenti cercando di insinuare la sua attenzione nei pertugi dei piccoli gesti rivelatori delle più profonde debolezze umane (Bianca).
Pietro  vuole soltanto essere vicino al suo amore e a se stesso, riallacciando le file della propria memoria e della propria inconsistenza, elencando episodi, ricordi, intenzioni e proprositi; ma si lascia riempire dalle sofferenze e dalle agitazioni di coloro che si soffermano con lui su quella panchina, in quel parco, in quel bar, che si confrontano e si aprono con tutti i loro casini. Quasi si confessano dinanzi ad un mare calmo che non risponde, non dà consigli, ma infonde quel senso di immenso che costringe i diversi interlocutori a fare i conti con se stessi e ad individuare una strada un percorso. Proprio quello che non riesce a Don Giulio (La messa è finita), che invano si spende per gli altri provando a dare a ciascuno la giusta parola di conforto, trovando di volta in volta soltanto muri di incomunicabilità e indisponibilità al reciproco sostegno. Pietro è la coscienza severa che in silenzio, involontariamente, prima o poi irrompe e costringe a guardare con occhi granitici quello che ci succede dentro e fuori, e tutto questo esige poi una scelta, un cambiamento.
C'è chi va in missione in Africa, chi si licenzia, chi deve prendere atto della inconsistenza delle proprie manie isteriche, chi deve comprendere la reale natura dei propri legami. Lui non consiglia, non sa, non è un confessore, però tutti lo abbracciano, tutti lo cercano. Il mondo intero anziché reclamarlo nelle sue incombenze, si affanna ad inseguirlo. E tutto questo lo si individua nello sguardo attento della ragazza che passeggia nel parco con il suo cane, che osserva, che cerca di capire.
E' un percorso di riappopriazione della propria vita, e del proprio andar lenti. Uno scavo che, alla fine, impone un ritorno ed un confronto decisivo. La presa d'atto finale sul luogo in cui si era consumata la tragedia. Ed è proprio qui che il cerchio si chiude, che l'eterno ritorno della vita si avvolge concentricamente intorno alla storia. Dove si era perso il sentimento che lui non era riuscito a provare, egli ritrova una forte, intensa e lunga passione. La carnalità delle scene con cui si consuma il rapporto pressoché inaspettato con la donna che lui aveva salvato. Non si sa come si giunge a questo atto, non si sa perché visto che questi si parlano soltanto una volta. Ma la lunga
scena di passione, artatamente costruita con quel realismo e quell'intensità, coglie il senso di una riappropriazione della vita che si era smarrita in un rapporto arido e prosciugante. Forse non era stato Pietro a salvare quella donna dal tormento, forse nel salvarla, si era anche salvato.
Il cerchio si chiude, e si allunga, con l'ultimo abbraccio, l'ultimo confronto. Quello con la ragazza
col cane, senza nome e senza voce. Il cane che infine scappa, come la curiosità che sfugge di mano alla diffidenza e alla timidezza. Un cane che Pietro riesce ad acciuffare, con l'abbraccio di questa giovane e bella ragazza con cui non aveva mai parlato ma soltanto osservato, che infine si rivela. "Tanto noi già ci conosciamo"... che cosa vorrà mai significare? Io ho un'idea. Forse è la fiducia? La speranza... corroborata dalla sincerità, quella che impone di parlarsi, di essere trasparenti con i propri sentimenti, come insegna Pietro alla piccola figlia che prima di entrare in classe, chiede come regalo di Natale al papà di non insistere più ad aspettarla su quella panchina.
Perché ci si può riappropriare della propria natura, del proprio amore, della propria voglia di esserci. Perché tutto torna; ma tutto prosegue, e la vita, anche se in forme ardite e sconosciute, a volte è reversibile. Come un palindromo.

domenica 17 febbraio 2008

While she holds the mirror






Più dolce sarebbe la morte se il mio sguardo avesse come ultimo orizzonte il tuo volto, e se così fosse.. mille volte vorrei nascere per mille volte ancor morire...




Oh, qual nobile mente è qui sconvolta! Occhio di cortigiano, lingua di dotto, spada di soldato; la speranza e la rosa del giardino del nostro regno, specchio della moda, modello d'eleganza, ammirazione del genere umano, tutto, e per tutto, in lui così svanito!... Ed io, la più infelice e derelitta delle donne, ch'ho assaporato il miele degli armoniosi voti del suo cuore, debbo mirare adesso, desolata, questo sublime, nobile intelletto risuonare d'un suono fesso, stridulo, come una bella campana stonata; l'ineguagliata sua forma, e l'aspetto fiorente di bellezza giovanile guaste da questa specie di delirio!... Me misera, che ho visto quel che ho visto,e vedo quel che seguito a vedere!


Pur se tu sia casta come il ghiaccio e pura come la neve, non sfuggirai alla calunnia.
Vattene in convento.



