Quel tardo pomeriggio era piombato nella sua vita come un indigesto polpettone che mediante frequenti conati singhiozzanti, segnalava la propria tenace resistenza alla bile e agli acidi duodenali, nonostante fosse stato trangugiato diverso tempo addietro, e nonostante i diversi forsennati tentativi di liberarsene.
Sedeva al suo consueto tavolino all’angolo della vetrata del Caffè, sorseggiava una tazza contenente una dolciastra miscela liquida a base di Cointreau, Baileys e Zabov, ben riscaldata, mentre con la mano sinistra reggeva il suo giornale che copriva un biglietto recante queste parole: “Quando ti rivolgi alle persone con saccenza, in maniera presuntuosa e tronfio del tuo sapere scompari...non esisti più. Non è di alcun valore lo sfoggio che tu fai di te stesso...non ti fa una persona migliore, umanamente parlando. Non hai la capacità di rapportarti al normale e questo è francamente molto triste. Che tu ti sia costruito il personaggio di colui che ha grandi contenuti è comprensibile, e in fondo è anche vero... ma che tu tramite questo personaggio bistratti gli altri, con parole sulle quali dovresti riflettere, è francamente inaccettabile.” Un biglietto che teneva ben saldo come un asso di cuori da calare alla puntata decisiva, ed i suoi semoventi occhi sorridevano dietro le lenti scure.
Attendeva, come sempre gli accadeva di fare, dacché coltivava il vizio di precedere i suoi appuntamenti. Tutto intorno un pullulare di zanzare disgustose che reggevano bicchierini adornati di ridicoli ombrellini e cannucce, ridendo, schiamazzando, sorridendo placidamente al lerciume esistenziale, ragliando.
Scomodamente appoggiato alla sua poltroncina pensava alla compagna di viaggio che lo aveva lasciato con quella piccola missiva, fattagli recapitare un giorno lontano nella sua camera d’albergo, insieme ad un sacchetto in cellulosa gialla contenente le spoglie di un mazzo di fiori tritato dalla rabbia insieme con la cordiale frasetta di scuse, corredata dalla canonica istanza di perdono, ed in allegato, le solite ipocrite promesse di una vita migliore, di un rapporto più equilibrato, con la patetica declamazione di impegnarsi a rimuovere la propria impazienza congenita.
Da quel giorno visse ogni esperienza ed ogni incontro come l'albero di una zattera senza né poppa né prua, vacillando alla marea degli entusiasmi, sforzando di farsi assalire da una candida accondiscendenza verso tutti, elargendo sorrisi come il benefattore di orfanelli abbandonati al destino, a cui però non riusciva di tendere la mano sfilandosi il rigido guanto di pelle. Parlava senza guardare negli occhi.
Quel pomeriggio era un atto di cortesia previsto dalla sua cura riabilitativa trascinatasi stancamente nel tempo dopo l’epifanica autocoscienza sulla sua primordiale sociopatia. Era stato lui a cercare colei che si stava sfilando l’impermeabile bianco di fronte a lui. L’aveva conosciuta qualche tempo prima durante una ricerca agli archivi, quel giorno lei inforcava lenti riposanti con una montatura rosa. Normali frequentazioni che in poco tempo avevano messo a nudo le debolezze di entrambi ed un fuoco di paglia affettivo che lei aveva poi lasciato estinguere lentamente, senza ragione, senza notificargli alcun avviso di sfratto dal novero dei contatti rilevanti. Lui era sempre stato tutt’altro che invulnerabile e lei lo aveva piegato brevemente a parafulmine delle sue burrasche emotive. L’affetto che cede troppo frettolosamente il passo alla fiducia e alla faciloneria, per provare a gettar via definitivamente la maschera bianca e farsi accarezzare da quelle parole cariche di sensuale trasporto, riconoscendone il reale tepore, non aveva fatto altro che spogliare la sua schiena dinanzi alla frusta. L’aveva richiamata per chiederle semplicemente come stava, nella agognata signorilità che intendeva sottendere ad ogni suo gesto. E lei si era lasciata nuovamente avvolgere dal suo abbraccio, chiedendogli di stringerlo, mentre ancora finiva di piangere lacrime calde da quel suo occhio annerito dagli ultimi pugni presi dalla vita. E lui aveva acconsentito a cingerla.
Ora lui sorseggiava piano il suo dolce intruglio e la ascoltava parlare. Ascoltava i suoi progetti e le sue ansie, le sue difficoltà e la sua voglia di riscatto sbandierata in aria con una gestualità degna di una pala eolica a Trieste. Ed una frase intercalava i suoi discorsi pronunciati con verbi in tempo futuro ed in prima persona plurale, la frase “ti voglio bene”. Lui assorbiva in silenzio mentre le disgustose zanzare non erano più solo un ronzio fastidioso. La sua mente rimbombava di quel ti voglio bene, di quel “faremo”, “andremo”, “vedremo”…rimbombava di quella semplicistica capacità di girare pagina e dare tutto per scontato, vanificando in un attimo tutta la sozzura che lui aveva dovuto mandar giù per accettare di essere stato trattato come un viscido fazzoletto usato. E lei piano piano lo ergeva ad eroe e salvatore di un’esistenza scomposta e squallida, lei così convinta finalmente di farsi afferrare dalle sue braccia per sempre, così decisa e convinta a farsi sollevare dai sentimenti del costui silenzioso e dallo sguardo celato dalle lenti scure, costruiva intorno a quell’immagine di loro due la sua speranza di riscatto, e tenero giaciglio per le sue ferite.
La mente di lui rimbombava, e intorno alle zanzare una feccia idea si spacciava per felicità e speranza. E sentiva premere un sangue ribollente dalle cicatrici inferte dalla frusta sulla sua pallida schiena. L’ultima speranza di lei e l’ultima umiliazione di lui.
