Julia e Kate Morkan guardavano la neve cadere sui tetti di una Dublino addormentata, la loro nipote Mary Jane stava intrattenendo gli ospiti di questa serata speciale. Era tutto pronto, tutto come ogni anno per il ballo annuale di Natale organizzato dalle sorelle Morkan… Sono in ansia, Gabriel e sua moglie ancora non arrivavano, a Julia non sembrava vero che fossero passati trent’anni da quando lei e Kate avevano lasciato Usher’s Island dopo la morte del fratello Pat portando con loro i piccoli nipoti Gabriel e Mary Jane. Erano trascorsi tanti anni per la vecchia Julia, e pochi altri Natale da poter vivere ancora… Erano arrivati, Gabriel e sua moglie Gretta. Il premuroso, generoso e attento nipote a cui era destinato il discorso rituale ed il taglio dell’oca. Cominciarono la festa e le danze… erano invitati tutti i principali galantuomini e dame di Dublino, che come ogni anno lieti di rinsaldare i propri legami, rievocare le tradizioni, perpetrando usanze in onore dei cari scomparsi, come un ultimo baluardo d’orgoglio d’una vecchia austera Dublino che non si piegava alle minacce della modernità e delle culture straniere. Gabriel era teso, era incerto sulla convenienza o meno di citare Shakespeare nel suo breve e noioso discorso, lui era uno scrittore, conosceva il mondo e sentiva che quei costumi irlandesi gli stavano parecchio stretti. Miss Ivors si fece avanti e invitò il tranquillo Gabriel a danzare, ma il suo era solo un pretesto. Cominciò a tempestarlo di domande sulla sua attività giornalistica, e dopo i soliti convenevoli invitò lui e la sua famiglia a trascorrere le vacanze nelle isole Aran con altra gente di rango… Gabriel era palesemente a disagio, le sue vacanze erano sempre state nel continente, preferiva l’Italia o
La serata volgeva al termine, dopo le ultime danze, tutti attendevano la carrozza per poter tornare a casa o in albergo; dal vestibolo però si udì una voce da tenore cantare, Mr. D’Arcy intonava una melodia dolce e malinconica:
Oh, la pioggia cade sui miei riccioli grevi
E la rugiada si posa sulla mia pelle,
gelido giace il mio bambino…
La canzone venne interrotta dal tenore, e Gretta scendeva nel vestibolo con le guance arrossate, in disparte mentre tutte le altre dame si complimentavano col cantante chiedendo come mai avesse interrotto bruscamente quel canto così soave. Gretta aveva gli occhi lucidi, ed un’aria strana, come se fosse stata rapita da qualche pensiero e trasportata chissà dove, o chissà quando. Timidamente, Gretta si avvicinò a Mr. D’Arcy e chiese il nome di quella canzone. La fanciulla d’Aughrim, un’aria dolcissima.
Passeggiando sul freddo lungofiume per tornare a casa, Gretta affiancava Mr. D’Arcy, e Gabriel che da quando s’era accorto del mutamento d’umore della moglie non le aveva staccato gli occhi di dosso, la osservava facendosi cogliere da un improvviso senso di strana felicità. Fremeva Gabriel, colto improvvisamente da un desiderio di tenerezza ed ardore per la moglie, in quella fredda notte stellata dove sentiva un calore crescergli dentro; un calore tenero che gli induceva la voglia di afferrarla, stringerla, e far dimenticare loro la monotonia nella quale s’era assopita la loro passione, le preoccupazioni per i figli, il suo impegno di scrittore. Quella notte voleva dimostrarle che le incombenze domestiche non avevano soffocato il tenero fuoco dei loro animi, voleva dirle che “non c’era parola tanto dolce che diventasse il suo nome…”. Bramava di restar solo con lei, quando l’avrebbe chiamata dolcemente a sé: “Gretta!”