C'è un salice che cresce di traverso ad un ruscello e specchia le sue foglie nella vitrea corrente; qui ella venne, il capo adorno di strane ghirlande di ranuncoli, ortiche, margherite e di quei lunghi fiori color porpora che i licenziosi poeti bucolici designano con più corrivo nome ma che le nostre ritrose fanciulle chiaman "dita di morto"; ella lassù, mentre si arrampicava per appendere l'erboree sue ghirlande ai rami penduli, un ramo, invidioso, s'è spezzato e gli erbosi trofei ed ella stessa sono caduti nel piangente fiume.


Le sue vesti, gonfiandosi sull'acqua, l'han sostenuta per un poco a galla, nel mentre ch'ella, come una sirena, cantava spunti d'antiche canzoni, come incosciente della sua sciagura o come una creatura d'altro regno e familiare con quell'elemento.
Ma non per molto, perché le sue vesti appesantite dall'acqua assorbita, trascinaron la misera dal letto del suo canto ad una fangosa morte.




Non è bene e non può venire a bene; ma spezzati, mio cuore, perché io debbo frenare la lingua.


Nell'immagine:
Ophelia di John Everett Millais, 1852, conservato alla Tate Gallery di Londra.



sabato 16 febbraio 2008

La scrivania


Da qualche giorno la voce nella segreteria era pressoché sempre la stessa,  era come se quell'aggeggio avesse rubato un'anima e se la fosse bevuta nei circuiti. L'immaginazione che associa un viso ad una parola aveva quasi rimosso un volto per associare quella cadenza e quelle tipiche espressioni ad una spia rossa ed intermittente. Sollecitazioni quasi del tutto sistematicamente ignorate. Dove stava? Come stava? Cosa faceva? Perché non chiamava? A che cosa serviva dar conto di tutto questo...  Se quella che ormai era diventata solo un led su una scatolina nera coi pulsanti grigi lo conosceva almeno un po', avrebbe già dovuto comprendere che la distanza non era un confine scavato dal rancore, ma un solco che si nutriva da sé, tra la piazza gremita e l'inquieto silenzio. Spiacente vocietta dispiaciuta e sempre più incalzante, ma non si torna indietro; un'onda del mare non rimetterà mai nello stesso antro la sabbia sollevata dall'impeto. Quando tutto si sconvolge e la verità appare più infame, sarebbe meglio intascare il biglietto di sola andata dell'ultimo treno, le ruspe sono pronte a demolire anche questa stazione nel deserto. Da qui puoi andartene, ma non sarà qui che farai ritorno.
Richiuse le imposte della finestra dando un' ultima occhiata alla tempesta che infuriava sballottando i pini del viale che opponevano un'elastica resistenza. Il pomeriggio si spegneva nelle fessure che ancora tradivano il bisogno di un fresco riposo degli occhi, e l'ombra delle incombenze e delle letture sparpagliate sulla scrivania si confondeva sulle pareti della sua stanza con il prolungarsi della sera che metteva a tacere i fatui richiami del senso del dovere.
Scomparivano i registri ancora da riempire di valutazioni ed impressioni tutte da inventare. Scomparivano in un angolo il telefono ed il computer, accanto ai libri. Scompariva un'agenda incostante, e scompariva  il calendario fitto di appunti e memorandum.  Voleva che fosse il mondo intero a scomparire, con le sue tenaglie che gli stavano stringendo i polsi e annerendo le dita, impedendogli di recuperarsi in quelle parole nelle quali aveva da qualche tempo ormai disperato di potersi riincontrare e riconoscere. Il vento ed il mondo impattavano violentemente alla sua porta, ma non era la serata adatta da sacrificare alla commiserazione verso i mendicanti e i giorni di pietà. C'era una gran confusione, le storie si erano tutte interrotte al terzo paragrafo, quello che preludeva all'azione. Ogni personaggio non viveva alcuna vicenda, era egli stesso un fatto, un caso. Come pareva morbido il suo lato oscuro quando nessuna lampada magica poteva contrastarne il profilo su quella tela mossa delicatamente da un finissimo frammento di esterno che straripava dall'argine della sua porta con le giunture arrugginite.
Poteva tranquillamente sentirsi estraneo alle fughe di rabbia nelle quali s'era abbandonato negli ultimi tempi. Quelle precedute da ampie e silenziose convulsioni della mente, dai rimbrotti delle falde sotterranee prima dell'agitazione superficiale di un monte irrequieto e fumante di polveri e lapilli.
Tra le carte e gli abbozzi sedimentati osservava con gli occhi non abbastanza desti una lettera non spedita. La busta recava l'indirizzo ed un nome. Non aveva scritto il mittente, quella lettera non sarebbe tornata indietro e chi l'aveva scritta forse non c'era più.
Non scorrevano le fantasie abbacinanti di un'innocenza curiosa verso il principio che muove le corde dell'abbandono ai riflussi della marea e al dondolare variopinto delle prime rose ai sussurri di maggio e ai profumi di pollini pigri che inseminano i giorni di sole e le notte d'un chiarore d'avorio. Quei timidi miracoli dell'ingegno che riconciliano il silenzio ad un tacito infondersi con le attese di una piccola mano dedita a scavare nel proprio sentimento la giusta parola che sappia cullarti la vita per qualche indimenticabile istante.
Tutto questo sembrava disperdersi. E la spia rossa tornava a singhiozzare in quella sera offuscata dal disinteresse. "Scusa se ti disturbo ancora, so che non puoi capirmi. Volevo dirti una cosa. Oggi pensavo che dei due manoscritti che mi hai mandato preferisco quello della bambina che muore in riva al mare, e lo sai perchè? Perché non hai saputo descriverla bene la morte, è troppo fredda. Ti sembra quasi del tutto indifferente, il fatto che le persone ci siano o non ci siano sembra che per te  sia quasi un dettaglio insignificante. All'inizio la storia del professore solitario l'avevo adorata perché mi aveva folgorato l'amore di cui sembri capace..." - Ma sono soltanto parole, pensava affranto lui, raccogliendosi i capelli dietro la nuca e tenendo stretta poi la chioma fra le dita. - "...E' così che sarebbe bello ricordarti, anche se penso che scrivevi soltanto per te stesso. Ciò che ammiro oggi, invece, è una storia che non mi parla, come non mi parli più neanche tu, e questo aiuta il distacco..."
Poteva bastare. Con una forbice recise il cavo
di quell'oggetto che teneva in vita il mondo esterno sulla sua scrivania. La storia a metà, abbandonata tra una calcolatrice ed una lattina di Coca-Cola vuota, era la storia di una donna triste alla ricerca di una libertà che la spaventava ed un dolore che le consentiva di sentirsi presente al mondo come un essere completo, pur nella rinuncia alla felicità.
Era lì che lo aspettava, come quel vento che bussava assillante alla sua finestra le cui imposte di legno divorate dai tarli e tinte d'un verdone salamastro ancora tenevano la morsa dell'invadenza lontana ed innocua. Gli occhiali scaraventati sul banco deformavano le parole che si rifrangevano sulle lenti e ne rendevano ancora più straniero il senso. Non si riconosceva in esse e nemmeno nel significato del dolore della donna che stava costruendo con le sue mani e con i suoi ricordi.
Non si sentiva in diritto di sancire il destino di una creatura di cui sapeva di non riuscire ad essere un padre sincero. Non c'era, non c'era più e quella lettera senza padrone forse non sarebbe mai più partita per coltivargli dentro un altro rimpianto bugiardo.
Vinto dal peso di una sonnolenza che gli sospendeva i giudizi e gli seccava la bocca, non accettava che quegli attimi potessero lasciarsi avvincere così impunemente. C'era del caffè ancora caldo nella caffettiera sui fornelli spenti. Riempì lentamente una tazza guardando al calendario sui cui sua madre appuntava le scandenze prossime e gli appuntamenti scaduti. Il mese era quello venturo, la vita correva più ansiosa della sua capacità di stanarla.
Uno spiffero d'aria poco più che effimero oltrepassò le inferriate per scuoterlo dalle caviglie alle palpebre, e la tazzina fumante non lambì mai le sue labbra, per scivolare alla flebile scossa, e frantumarsi sotto il suo sguardo impotente.