Mentre lei quasi piangeva nel tratteggiare le emozioni della loro comune rivincita contro la vita, cominciava a piovere forte e le zanzare si moltiplicavano rubandogli l’aria e abusando del suo respiro. Allargò il nodo della sua cravatta per lasciar riempire la laringe nella lurida caccia all’ossigeno intentata contro i vermi. Lasciò che il giornale si abbandonasse sul tavolo e vuotò la tazza leccandone l’orlo cremoso. Lei aveva completato il suo monologo incessante e gli allungava le dita elemosinando il suo amore e le sue parole. Lui s’alzò e la circondò coi suoi passi fermandosi alle sue spalle. Posò le sue mani ai lati del suo innocente collo e prese a farle un’impercettibile massaggio con i palmi e i pollici. Lei dondolava lievemente e dolcemente palpitava a quei docili sussulti. Sospirando. Mentre lui guardava fuori la pioggia diventare sempre più intensa. Guardava il ribrezzo verso tutti i pidocchi che lo circondavano nella calca del locale, e a cui doveva l’asfissia delle narici ed il sudore alla schiena. Ne sentiva l’odore e ne odiava l’esistenza. Ciarlare e gracchiare sul niente che riempiva le loro deplorevoli insensate vite. Li avrebbe presi uno per uno per la gola e schiantati contro un muro senza alcuna ragione tranne che per la loro stessa colpa di essere. Mentre la figura tra le sue mani sospirava e gemeva. Lei provò a poggiare le sue mani su quelle di lui per trascinarle in basso, farlo chinare e strappargli un bacio. Ma la morsa di lui si faceva più stretta intorno al suo collo ed il volto di lei si atterriva di un atroce presentimento. Lui si chinò sul quel viso agghiacciato, ne sentiva il freddo profumo, e baciandola intensamente dietro l’orecchio, abbandonò la presa, la testa e la vita di lei sussurrandole adagio: “fottiti…”.
Raccolse il cappotto e si avviò verso l’uscita. Un sorridente giovanotto lo raggiunse chiedendogli il pagamento del conto. Offre la signora - rispose lui senza curarsi di nulla. Mente cominciava a bagnarsi sotto la pioggia ripose i suoi grossi occhiali scuri nella debita custodia e stringeva il biglietto mai lasciato tra le dita. Rileggeva quelle parole come una sentenza, uno specchio ed una maschera di cui non si sarebbe mai potuto privare del tutto. Una ragazza lì vicino riconobbe in quell’alto signore vestito di nero, e senza ombrello, l’attore che la sera prima aveva applaudito in teatro. Lo avvicinò con discrezione e riverenza chiedendogli se avesse bisogno di un riparo. Lui piegò il suo sguardo sulla creatura che gli rivolgeva la parola, la guardò con sdegno e commiserazione. No – rispose, e sputando in terra a pochi centimetri dagli stivali di lei, si allontanava sollevando il bavero del suo cappotto e lasciandosi alle spalle minuscoli pezzettini di carta di un vecchio biglietto. Non sarebbe guarito, la partita era persa, un asso di cuori non l’avrebbe salvato.
mercoledì 30 gennaio 2008
Una maschera bianca
lunedì 28 gennaio 2008
Volevo fare il pilota di Formula 1
(ad un'estetista mancata, che resta pur sempre un'esteta del linguaggio pulp-aulico...)
Primo giorno di un nuovo, ulteriore, incarico lavorativo.
Alcor: Buongiorno avrei bisogno di parlare con il Preside...
Tizio intento a sbrodolare la colazione giocando a FreeCell al pc: Buongiono, perché deve parlare col Preside?
Alcor: Perché mi hanno inviato qui dalla sede centrale, e vorrei sapere di cosa esattamente dovrei occuparmi... nonché avrei bisogno di qualche firma sui verbali di presenza...
Tizio: il Preside non c'è oggi...
Alcor: Ed il prof. X?
Tizio: No, non c'è...
Alcor: ...Ed il prof. Y??
Tizio: è fuori tutta la settimana...
Alcor: ... ED IL PROF. Z???
Tizio: ...leggo proprio in questo momento che ha spostato il giorno del ricevimento da oggi a domani mattina...
Alcor: ... quindi ho fatto un viaggio a vuoto e non posso fare niente (tra me e me, ad alta voce...). Ok, a domani... Gentilissimo, arrivederci (ricomincia da capo il gioco, fesso, è tutto sballato...).
Vediamo un po'... mattinata persa per soli 10 min. utili a comprendere che a causa del lunedì fascista di questa gentaglia, io non posso effettuare le mie 6 ore di lavoro programmate. Ciò è un problema perché la scaletta è rigidissima e devo raggiungere il monte ore entro la data prestabilita dal mio succulento contratto... allorché, poco male. Io ci ho messo impegno, onestà, rottura di scatole nell'educare la mia sveglia anarchica, benzina, usura pneumatici, usura nervosa al traffico, le goccette di profumo in più che mi dedico solo quando mi reco al lavoro o ad appuntamenti di notevole interesse empirico... Ergo, sul mio registro le 6 ore risulteranno ugualmente. Solo che, legalmente e paradossalmente, il perseguibile disonesto risulterei essere io, mentre i provoloni latitanti sono gli intoccabili verginelli della società attuale. Ma poichè Io sono il signore dio mio, e non avrò altro dio all'infuori di me, me ne frego altamente...
Ma quello che mi frulla dentr' a' capa durante l'adirato sorpasso sulla superstrada, è altro... lo so che la psichedelia congenita non si addice a chi gioca tra la vita e la morte al volante di un bolide, tra cordoli, chicane, paraboliche, e fermate ai box per urinare... però, è uno dei pochi sport dove gareggi seduto e dimagrisci stando fermo, scegli le donne come se stessi scegliendo i pneumatici, e ti infilano soldi in tasca con il bocchettone del carburante che ha mezzo metro di diametro! E poi diventi amico a Briatore, vuoi mettere? A che ti serve più un curriculum di 5 pagine che quando lo presenti si annoiano pure a leggerlo? Una volta ad uno dei colloqui di lavoro della mia immatura giovinezza, anziché chiedermi curiosità o dettagli sulle pubblicazioni, si sono limitati al quesito fondamentale: "Lei è fidanzato?" Allorché io risposi alla donna di mezz'età che mi esaminava: "Perché me lo chiede? Vuole esercitare mobbing nei miei confronti? E me lo dice così? Ma poi non c'è gusto...". Una risposta che certamente non mi ha consentito di farmi offrire un caffè dalla responsabile delle Human Resources. Ma tanto, è il prezzo da pagare per mantenere alta la bandiera del mio pupo, pupo io, pupo lei, pupi tutti, ma dei pupi ne parliamo un'altra volta...