Giunsero in albergo, lui la osservava mentre riponeva il cappellino ed il mantello, aveva uno sguardo ancora stranito. Gabriel capiva che non era ancora il momento, ma con fare tenero si avvicinava alla moglie per cingerle i fianchi con un delicato ma ardente abbraccio. Ma lei non c’era, non c’era in quel corpo ed in quella notte. Lui le stingeva le mani, come per afferrarla ed impedirle di smarrirsi ancora di più, perché lei non c’era, non c’era affatto su quel letto ed in quel sentimento che stava divorando Gabriel di voglia. – Che cosa c’è, Gretta? – Nessuna risposta. Poi lei scoppiò in lacrime. – La fanciulla di Aughrim, ripeteva nel pianto, mi ricorda qualcuno che la cantava tempo fa’, a Galway - Dal volto di Gabriel svanì il sorriso. Nel fondo della mente cominciò ad aggrumigliarsi una collera scura e nelle vene presero ad ardergli rabbiose vampe d’ottusa lussuria.
La fanciulla d’Aughrim la cantava Michael Fury, un ragazzo che aveva trascorso l’infanzia con Gretta; trascorrevano tanto tempo insieme, erano legatissimi. Ancora le pareva di rivederla quella sua espressione gioiosa e così innocentemente innamorata. Spiazzato da una dolcezza che lo escludeva nettamente dai pensieri di colei che ardeva avvolgere nei suoi intenti bramosi, Gabriel, accecato da un’ira soppressa ma evidente, chiese se l’insistenza nel voler accettare l’invito di Miss Ivors non le fosse stato dettato dalla voglia di tornare a Galway per rivedere questo Michael Fury…
È morto! – ribattè Gretta alle stolte insinuazioni del marito – È morto a 17 anni. - Michael Fury era cagionevole di salute, e quando seppe che Gretta sarebbe partita per Dublino, affrontò la pioggia e la tempesta pur di starle accanto in quell’ultimo attimo della loro giovanissima unione… Era ammalato, ma l’amava molto, era gentile, le dedicava canzoni con la sua splendida voce innamorata, le cantava la fanciulla d’Aughrim durante le loro passeggiate tra i boschi e le campagne. Era morto perché a lui non importava più di vivere se Gretta fosse andata via, non gli importava stare dritto sotto la pioggia mentre i suoi deboli polmoni sfidavano con amore la loro fragilità al vento e alla tempesta.
Soffocata dal pianto e dai singhiozzi, dalle domande goffe e impacciate di un Gabriel avvampato dalla vergogna della sua stessa presenza, Gretta si addormentò straziata da quel ricordo.
Gabriel la guardava. Dunque c’era stata una storia romantica nella sua vita, un uomo era morto per amor suo. Stentava a riconoscersi nella baldanza e nell’ardore di qualche minuto prima. Lacrime generose riempivano gli occhi di Gabriel. Non aveva mai provato mai nulla di simile per una donna, ma sapeva che un sentimento del genere doveva chiamarsi amore. Nella semioscurità gli parve di riconoscere la sagoma di un ragazzo sotto la pioggia, ed insieme a lui altre ombre nella folla dei morti. Era cosciente di quella loro ostinata, tremula esistenza, ma non riusciva ad afferrarla. La sua identità svaniva in un mondo grigio ed impalpabile e quello stesso mondo in cui quei morti avevano vissuto e procreato s’andava rimpicciolendo e si dissolveva. Aveva ricominciato a nevicare, fiocchi di neri ed argentei cadevano obliqui contro il lampione. Cadeva la neve sulla collina dov’era sepolto Michael Fury e sulle croci contorte d’un cimitero con statue d’angeli tristi ed imploranti, sui cancelli ed i roveti spogli. E la sua anima svaniva adagio nel sonno mentre la neve cadeva sull’universo, cadeva lieve come il silenzio sui vivi e sui ricordi.
Questo è un racconto splendido di Joyce, I Morti; una decina d'anni fa' ne scrissi un adattamento teatrale che giace tra le mie carte incolte. Scrissi l'adattamento in due atti pensando ad una persona, glielo dipinsi addosso, perché doveva interpretare Gretta. Lo intitolai Natale a Dublino, un titolo fittizio. Non traggo conclusioni euristiche da quest'opera che mi avvinse quando la lessi la prima volta, e che mi è cara come poche.
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