venerdì 15 febbraio 2008

Il buongiorno si vede dal mattino alle 9:32

9:32 - Casini: "Cuffaro è stato perseguitato, sarà candidato"

''Rispetto molto la magistratura, ma Cuffaro ha avuto una vera persecuzione giudiziaria''. Ne e' convinto il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini, che ai microfoni di Radio Anch'io interviene anche sulla possibilità che l'ex governatore della Sicilia sia candidato alle prossime elezioni politiche. ''Penso proprio che sarà candidato - spiega Casini - ma deve essere lui a decidere''.


 da La Repubblica
(stamattina)


Mia madre mi perseguita perché si è messa in testa che devo perdere almeno un paio di chiletti perché il mio vestito nero lucido che mi serve per travestirmi da oligarca borghese mi comincia a star stretto. Bé? E vogliamo dimenticarci dei profughi albanesi kosovari, dei rifugiati del Sudan? Un posto a questi poveracci lo troviamo tra le fila della figlia storpia della "balena bianca"?
VOGLIAMO LA CANDIDATURA nelle liste dell'UDC!!! Io ne ho diritto! Siamo tutti perseguitati... Come dici PierFerdy (the "Pope's Ass-licking")? ...togli la frangetta stuccata che non ti si riconosce bene quando ti inginocchi! ...non ho l'età per il Senato? E che sarà mai? Piazzatemi alla Camera, oppure falsifichiamo i documenti come fece Eriberto del Chievo Verona, se' po' ffà... suvvia, con quel suocero che ti ritrovi... e poi basta! Basta con questi pettegolezzi sulla Sacra Rota, che a noi non ci frega una sega della famiglia, figuriamoci di questo spauracchio del diritto canonico ad penitentes personas.
Non mi piace 'sta storia come sta nascendo, io non so più a che cosa credere... Berlusconi ha detto che forse non può ridurre le tasse ma serve fare interventi mirati sui redditi dei lavori dipendenti... Ma chi è che ha detto che l'età fa rincoglionire? Questo sta rinsavendo! Per fortuna è tornato subito normale dicendo di sentirsi superman e per un attimo mi son sentito a casa, al calduccio e al tepore del ridicolo che ci ha reso celebri nel mondo più della Gioconda... Per un attimo avevo visto Mariano Apicella (da non confondersi con Michele) abbandonato ai margini del golfo partenopeo canticchiando a' gelusia con gli occhi lucidi mirando a Surriento e pensando a Lui che lo aveva sedotto e abbandonato... No! Per favore, che già 'sto clima da "volemosebenetutti" mi sta annoiando di brutto. Dove sono i Guzzanti? E Travaglio? E  Crozza?  Giovani, non perdetevi d'animo!? Inventatevi qualcosa che questo c'ha 72 anni! Tra un po' la pacchia finisce... valle a fare poi le battute su Fini, che ti inventi? La Lega non è così divertente, e Buttiglione non dura neanche lui... Mastella? E no... dai... e che palle, sempre lo stesso brodo di topo di fogna riscaldato... un po' di allegria perdinci!