Se quella volta da bambino non avessi fatto quel testacoda col go-kart falciandomi quasi il piede sinistro, probabilmente adesso anziché prestare attenzione al prezzo del greggio e della benzina, starei a dilapidarla gironzolando intorno ad un circuito, fregandomene del fatto che c'è gente che per riscaldarsi usa vecchie stufe a legna perché non può permettersi il kerosene... Avrei una scuderia di Lamborghini nel mio garage largo un ettaro, e perderei ore intere per scegliere con quale cazzo di macchina uscire, facendo spazientire la pupa viziata di turno; mentre adesso il rottame familiare compie il suo dovere con rapidità e scaltrezza, e gli interni sono abbastanza accoglienti nonostante l'approssimarsi inevitabile ed ineludibile dello sfasciacarrozze.
Me ne andrei a Montecarlo per non pagare le tasse, (vabbè ora torna Tremonti, e il problema lo risolvi ugualmente), e guarderei il mare da uno yacht... mi giro intorno, non ci sono fumi e montagne ai bordi del golfo però. C'è una barca che procede piano, è D'Alema... che faccio, lo sparo? No meglio di no, non sono mica Vittorio Emanuele che la faccio franca come niente fosse, e poi chiedo pure il riborso spese allo Stato perché i miei antenati hanno rotto il cazzo per un secolo svendendo il risorgimento ad un cornuto pelato ex socialista e che si muoveva sul balcone di Piazza Venezia come il pupazzetto della Duracell...
Non sono queste le barche che mi farebbero sentir vivo per oltre un'oretta... Come quando ti appoggi al parapetto di un terrazzo e scorgi un mare stupendo che però non è quello che ti ha sussurrato la cera del vento mentre imparavi a parlare e a muovere i primi passi, e perdevi il primo dentino. Ti sembra di guardare un dipinto, ma tu non ci sei dentro fino in fondo, non ti hanno ritratto lì, puoi solo amarlo da lontano, pur avendolo stampato nello sguardo. Il tuo mare lo vivi dentro, sbuffa s'acciglia e si distende nell'eco dei ricordi, della nostalgia e di un quieto silenzio di un rosso tramonto sul profilo della tua casa che guarda ad est, dove sorge il Sole.
sabato 26 gennaio 2008
Hai troppo sole, poco sole? Più acqua, meno acqua? Rispondi!!!
A casa mia succedono cose strane... le piante... io le annaffio ma loro muoiono lo stesso... la frutta marcisce... i muri... sembra che avanzino...
Questo sabato sono stato io a dar buca alla marmaglia. Le ragioni attraversano le più vaste e minuzione radiazioni nell'iride dell'indolenza, in tutte le sue multiformi qualità o degenerazioni. Sono alla mia consueta scrivania, con accanto un volumetto dalla copertina verde e la pagina semi aperta sui miei bei modelli matematici. Pensandoci, potrei anche andare a letto, ma sono diversi mesi ormai che non riesco ad addormentarmi se non sfioro abbondantemente il cambiamento di data. Un giorno non è mai abbastanza per riempire il niente a cui approda ineluttabilmente il limite della mia funzione esistenziale quando la variabile X=soddisfazione tende a + infinito, da destra, da sinistra, è la stessa curva senza asintoti e dominio pari a tutto l'insieme reale; il tempo è una sinusoide che segue un periodo talmente prevedibile, che quasi quasi si sa già che alla fine non ci sarà mai un punto di massimo assoluto. Quindi è inutile dissipare ore e sprecare materia grigia a calcolare le derivate prime dell'esperienza al fine di massimizzare la funzione... l'eterno ritorno non perdona, my dear... Quindi, punti di massimo relativo: la corsetta domenicale clima permettendo, una rigorosa lustrata ai miei ambienti così razionalmente patinati e inseriti nel gelido ordine della preservazione, una cinica risatina di ironica autocommiserazione patriottica nel leggere quanto scrive Sua Riverenza The Economist a proposito dell'Italia Spa, il barattolone da 20 Kg di nutella, la Sacher Torte... come cos'è? Cioè lei non ha mai assaggiato la Sacher Torte?!... Va be' continuiamo così, facciamoci del male... Sono fatto così, osservo tutto e non mi sfugge nulla, mi s'incastona tutto nella mente, che posso farci? Come mi si è incastonato il fastidio endemico verso questa strampalata musichetta latina che perviene a me dall'aere circostante non abbastanza percosso dal vento. E non hai pietà tu di me? Tutto dovrebbe avere una sua logica perfetta, senza sbavature, senza tentennamenti che possano ledere quel sottile lembo di fiducia che consente ancora un dialogo pulito, e finanche tollerare il germogliare di affetti ed i temporanei ripieghi delle meccaniche mentali, a favore di liete e morbide piroette dell'affetto e della sublime bontà. Ma ciascuno a suo modo, ciascuno a seconda della pressione con cui ha, nel suo incedere dell'età, imparato a calcare il mondo con le proprie personalissime suole... Ogni scarpa una camminata, ogni camminata una diversa concezione del mondo. Ogni volta una voce diversa con cui fare i conti e di cui decidere se accettare o meno il calore delle promesse. E com'è difficile accettare la promessa di un voler bene, lungo la giostra dell'eterno ritorno... Quando la camminata del mittente affettivo non è sempre quella che la gabbia razionale ed emotiva di chi osserva e scruta s'aspetta, o percepisce dentro; a dispetto delle parole che si impacchettano come addobbi riciclati annessi alle promesse scontate di un'amicizia, o di un legame che è qualcosa in più. Non è consentita l'incostanza, nessuna pausa. Legarsi è come una luce che non si esaurisce, non puoi chiedere al Sole di spegnersi per una personale comodità o una perplessità. Purtroppo però, nella solita giostra che sale e riscende, la luce inciamperà sempre in ombre, le quali non sfuggono a chi ha l'occhio dell'anima, il terzo occhio, perennemente vigile... Sarebbe meglio allora un'ombra fitta della più normale indifferenza. Mi deludono. Gli amici deludono, la gente normale no. Cominciano a dirti bugie, poi si separano, poi ritornano però è troppo tardi, perché ormai sono feriti e cattivi e allora non li voglio più vedere. Una volta era più facile giudicare, come con le scarpe: c'erano solo alcuni modelli, molto caratterizzati, erano quel tipo di scarpe e basta. Ora invece tutto è più confuso, uno stile si è intrecciato a un altro, le cose non sono più nette... gli amici non possono comportarsi cosí, perché io mica divento amico del primo che incontro. Io decido di voler bene, scelgo; e quando scelgo è per sempre.