Perché dobbiamo ricorrere sempre ai ricordi? E poi dicono che sono un nostalgico...


C'era una volta, il dopo-Elezioni regionali del 2005... (una delle pagine più comiche della storia della TV italiana)






giovedì 14 febbraio 2008

Adotta un pirla, solo al tavolo di un bar










Il telefono continua a pungolare i miei assilli sonnolenti con singoli squilli saltuari, alla caccia di una risposta ad un dubbio trascurato. Ogni volta che qualcuno mi cerca mi assale sempre un attimo di sconcerto. La sera emetteva un freddo che intacca la stessa consistenza della pelle e la capacità di aprir bocca. Il sedile alla mia destra è vuoto in maniera surreale, la precoce notte raramente s’era accompagnata con la solitudine, e la consueta frequenza alla radio non passava la quotidiana solfa, ma stasera la musica è sempre la stessa. E resta fuori dai cancelli del mio pensiero, e adesso che farò, non so che dire. In questo luogo tanto detestato dove il fiato di chi scialacqua il dono della parola in orride espressioni, allo sgabello prossimo al mio, è peggiore di quel che s’emana da quel barilotto succhiato sino all’ultimo sorso dai sifoni dell’imperturbabile sconcezza. Sono qui, perché tu odiavi questo posto non per lo squallore dei suoi frequentanti ornati da sciarpe firmate, ma per la dubbia qualità del prosciutto crudo all’interno delle piadine. E l’arcangelo Gabriele sa quanto preferisco l’epatite alle idiozie che infestano l’aria. Sì, l’Arcangelo Gabriele… il titolare dell’Empireo non sa molte cose di me, m’ha sbattuto fuori di casa a calci nell’osso “sacro” perché non santificavo le feste, non onoro il padre e la madre, non rubo ma desidero spesso la donna d’altri. E di questo sono sinceramente dispiaciuto, e non faccio ironia. Un pianoforte ha sempre capito come cogliermi in contropiede, la verità che ti congestiona le vene e tira fuori il veleno dal sangue molto più contaminato dai miei pazienti e silenziosi assensi che ancora bruciano come l’unica vera vergogna per cui sentirmi dannato per sempre. La costellazione dell’Acquario è poco nitida nel cielo. Avrei acceso fiaccole in ogni pistillo di rosa per festeggiare ogni tuo sorriso riflesso nel tetro dei miei occhi nerissimi. Avrei cosparso di vento ogni angolo del tuo sguardo per ripulirlo da ogni polvere invisibile o inesistente che avesse potuto minare il chiarore del tuo viso con la sua impercettibile ombra sotto i tuoi occhi. Avrei scavato con la forza della mia mascella una galleria ai tuoi piedi sino al centro della Terra per consentire alle meraviglie di tutto il mondo di guardarti e venerarti strisciando ai piedi della tua bellezza. Avrei sputato in faccia alla mia balia se avesse provato a rimembrarmi un calore più fremente di ardore di quello che tu, intenta nelle braccia, cingevi intorno al mio collo distratto a volgere gli occhi all’aurora di Marte e al pendere di Cassiopea prima dell’approdo di Pegaso. I tuoi occhi distinguevano nel cielo tutto il sentimento che avevo covato e conservato nella speranza di non risvegliarmi mai dai sogni che mi proteggevano dall’incubo che quel castello di cera potesse sciogliersi ad minimo scorcio di verità fra le nubi della consuetudine. Mentre il dubbio ha scavato una fossa intorno ai miei occhi, uniche isole di supplizio nelle quali deprimere la mia volontà e il ripudio ancestrale verso ogni forma di loggia senza barriera pronta a spingerti nel baratro ad ogni tenue sussulto dell’equilibrio aereo turbato dalle ali di una disorientata farfalla a cui hanno reciso le antenne e cerca solo un petalo sul quale emettere l’ultimo dolce respiro.
Osservo lo stretto collo del piccolo bicchiere posato dinanzi ai miei occhi, e nel liquido rossastro vedo galleggiare a tratti e poi sedimentarsi piccole scaglie di una spezie di cui non so se riuscirò mai a cogliere la presenza nel sorso convinto e rapido. Se riuscirò mai ad isolare l’unicità del suo essere ed il senso del suo appoggiarsi sul fondo come relitto del mio dissesto annegato in quella brodaglia riscaldata dal tedio. Come le mie parole disadornate dell’abito candido che ricopriva un corpo ustionato dalla menzogna.
Questa solitudine non ha un sapore. Non mi assomiglia così come mi è del tutto insignificante vedere chi siede dall’altra parte di quello specchio, e che non ha più i capelli lunghi che ne ottenebravano la fronte e impedivano alle varie maschere di incollarsi ergonomicamente alla sua volubilità.