Stasera che il vento da nord mi importuna la staffa, l'incudine, il martello e la tromba d'Eustachio con i rimbombi di una festicciola paesana celebrata non m'importa dove, dedico le parole su scritte ad una persona che io ho scelto di voler bene. Una persona che è venuta in punta di piedi ad accomodarsi tra le mie parole, con la semplicità e la fresca attenzione che può avere una primula foglia di mandorlo al ritirarsi del buio ambasciator dell'equinozio. E che non s'è sempre accorta del fraterno calore che per lei ho infuso spesso in questi spiragli del mio animo. Che ho trattato a volte male, come si addice alla solerzia con cui si desta la predominanza istintiva del maschio dal superbo accento posto anche sui confetti dei più saccariferi pensieri... ed un orgoglio che mi sostiene come il piede destro regge il Veglio di Creta. Quando è venuta a salutarmi mi sono sentito come un anziano che ha liberato dalla sua gabbietta un cardellino che non ha soltanto cantato per diletto e compagnia. Ma ha rappresentato un'àncora d'affetto vero, reale, quantunque idealizzato. Felice sì per quella libertà, ma con una stretta commossa dentro. Come quando una sorellina prende un transatlantico e non sai se ritornerà, se ti scriverà mai (facendo finta di essere nei primi giorni del secolo scorso ovviamente; oggi basta un volo low-cost, internet e skype, e la poesia dell'abbandono va a finire nello scarico del cesso del destino). Gli amici ti deludono, io mi deludo, ma un pensiero come quello che ho curato non lo farà mai... sorellina.
(Il testo è impreziosito da una marea di citazioni del film Bianca (1984) di Nanni Moretti, una recensione atipica in cui ogni probabile riferimento al mio modo di essere è puramente casuale)
L'ultimo bagliore del Sole
Devo scavarmi una nuova casa.
Le strade e le caverne dove spesso mi riparavo
Sono un’unica minaccia per me adesso.
Ma io, io cercherei ovunque
Solo per sentire chiamare il tuo nome.
E camminerei su strade più ostili di questa
In un mondo che era la mia casa.
Ho perso molto più d'ogni cosa.
Del sole che si riflette sul mio cuscino
Portando il calore della nuova vita.
E dei sussurri che echeggiano intorno a me,
ho colto un'ombra fugace nella notte.
Ma ora, ora ho perso tutto,
Ti avrei dato la mia anima.
Eri il significato profondo di tutto quello in cui credevo prima
Che ora mi sfugge in questa terra di nessuno, di nulla.
Ed io cercherei ovunque
Solo per sentire chiamare il tuo nome
E camminerei su strade più ostili di questa
In un mondo che era la mia casa.
Poiché ora ho perso tutto,
Ti avrei dato la mia anima.
Genesis, Afterglow, Wind & Wuthering 1976.
Traduzione by Alcor
giovedì 24 gennaio 2008
24/01/2008, dopo 18 mesi... Pezzi di bip bip bip bip bip!!!
De profundis clamavi a te, Domine: * Domine, exaudi vocem meam.
Fiant aures tuae intendentes, in vocem deprecationis meae.
Si iniquitates observaveris, Domine: * Domine, quis sustinebit?
Quia apud te propitiatio est, * et propter legem tuam sustinui te, Domine.
Sustinuit anima mea in verbo eius, * speravit anima mea in Domino.
A custodia matutina usque ad noctem, speret Italia, in Domino.
Quia apud Dominum misericordia, * et copiosa apud eum redemptio.
Et ipse redimet Italia, * ex omnibus iniquitatibus ejus (Berlusconibus).
Requiem aeternam dona eis, Domine: et lux perpetua luceat eis.
Requiescant in pace.
Amen.
(sempre meglio delle poesie di Bondi...)
martedì 22 gennaio 2008
E' così che mi sento quando mi sento così
Si scolpiscono nodi sui tronchi degli alberi raffiguranti gesta graffiate nella pausa gaudente tra inseguenti tramonti e acquiescenti albe. Non c'è riposo che sappia soffiare zolfo sulle fiamme... L'astro incede alle spalle allungando l'ombra sconosciuta innanzi e dentro. E le parole non hanno mai lo stesso abito che traveste il medesimo pensiero, ed il terreno non resiste a lungo a chi galoppa incatenato alla medesima zolla. Non ci sono radici a nutrire e saldare la voglia, la bandiera non è schiaffeggiata dalla rinuncia, e striscia la rivalsa che cinge i perimetri del giudizio.
oziando nell'afa meridiana
ridendo tra l'erba e le tombe
uccellino giallo, non sei solo
a cantare e voler volartene via
a ridere ed voler andar via
Salice che piangi nell'acqua
salutando le figlie del fiume
oscillando tra le increspature e le canne
in un viaggio verso Cirrus Minor
ho visto un cratere nel sole
dopo un migliaio di miglia dalla luce della luna.
Waters
domenica 20 gennaio 2008
Dove le strade non hanno nome
Ma questo era decisamente il mio giorno fortunato perché tutto sembra girare per il verso giusto. Perché non appena varchiamo la soglia del multisala collocato a
L'ultima volta che ho superato i consueti 3 hm/ora è stato 5 mesi fa', ma soprattutto
Il vento s'è subito stroncato, anche se io lo pL'ultima volta che ho superato i consueti 3 hm/ora è stato 5 mesi fa', ma soprattutto
Ma non ce la facevo a dare fuoco ai miei polmoni così come l’adrenalina stava facendo con la mia anima. Forse inconsapevolmente rallentavo mentre l’impeto si nutriva di rabbia e riscatto, e un urlo furioso mi stava svuotando le membra di quella torbida esistenza che mi esilia tra le gabbie delle responsabilità e dell’umana sociale inclinazione a non sbattere la porta in faccia al prossimo tuo. Più veloce! Al diavolo i polmoni se non riescono a reggere il passo della mia feroce sete di libertà, crepassi pure così, con un’overdose di vento e follia. Cacchio non mi sono neanche accorto d’aver calpestato un cane morto sul ciglio della strada…
Pochi minuti, e tutta l’aria della valle non basta a saldare il debito contratto con la realtà.
Il cerchio del tragitto si è chiuso a stento e in un’apnea che non mi regge gli occhi aperti. Mi appoggio alla macchina e guardo estraniato sorseggiando acqua gelata tanto per contendermi il pomeriggio con un’eventuale congestione, mi spengo lentamente, mi imbalsamo. Non c’è niente che si muove sotto la mia attenzione. So che devo rientrare perché altrimenti rischio di non trovare parcheggio sotto casa, la domenica è sempre un caotico pascolare di automobili e abiti chiari.
Per fortuna che non ho fiato per mandare a quel paese chi viene ad aprirmi la porta di casa con lo sguardo confortato dal fatto che non mi è venuto l’infarto.
Domani ricomincia la patetica giostra delle incombenze con indirizzi, strade numerate e tragitti programmati, ma dopodomani sarà un altro giorno, un giorno che non è sempre solo un intervallo tra due notturni transitori, una fuga dove le strade non hanno nome.Ma non ce la facevo a dare fuoco ai miei polmoni così come l’adrenalina stava facendo con la mia anima. Forse inconsapevolmente rallentavo mentre l’impeto si nutriva di rabbia e riscatto, e un urlo furioso mi stava svuotando le membra di quella torbida esistenza che mi esilia tra le gabbie delle responsabilità e dell’umana sociale inclinazione a non sbattere la porta in faccia al prossimo tuo. Più veloce! Al diavolo i polmoni se non riescono a reggere il passo della mia feroce sete di libertà, crepassi pure così, con un’overdose di vento e follia. Cacchio non mi sono neanche accorto d’aver calpestato un cane morto sul ciglio della strada…Pochi minuti, e tutta l’aria della valle non basta a saldare il debito contratto con la realtà.Il cerchio del tragitto si è chiuso a stento e in un’apnea che non mi regge gli occhi aperti. Mi appoggio alla macchina e guardo estraniato sorseggiando acqua gelata tanto per contendermi il pomeriggio con un’eventuale congestione, mi spengo lentamente, mi imbalsamo. Non c’è niente che si muove sotto la mia attenzione. So che devo rientrare perché altrimenti rischio di non trovare parcheggio sotto casa, la domenica è sempre un caotico pascolare di automobili e abiti chiari.Per fortuna che non ho fiato per mandare a quel paese chi viene ad aprirmi la porta di casa con lo sguardo confortato dal fatto che non mi è venuto l’infarto.Domani ricomincia la patetica giostra delle incombenze con indirizzi, strade numerate e tragitti programmati, ma dopodomani sarà un altro giorno, un giorno che non è sempre solo un intervallo tra due notturni transitori, una fuga dove le strade non hanno nome.
venerdì 18 gennaio 2008
Choose Life!
Sono nato di venerdì, il 12 novembre del 1982 alle ore 9.00 del mattino, più o meno. All'orizzonte di sud-est stava facendo capolino la costellazione dello Scorpione. Questo fa di me uno Scorpione ascendente Scorpione, se ho ben capito l'architrave del mio destino.
Ed anche se l'avessi fatto, i buoni propositi sono tutte scuse utili per giustificare il fatto che oggi faccio quello che cazzo mi pare, domani... pure, dopodomani... non so nemmeno se ci sto ancora, quindi è inutile fare programmi.
Sono ben altre le apparenti scorciatoie verso la felicità che mi inducono a deviare, e da fesso imbonito dalle belle parole, ci casco quasi sempre. Spesso però alla felicità ci sono andato vicino, altre volte mi sono fracassato le ghiandole dell’impazienza dopo pochi minuti in cui ho dovuto fingere di prestare attenzione ad assurdità monumentali. Altre volte un taxista più desto sarebbe stato più utile a recitare la mia commedia, però quando mi affeziono anche al pattume non riesco a mandarlo via in discarica con disinvoltura e semplicistico senso di superiorità morale. Alla fine chi se ne frega? Un pappagallo impiccato in camera fa la sua bella figura, almeno agli occhi di chi ti crede un collezionista di falsi d’autore di statue di cera.
Si può sempre scegliere quando ci si sveglia alle 6.00 di mattina per andare a correre tra i verdi campi, e ritrovarsi la campagna affogata nella nebbia, ed un sole più sbronzo di te a cui non è suonata la sveglia. Si può sempre scegliere di farsi scrupoli minuziosissimi, talmente minuziosi che non li capisce nessuno; si può scegliere di prendere l’autostrada con il motore che cigola ed il tergilunotto posteriore con l’asma. Si può scegliere di fare una passeggiata romantica in riva al mare con una tizia, a piedi nudi sotto un cielo stellato, e mentre cerchi di scrutare il suo volto alla ricerca di una convergenza di intenti, ritrovarti una lamina di latta di una scatoletta di tonno da
Si può sempre scegliere di andare a letto senza lavarsi le mani e i denti, e che l’epatite e la carie verranno a quella nostra foto appesa in camera dalla mamma laddove avresti preferito un poster di Syd Barret strafatto di LSD, manco se fossimo tutti figli di penna di Oscar Wilde. Si può scegliere di pensare che vado a donare il sangue all’autoemoteca per scroccare una merendina e un succo di frutta ACE, e che l’anonimo che si beccherà i miei globuli rossi e le mie piastrine vivrà qualche giorno in più per colpa mia.
Si può scegliere se fare il pornoattore o il prete pedofilo, alla fine ti annoi in ogni caso. Basta essere certi di poter scegliere.
Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cazzo, scegliete lavatrice, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita, scegliete un mutuo a interessi fissi, scegliete una prima casa, scegliete gli amici, scegliete una moda casual e le valigie in tinta, scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo, scegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina, scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi, scegliete un futuro, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos'altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni, chi ha bisogno di ragioni quando ha un blog dove sparare stronzate e perdere tempo… date anche a me una borsa con 16.000 sterline e forse la testa a posto la metterò anche io.
giovedì 17 gennaio 2008
Fregatura del giorno
Un motivo di tutto rispetto per odiare la spia blu che annuncia l'arrivo di una mail...