Stamattina ho incontrato la tizia della biblioteca armata di blocchetto e attenzione tra le date degli appelli e gli orari ricevimento dei scalda cattedre, non so se ha notato che c’era anche il mio di orario. Era molto carina al di fuori di quella scrivania che ne obliterava l’esistenza a studentessa part-time innestata nel disservizio generale tra volumi polverosi e roditori alla riscossa. Un caffè, le avrei potuto offrire un caffè e fare due chiacchiere. Si fa così, poi si racconta qualche idiozia inerente la propria slideshow di giornate pallose, fingendo e vituperando il discorso con qualche cavolata tragicomica che la faccia sorridere e che insomma riveli che in fondo sei un cordiale giullare che fa dell’autoironia un passaporto sereno per farsi prendere per i fondelli anche dallo scemo del paese. Confesso che a questo punto del mio flusso di coscienza mi pareva più consona una metafora parecchio in voga ma dai connotati scurrili. Lei avrebbe accettato il caffè, la mia ironia, la mia simpatia artificiale, non avrebbe capito un cazzo di nient’altro. Sarebbe uscita con me una sera, due, tre, quattro… le avrei riempito il sistema parasimpatico di un automatismo commuovente ad ogni mia scalata verbale sulle vette dell’anima che tanto ammaliano i cuori delusi e turbati delle docili belle addormentate che giocano a mosca cieca in una foresta di iene. In fondo la pietà per il tenero abbandono  sui morbidi cuscini dei miei “per sempre” hanno parecchio alimentato la mia perfida penetrazione nelle debolezze e nelle rassegnazioni violate.
Le parole salpate dalla mia lingua non mi appartengono un attimo oltre la deriva in cui si perdono nella mente di chi le accoglie. Ed un “per sempre” può durare persino meno di un istante se è profondo come il desiderio di riempire la propria vita di infinito. Senza catene e cappi di fibre intrecciate di steli di giglio.
Il caffè non preso con la ragazza della biblioteca si dissolve nella mente e nel fumo del sigaro di quell’ometto dai capelli che spruzzano a ciocche bluastre dietro le sue orecchie paraboliche. E non coltivo null’altro di queste note che un quieto ribrezzo verso la nostalgia di un’illusione. L’illusione che ci fosse una speranza dei deliziosi costrutti che un’infanzia piegata su ingialliti quaderni ha reso possibile nei polpastrelli variopinti di tanta venusta incapacità di tradurre la vita oltre la didascalia di un’opaca esistenza.
Hai portato via anche la stampella su cui ingannarmi ancora che quel passo claudicante mi appartenesse. E dai boccioli sparsi sembra sciogliersi un nutrimento di rancore verso null’altro che il mio respiro. Pretendo il silenzio meraviglioso della mia solitudine come unico ristoro. Dove riabbracciare gli inganni dell’età semplice, l’indipendenza agognata e fredda. Silenziosa, meravigliosamente silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri.
Scalavo ciliegi anni fa' come un furetto ai primi germogli, ora, invece, ci sono le ciliegie tutto l'anno, le fragole tutto l'anno, ma che ricordi avranno un giorno questi bambini…
Mia madre invecchia mentre la sua pelle resta ancora liscia e i suoi capelli neri come il mio vuoto.
Nessun uomo potrà essere mai amato come dalla propria madre. Ma questo silenzio si veste d’un ombra che inginocchia anche gli affetti inscindibili di un gomitolo che sfilaccia persino le trecce più solide. E non torni più, tu non torni nella solitudine della tua libertà, tua madre e il tuo albero non torneranno più.



E adesso che farò, non so che dire
e ho freddo come quando stavo solo
ho sempre scritto i versi con la penna
non ho ordini precisi di lavoro.
Ho sempre odiato i porci ed i ruffiani
e quelli che rubavano un salario
i falsi che si fanno una carriera
con certe prestazioni fuori orario

Canterò le mie canzoni per la strada
ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada
con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.

Ho speso quattro secoli di vita
e ho fatto mille viaggi nei deserti
perchè volevo dire ciò che penso
volevo andare avanti ad occhi aperti
adesso dovrei fare le canzoni
con i dosaggi esatti degli esperti
magari poi vestirmi come un fesso
per fare il deficiente nei concerti.

Non so se sono stato mai poeta
e non mi importa niente di saperlo
riempirò i bicchieri del mio vino
non so com'è però vi invito a berlo
e le masturbazioni celebrali
le lascio a chi è maturo al punto giusto
le mie canzoni voglio raccontarle
a chi sa masturbarsi per il gusto.

E non so se avrò gli amici a farmi il coro
o se avrò soltanto volti sconosciuti
canterò le mie canzoni a tutti loro
e alla fine della strada
potrò dire che i miei giorni li ho vissuti



Chiunque tu sia, che oltrepassi i miei arazzi arabescati. Non dirmi mai che mi vuoi bene. Perché sarà comunque una menzogna.  Ti farei a pezzi con le mie mani.

mercoledì 13 febbraio 2008

Quasi pronto



Ce la posso fare, sì, sono pronto... sono quasi pronto, mi basterebbe solo un altro mese, anzi due, facciamo anche tre, ma se mi ci impegno mi basterebbe anche una settimana. Lo sapevo che l'avviso sarebbe arrivato prima o poi, lo sapevo perché è scritto nel regolamento del mio lavoro che ogni sei mesi dobbiamo rendicontare su  quello che stiamo facendo.  So anche che i mesi si son dati la mano per volatilizzarsi in un lampo lasciandomi senza aver concluso un accidenti. Con le idee più confuse di un tapiro in cerca di formiche in Siberia. Son due giorni che riempio la mia stanza di una bella canzone che dovrebbe suggerirmi dei pensieri. Il fatto è che determinati pensieri su determinati argomenti non fanno breccia nel mio cervello, franano come le radici della lattuga in un terreno d'argilla. Sono così rivestito d'indifferenza che non provo nulla. Asciugato, intonso, a tratti quasi invincibile. Così calcolatore e razionale dal non sopportare tutti i passaggi di un'equazione lineare nelle umane interazioni, così tremendamente semplice, ma così carica di inutili tautologie. Le possibili variabili esogene del modello: io ed un'altra qualsiasi persona  col cervello e vagina-dotata, che appaia più o meno gradevole ai miei occhi e non solo, che sappia formulare i periodi ipotetici con necessaria correttezza, che abbia una cognizione alquanto precisa della consecutio temporum, che non mi annoi in quelle due ore che dovessi decidere di concederle ciarlando circa corbellerie variegatamente assortite; l'output dell'equazione: un tranquillo, scontato e così razionalmente placido scambio di fluidi. Non ho più la testa adeguata per annusare, insinuare, far trapelare scabrosi intenti tramite pastrocchi ritmati abilmente artefatti in suadenti sonetti che fungano da testa d'ariete nelle mura di cinta dell'ipocrita consuetudine del cerimoniale sancito da un falso buon gusto.
Ti va? Non ti va? Hai il ciclo? Hai sonno? Hai fame? La mamma non vuole? Hai troppo sole, poco sole? Più acqua, meno acqua? Rispondi!!!
Quando al contrario parlo in una certa maniera è perché vorrei far capire perché detesto affacciarmi dai parapetti situati a più di dieci metri d'altezza, e quanto invece amo i panorami, ammirandoli però a mezzo km dal precipizio. E dell'arte che si nasconde nel preparare i tramezzini con tonno, maionese e verdurine sott'olio. C'è del lavoro da fare.
Un'altra presentazione, solo un'altra presentazione, 5-6 slides in power point in 10 minuti, e poi posso dedicarmi alla campagna elettorale della sinistra... del centro-sinistra... del centro-centro-sinistra... insomma di Walter.
La canzone risuona oggi in una giornata ponte tra ieri e domani, ed io so cosa vuol dire. Il patetico domani è il primo che passerà inosservato dopo anni di sottomessa violenza al mio portafoglio... e questo è un mese che ho sempre odiato. E detesto anche parlare di queste cose con tutti questi maledetti casini che nascono ogni giorno mentre i cialtroni che tessono queste dannate trame non se ne fregano un beneamato tubo; mentre il tesoretto sembra essere svanito nel nulla nonostante l'eco imperituro delle urla del mi babbo alla vista di quel che restava della sua ex tredicesima quasi estinta; mentre Valentino Rossi se la cava con un pacca sulla spalla che sembra canonizzare tutti i pii ladri di caramelle; mentre ieri sera ho scorto di nuovo la scrivania di noce da Vespa ed un pessimo presentimento mi si è affacciato nonostante le illusioni generate dal discorso che Walter ha tenuto su quella specie di muto e solingo terrazzo. Mentre i vescovi che hanno a cuore la sorte e l'educazione dei giovani lanciano anatemi sull'acclamata scena di sesso di Nanni con la Ferrari. Ma dai... ma a chi la racconti 'a prete? Che si vede lontano un miglio che c'hai i calli alle mani... A parte che se si desse davvero ascolto a quello che i vescovi predicano sull'argomento tutti i maschietti del mondo sarebbero una massa di eunuchi complessati, o al massimo un esercito di ciecati, qualora qualche peccatuccio ce lo si conceda nella grazia e nella devozione. Io ci tengo alla prostata e alle ghiandole dell'impazienza, e credo che l'astinenza faccia brutti scherzi all'equilibrio mentale, ed io dell'equilibrio mentale ho bisogno perché ci campo nonostante le aliquote IRPEF... ma perché voi, messi divini, non date l'esempio facendovi castrare?  