17 gennaio 2008
Gentile dr. *Alcor*,
Come anticipato all'amica (omissis), la ns. Federazione a Chicago, al momento, non dispone di una sede permanente presso la quale, come previsto dalla L.R., potrebbe svolgere
Ho inoltre interpellato
Siamo spiacenti che, in questo momento, non siamo in grado di potere accogliere
Cordiali saluti,
(omissis)
mercoledì 16 gennaio 2008
Lost for words
Mi sta capitando di scrivere molto poco ultimamente, e non solo perché le mie giornate si stanno intensificando con un sanissimo e benvenuto lavoro; anzi tra qualche giorno la mole degli impegni si aggraverà ulteriormente. C'è una strana barriera che si sta interponendo tra me e le pagine, e non mi va per niente di fare le cose giusto per farle. Ho deliberatamente deciso che voglio occuparmi marginalmente di alcuni argomenti, quindi non parlerò con facilità di Mastella che (forse) si dimette, del Papa invitato a tenere una lectio magistralis nella tana di tutti quegli eretici pazzi illuministi che dedicano la vita alla ricerca e alla vituperata scienza... e scusatemi, ma una punta di coinvolgimento professionale ed emotivo qui me la concedo. Nonostante la mia ricerca si limiti a sfiorare l'etica e la coscienza morale nei connotati ambigui e pretestuosi che questa nozione sta assumendo oggigiorno. Eppure quando sento il teologo teutonico dissertare dell'importanza della stabilità del lavoro e della necessità di un mercato più equo, gli offrirei con simpatia un laicissimo caffè. E' l'Umanesimo che ci frega amico mio... la mia vita è troppo preziosa per sprecarla a dar retta alle dottrine di un presunto diritto naturale inesistente o quanto meno dannoso (Hobbes docet).
(Un inciso, c'era un tempo in cui disseminavo citazioni a destra e a manca, lo faccio ancora, solo che non cito le fonti per pigrizia; non è insicurezza, non è vanità, è rispetto per coloro che hanno saputo interpretare pensieri universali che possono appartenere a chiunque, nella fattispecie a me)
Mi verrebbe di poter scrivere delle mie giornate da girovago, ma non ne vedo l'importanza. Potrei stare qui ore e secoli ad attendere che mi si rischiari tutto, per poi capire che non c'è davvero nulla di importante con cui presentarsi e caratterizzarsi. Nemmeno qualcosa per cui esser tristi. Posso osservare l'indifferenza e la freddezza che mi si para davanti con una mostruosa ed inattesa facilità e trattenermi dinanzi ad esse pensando che non ne vale la pena; posso afferrare qualche risentimento e conservarlo in una teca di plastica per esporlo nella mia collezione di piccole debolezze, ma che ci sia spazio o meno per tutte questa polvere, che senso ha?
Mi piacerebbe saper parlare di un amico che da tempo sentivo di aver perso, e che stamattina ha accettato che io gli offrissi un caffè, non laico, non superstizioso, ma semplicemente affettuoso.
Oggi, e non solo oggi non sono capace di scrivere nulla di tutto questo. Le parole hanno un potere e creano legami, dipingono maschere ed evocano voci che spesso non parlano, non ti ascoltano, non ti considerano nonostante le promesse. Ogni dannata parola che fuoriesce dalle labbra è una promessa che non sarà mantenuta, perché non si comprende mai fino in fondo lo spessore delle attese che si possono innestare nell'anima. Nessun uomo è un'isola, non soltanto perché la nostra storia è la storia di ognuno, ma perché non esiste più egoismo nel presumere di sentirsi innocui con le proprie parole.
Ed ogni fiore appassisce se non se ne ha cura, soprattutto il virgulto di quella pianta delicata e poco resistente alle intemperie, quella che non sa radicarsi sulla roccia, quella che si lascia trafiggere da un Sole troppo prodigo o si affloscia se questi è troppo avaro. Quella che reca con sé più delusione, ma più meraviglie. Il pianto versato sui relitti troppo tardi non restituirà mai quella linfa che inconsapevolmente riusciamo a negare per le promesse mancate o disconosciute; e tutto è una promessa, ogni singolo passo verso chi in un attimo di debolezza ci appare indispensabile, che poi si perde lentamente durante i deboli istanti della traballante memoria, ed il giorno dopo è meritevole della stessa attenzione di una lattina caduta erroneamente nella raccolta differenziata per la carta.
Ma non è così per chi talvolta ascolta in silenzio. Non esistono esseri perfetti al mondo, ed è per questo che non esistono errori assoluti. Non c'è nessuno che sia errato, o qualcuno che pensi di sentirsi eletto, c'è solo tanta incoscienza e tanta superficialità nel pensare alla propria solitudine, alla propria inesistente e vacua indipendenza. Ma quanta perfezione può nascere in un incontro vero... quanti errori che sembrano indelebili possono spegnersi in una notte di stelle... quanta sincerità può trasmettersi se a parlarsi sono soltanto gli sguardi. Quanto può far bene una carezza sul viso che scivola lenta, su quel balcone esposto alla notte, che sembra cancellare quel profilo sbagliato che emerge sui volti irriconoscibili di chi non vuole guardarsi vivere; un nuovo lineamento che non si sgualcisce con le parole, perché gli occhi sanno toccare con la giusta misura quella corona di chiaroscuro e taciti riflessi che dipingono l'anima come un velo mirabile, un'aura cromata che non è capace di lasciarsi dimenticare.
lunedì 14 gennaio 2008
Sincerità
René Magritte, Riproduzione vietata (Ritratto di Edward James), 1937.
E tu, come mi osservi?
"Ciò che è importante è proprio questo momento di panico, non la sua spiegazione."
(R. Magritte)
venerdì 11 gennaio 2008
Guardiamo il cielo
Intanto, prima di andarmene, lo sguardo al cielo lo rivolgo ancora. Al Triangolo d'Inverno, che possa congelarmi il cervello!
giovedì 10 gennaio 2008
Il Corvo (E. A. Poe)
Una volta in una fosca mezzanotte, mentre io meditavo, debole e stanco,
sopra alcuni bizzarri e strani volumi d'una scienza dimenticata;
mentre io chinavo la testa, quasi sonnecchiando - d'un tratto, sentii un colpo leggero,
come di qualcuno che leggermente picchiasse - pichiasse alla porta della mia camera.
« È qualche visitatore - mormorai - che batte alla porta della mia camera »
Questo soltanto, e nulla più.
II.
Ah! distintamente ricordo; era nel fosco Dicembre,
e ciascun tizzo moribondo proiettava il suo fantasma sul pavimento.
Febbrilmente desideravo il mattino: invano avevo tentato di trarre
dai miei libri un sollievo al dolore - al dolore per la mia perduta Eleonora,
e che nessuno chiamerà in terra - mai più.
III.
E il serico triste fruscio di ciascuna cortina purpurea,
facendomi trasalire - mi riempiva di tenori fantastici, mai provati prima,
sicchè, in quell'istante, per calmare i battiti del mio cuore, io andava ripetendo:
« È qualche visitatore, che chiede supplicando d'entrare, alla porta della mia stanza.
« Qualche tardivo visitatore, che supplica d'entrare alla porta della mia stanza;
è questo soltanto, e nulla più ».
IV.
Subitamente la mia anima divenne forte; e non esitando più a lungo:
« Signore - dissi - o Signora, veramente io imploro il vostro perdono;
« ma il fatto è che io sonnecchiavo: e voi picchiaste sì leggermente,
« e voi sì lievemente bussaste - bussaste alla porta della mia camera,
« che io ero poco sicuro d'avervi udito ». E a questo punto, aprii intieramente la porta.
Vi era solo la tenebra, e nulla più.
V.
Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito impaurito
sospettoso, sognando sogni, che nessun mortale mai ha osato sognare;
ma il silenzio rimase intatto, e l'oscurità non diede nessun segno di vita;
e l'unica parola detta colà fu la sussurrata parola «Eleonora!»
Soltanto questo, e nulla più.
VI.
Ritornando nella camera, con tutta la mia anima in fiamme;
ben presto udii di nuovo battere, un poco più forte di prima.
« Certamente - dissi - certamente è qualche cosa al graticcio della mia finestra ».
Io debbo vedere, perciò, cosa sia, e esplorare questo mistero.
È certo il vento, e nulla più.
VII.
Quindi io spalancai l'imposta; e con molta civetteria, agitando le ali,
si avanzò un maestoso corvo dei santi giorni d'altri tempi;
egli non fece la menoma riverenza; non esitò, nè ristette un istante
ma con aria di Lord o di Lady, si appollaiò sulla porta della mia camera,
s'appollaiò, e s'installò - e nulla più.
VIII.
Allora, quest'uccello d'ebano, inducendo la mia triste fantasia a sorridere,
con la grave e severa dignità del suo aspetto:
« Sebbene il tuo ciuffo sia tagliato e raso - io dissi - tu non sei certo un vile,
« orrido, torvo e antico corvo errante lontanto dalle spiagge della Notte
« dimmi qual'è il tuo nome signorile sulle spiagge avernali della Notte! »
Disse il corvo: « Mai più ».
IX.
Mi meravigliai molto udendo parlare sì chiaramente questo sgraziato uccello,
sebbene la sua risposta fosse poco sensata - fosse poco a proposito;
poichè non possiamo fare a meno d'ammettere, che nessuna vivente creatura umana,
mai, finora, fu beata dalla visione d'un uccello sulla porta della sua camera,
con un nome siffatto: « Mai più ».
X.
Ma il corvo, appollaiato solitario sul placido busto, profferì solamente
quest'unica parola, come se la sua anima in quest'unica parola avesse effusa.
Niente di nuovo egli pronunziò - nessuna penna egli agitò -
finchè in tono appena più forte di un murmure, io dissi: « Altri amici mi hanno già abbandonato,
domani anch'esso mi lascerà, come le mie speranze, che mi hanno già abbandonato ».
Allora, l'uccello disse: « Mai più ».
XI.
Trasalendo, perchè il silenzio veniva rotto da una risposta sì giusta:
« Senza dubbio - io dissi - ciò ch'egli pronunzia è tutto il suo sapere e la sua ricchezza,
« presi da qualche infelice padrone, che la spietata sciagura
« perseguì sempre più rapida, finchè le sue canzoni ebbero un solo ritornello,
« finchè i canti funebri della sua Speranza ebbero il malinconico ritornello:
« Mai, - mai più ».
XII.
Ma il corvo inducendo ancora tutta la mia triste anima al sorriso,
subito volsi una sedia con ricchi cuscini di fronte all'uccello, al busto e alla porta;
quindi, affondandomi nel velluto, mi misi a concatenare
fantasia a fantasia, pensando che cosa questo sinistro uccello d'altri tempi,
che cosa questo torvo sgraziato orrido scarno e sinistro uccello d'altri tempi
intendea significare gracchiando: « Mai più ».
XIII.
Così sedevo, immerso a congetturare, senza rivolgere una sillaba
all'uccello, i cui occhi infuocati ardevano ora nell'intimo del mio petto;
io sedeva pronosticando su ciò e su altro ancora, con la testa reclinata adagio
sulla fodera di velluto del cuscino su cui la lampada guardava fissamente;
ma la cui fodera di velluto viola, che la lampada guarda fissamente
Ella non premerà, ah! - mai più!
XIV.
Allora mi parve che l'aria si facesse più densa, profumata da un incensiere invisibile,
agiato da Serafini, i cui morbidi passi tintinnavano sul soffice pavimento,
- « Disgraziato! - esclamai - il tuo Dio per mezzo di questi angeli ti à inviato
« il sollievo - il sollievo e il nepente per le tue memorie di Eleonora!
« Tracanna, oh! tracanna questo dolce nepente, e dimentica la perduta Eleonora!
Disse il corvo: « Mai più ».
XV.
- « Profeta - io dissi - creatura del male! - certamente profeta, sii tu uccello o demonio! -
- « Sia che il tentatore l'abbia mandato, sia che la tempesta t'abbia gettato qui a riva,
« desolato, ma ancora indomito, su questa deserta terra incantata
« in questa visitata dall'orrore - dimmi, in verità, ti scongiuro -
« Vi è - vi è un balsamo in Galaad? dimmi, dimmi - ti scongiuro. -
Disse il corvo: « Mai più ».