Sarebbe un atto sublime di ripudio delle peccaminose tentazioni e del satana che si cela in quei 5 secondi dove non si capisce, e non si vuole, una volta tanto, nemmeno capire più niente. Volete tutelarvi nel caso qualcuno cambi idea? Per la miseria, dopo il caso Bobbitt non c'è da preoccuparsi, Berlusconi chissà quanti trapianti si sarà fatto laggiù per godere dei rifornimenti di materia prima che Saccà gli inviava, suvvia... e se non rompete l'anima con la ricerca sulle staminali, tempo due anni e trovano anche un rimedio per una rigenerazione spontanea con sole tre pasticche al giorno, magari chiamano anche Ronaldo a farvi da sponsor dopo che ha testimoniato per la ricrescita dei capelli. Io lo so che l'uomo ha bisogno dell'ombra del peccato che gli si attacca al collo come una sciarpa di finta lana cambogiana in estate, e che ti fa venire le macchie rosse in gola, ma qualcuno può aver freddo ad agosto, qualcuno può pensare che al bene serva il male per non rendere tutto banale e che la notizia più sconvolgente degli ultimi giorni non è che Giuliano Ferrara fa una lista contro l'aborto, ma che stanno facendo sloggiare le locatarie delle vetrine del piacere ad Amsterdam... e le conseguenze saranno un aumento degli affitti a causa dello spostamento verso sinistra della curva dell'offerta, oppure una rivalsa sui costi variabili che tenderà a rendere meno sicuro, meno igienico e meno qualitativo il servizio. Questi sono i drammi che la modernità propone, non la secolarizzazione od il timore per la Cina aggressiva degli eredi di Deng Xiao-Ping. Datemi il tempo di andare ad Amsterdam a rendermi conto e poi fate quel che volete!
Diamine... devo lavorare, devo scrivere, calcolare, preparare le diapositive e darmi una ripassata agli integrali indefiniti... sono pronto, sono quasi pronto... BASTONI!!! E non hai pietà tu di me?
Domani. Sì, lo so che lo ripeto da due anni, ma lo faccio domani... stavolta è vero. Intanto oggi, vogliamo parlare del ruolo del poeta nell'oltretomba, oppure del ruolo dell'oltretomba nella poesia? Oppure del ruolo della letteratura nella gastronomia? E se io mi suicidassi?
Già li vedo a dipingermi come un bravo un ragazzo, che ogni tanto aveva solo qualche mania, parlava da solo... e a volte quando gli si rivolgeva la parola neanche rispondeva, non guardava, ma chi sei? Ma che vuoi? Ma ti sei visto le scarpe? Cioè, io vengo a trovarti in casa e tu ti fai trovare con le pantofole? Ti comunico ufficialmente che con me hai chiuso.
Che mal di testa... ma perché? Dopo tutto lo sapevo, lo sapevo che io non volevo trasformare la mia vita in un limite che tende a 0, che sarei diventato la derivata di una costante... a me piace ballare. No, non vado alle feste, e non vado in discoteca, io non ballo. Però mi piace vedere la gente che balla, a me piace sentire quel fremere dentro che mi porta a pensare che se fossi solo, e non ci fossi io stesso a guardarmi, forse mi riuscirei a muovere con un buon ritmo, chiudendo gli occhi e sentendo il tempo e la cadenza delle note che mi pizzica le dita, mi solletica i polsi, che mi fa ondeggiare clavicole e gomiti, e rende malleabili le mie ginocchia... sarei anche pronto, quasi pronto, come in quella discoteca dove suonavano David Bowie sul lungofiume a Pescara. Senza neanche bere, solo un po' di fumo passivo dalle fragranze più diverse e dagli effetti imprevedibili. No, non ero pronto quella notte a Pescara ero anche stanco... quel giorno poi andammo, un attimo prima dell'alba, a prendere caffè e cappuccino; mentre io mantenevo ancora in mano la mia beck's ancora a metà, si discuteva su chi fosse più rompicoglioni tra la polizia o i carabinieri. Eravamo quasi d'accordo che questo sarebbe potuto dipendere dal grado di delinquenza del luogo in cui ci avrebbero potuti fermare, ma avrei preferito che qualcuno ci fermasse davvero con la paletta, così avremmo tastato con mano, io magari avrei chiesto allo sbirro: scusi ma lei si ritene più rompicoglione di un carabiniere? Finita di corsa la birra guardavo il bancone dei dolci mattutini e agitavo il cucchiaino nella tazza del mio cappuccino. Un ricco vassoio di bigné m'aveva fatto capire che alla fine ho sbagliato davvero tutto. Che dovevo fottermene di ogni cosa s'agitasse sotto il sole o la luna, e che avrei dovuto ignorare persino le stelle. E senza rinnegarmi più di tanto sarei potuto diventare un tranquillo e sorridente pasticciere. Un ballerino pasticciere trotskista.

lunedì 11 febbraio 2008

Di sera, un geranio

 


       S'è liberato nel sonno, non sa come: forse come quando s'affonda nell'acqua, che si ha la sensazione che poi il corpo riverrà su da sé, e su invece riviene solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giù.
         Dormiva, e non è piú nel suo corpo; non può dire che si sia svegliato; e in che cosa ora sia veramente, non sa; è come sospeso a galla nell'aria della sua camera chiusa.
         Alienato dai sensi, ne serba più che gli avvertimenti il ricordo, com'erano; non ancora lontani ma già staccati: là l'udito, dov'è un rumore anche minimo nella notte; qua la vista, dov'è appena un barlume; e le pareti, il soffitto (come di qua pare polveroso) e giú il pavimento col tappeto, e quell'uscio, e lo smemorato spavento di quel letto col piumino verde e le coperte giallognole, sotto le quali s'indovina un corpo che giace inerte; la testa calva, affondata sui guanciali scomposti; gli occhi chiusi e la bocca aperta tra i peli rossicci dei baffi e della barba, grossi peli, quasi metallici; un foro secco, nero; e un pelo delle sopracciglia così lungo, che se non lo tiene a posto, gli scende sull'occhio.
         Lui, quello! Uno che non è pú. Uno a cui quel corpo pesava già tanto. E che fatica anche il respiro! Tutta la vita, ristretta in questa camera; e sentirsi a mano a mano mancar tutto, e tenersi in vita fissando un oggetto, questo o quello, con la paura d'addormentarsi. Difatti poi, nel sonno...
         Come gli suonano strane, in quella camera, le ultime parole della vita:
         - Ma lei è di parere che, nello stato in cui sono ridotto, sia da tentare un'operazione così rischiosa?
         - Al punto in cui siamo, il rischio veramente...
         - Non è il rischio. Dico se c'è qualche speranza.
         - Ah, poca.
         - E allora... -
         La lampada rosea, sospesa in mezzo alla camera, è rimasta accesa invano.




         Ma dopo tutto, ora s'è liberato, e prova per quel suo corpo là, piú che antipatia, rancore. Veramente non vide mai la ragione che gli altri dovessero riconoscere quell'immagine come la cosa piú sua.
         Non era vero. Non è vero.
         Lui non era quel suo corpo; c'era anzi così poco; era nella vita lui, nelle cose che pensava, che gli s'agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori senza piú vedere se stesso. Case strade cielo. Tutto il mondo.
         Già, ma ora, senza piú il corpo, è questa pena ora, è questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa, a cui, per tenersi, torna a aderire ma, aderendovi, la paura di nuovo, non d'addormentarsi, ma del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza più lui: oggetto: orologio sul comodino, quadretto alla parete, lampada rosea sospesa in mezzo alla camera.
         Lui è ora quelle cose; non piú com'erano, quando avevano ancora un senso per lui; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso e che ora dunque non sono piú niente per lui.
         E questo è morire.
         Il muro della villa. Ma come, n'è già fuori? La luna vi batte sopra; e giú è il giardino.
         La vasca, grezza, è attaccata al muro di cinta. Il muro è tutto vestito di verde dalle roselline rampicanti.
         L'acqua, nella vasca, piomba a stille. Ora è uno sbruffo di bolle. Ora è un filo di vetro, limpido, esile, immobile.
         Come chiara quest'acqua nel cadere! Nella vasca diventa subito verde, appena caduta. E così esile il filo, così rade a volte le stille che a guardar nella vasca il denso volume d'acqua già caduta è come un'eternità di oceano.
         A galla, tante foglioline bianche e verdi, appena ingiallite. E a fior d'acqua, la bocca del tubo di ferro dello scarico, che si berrebbe in silenzio il soverchio dell'acqua, se non fosse per queste foglioline che, attratte, vi fan ressa attorno. Il risucchio della bocca che s'ingorga è come un rimbrotto rauco a queste sciocche frettolose frettolose a cui par che tardi di sparire ingojate, come se non fosse bello nuotar lievi e così bianche sul cupo verde vitreo dell'acqua. Ma se sono cadute! se sono così lievi! E se ci sei tu, bocca di morte, che fai la misura!
         Sparire.
         Sorpresa che si fa di mano in mano piú grande, infinita: l'illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e che invece non c'erano; suoni, colori, non c'erano; tutto freddo, tutto muto; era niente; e la morte, questo niente della vita com'era. Quel verde... Ah come, all'alba, lungo una proda, volle esser erba lui, una volta, guardando i cespugli e respirando la fragranza di tutto quel verde così fresco e nuovo! Groviglio di bianche radici vive abbarbicate a succhiar l'umore della terra nera. Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra! Ma ora lui è come la fragranza di un'erba che si va sciogliendo in questo respiro, vapore ancora sensibile che si dirada e vanisce, ma senza finire, senz'aver piú nulla vicino; sì, forse un dolore; ma se può far tanto ancora di pensarlo, è già lontano, senza piú tempo, nella tristezza infinita d'una così vana eternità.
         Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O anche un fiore che duri poco: ecco, questo geranio...



         - Oh guarda giú, nel giardino, quel geranio rosso. Come s'accende! Perché?



         Di sera, qualche volta, nei giardini s'accende così, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione.


 


Luigi Pirandello, 1934