XVI.
- « Profeta! - io dissi - creatura del male! - Certamente profeta, sii tu uccello o demonio!
« Per questo Cielo che s'incurva su di noi - per questo Dio che tutti e due adoriamo -
« dì a quest'anima oppressa dal dolore, se, nel lontano Eden,
« essa abbraccerà una santa fanciulla, che gli angeli chiamano Eleonora,
« abbraccerà una rara e radiosa fanciulla che gli angeli chiamano Eleonora ».
Disse il corvo: « Mai più ».
XVII.
- « Sia questa parola il nostro segno d'addio, uccello o demonio! » - io urlai, balzando in piedi.
« Ritorna nella tempesta e sulla riva avernale della notte!
« Non lasciare nessuna piuma nera come una traccia della menzogna che la tua anima ha profferita!
« Lascia inviolata la mia solitudine! Sgombra il busto sopra la mia porta!
Disse il corvo: « Mai più ».
XVIII.
E il corvo, non svolazzando mai, ancora si posa, ancora è posato
sul pallido busto di Pallade, sovra la porta della mia stanza,
e i suoi occhi sembrano quelli d'un demonio che sogna;
e la luce della lampada, raggiando su di lui, proietta la sua ombra sul pavimento,
e la mia, fuori di quest'ombra, che giace ondeggiando sul pavimento
non si solleverà mai più!
Secondo esperimento... anche se confesso che non sono affatto soddisfatto del risultato, una poesia è molto più complicata da trasporre in un sonoro che la racconti, può esserci un bel sottofondo, ma non un'allegoria completa. Comunque, il brano è dei Pink Floyd, "Careful with that axe Eugene" un classico della psichedelia.
martedì 8 gennaio 2008
Il Barone Rampante
L'ennesimo dispetto, l'ennesima provocazione, l'ennesimo disturbare le corde tesissime e l'infinita tenzone che costringe ogni istante a fare a pugni con il facile risentimento che infesta il mondo dei normali. La finestra è aperta, supera la pioggia e il vuoto, infilza la nebbia che non si rimargina, ed il primo ramo è talmennte vicino che non occore un balzo, basta trattenere il respiro e si è già lì, in quella minima e invalicabile distanza. Dove non si dorme mai, e dove gli occhi non temono di affrancarsi un momento dai fanaloni della retorica. Un'unica verde macchia travalica tralicci e dogane, un'enorme babele che si compiace di drogarsi con gli sguardi che sanno catturare molto più del fiele di vocaboli ed orpelli linguistici di madre terra ignota. E l'uomo è sospeso, su cuscinetti di voci a cui potrebbe non prestare ascolto, e di cui non si cura affatto. Non guarda dall'alto della sua serpeggiante residenza che si permea nei più angusti valichi e nei passi più smilzi che affabulano identità insensate e appartenenze meticce, dove svolazzano inganni e soprusi. Semplicemente non guarda e non canta, e non suggerisce, traduce a suo modo quel che il silenzio degli altri che ha qualcos'altro per lui da raccontare tra le righe bianche dei respiri intercalati tra spossati discorsi di chi non ha ben chiaro la ragion del suo ciarlare. E' facile, troppo facile stancarsi di tutto questo ciarpame che ingolfa le soffitte, gli scantinati, rende sorde le stanze e mute le fessure praticate sulle pareti esterne del grande MURO per scagliare le frecce e l'olio bollente addosso agli araldi della stupidità. No che non può esserci amore né perdono, nè fratellanza e rispetto, se non lassù, sulla cima d'un acero mirando attravero le guglie del nibbio. L'amico brigante è disteso ai rami inferiori, prima che venga sgozzato implorerà perché non gli sia offerta la cicuta, leggendo Platone e Parmenide, e sarà molto più ricco delle sue spassose scorribande.
Tra gli esiliati, si riconoscono falene notturne che gli avventati furtivi residenti del giorno non hanno mai per fortuna imbrattato con i loro respiri affannati di ingordigia affarista, e con l'invidia latente d'una libertà rinnegata sbarrata nelle retine e rifratta da vilipendi e insulti.
A lagnarsi di ogni cosa, ascolta ancor cos'hanno da insegnare i nembi ed i cirri che sfidano il tramonto rosso sulla tavolozza d'un grande ingegno che sa deliziare lo sguardo con poche forme e colori. Quelli che sanno stuzzicare un immenso più piccolo che alberga in chi sa ascoltare. Viziato egoista. Pazzo e inconcludente. Quella goffa risata prima o poi esigerà il degno fio dalla sorte.
Ma che belle stelle ha la cintura d'Orione! Da quassù sembran zaffiri più puri perché l'aria è meglio considerata. Alnitak, perché mi osservi soltanto, con uno sguardo che è come una lama rovente che tenta invano di scardinarmi un orgoglio che non c'è, non facendo altro che far sanguinare un affetto vero e profondo? Parlami Alnitak... rispondimi... perchè non sai distinguere il volo di un aquilone impertinente da quello di un corvo?
Alnilam, non temere che la tua luce possa sembrarti meno azzurra di Sirio e di Rigel, m'hai spalancato gli occhi sul mio male, e non importa se non guarirò mai, almeno ne sarò cosciente...
Mintaka... Mintaka, perché mi ostino a crederti? Perché non riesco ad ingannarmi da solo senza ricorrere a fattucchiere trovate del bislacco intelletto? Mintaka io promisi che da quassù non sarei sceso, da questo albero che sospende dove non è transitata l'estate e non è mai piombato l'inverno, il cielo è una fragile porcellana dove anche una lacrima sa perforare la sfera di Tolomeo. C'è quasi da impazzire, un ragno sulla mia soffitta, non può essere che quello la macchiolina scura che ghermisce la mia anima. Non sarà la malattia a farmi scendere dove non saprei guadare i flutti e le pozzanghere delle folle anomiche che non sanno incontrarsi negli occhi. E prima della fine, prima che mi si tenti di strappare a questa estasi, per consentire al mio incerto ginocchio di dover sostenere un passo che nella terra non sa premere l'orma d'uno starnuto su scaglie di trucioli, attenderò la mongolfiera che sorvoli il salice grigio, inerpicato sulla fronda aggancerò quelle funi di disperate àncore senza pesi tese verso il nulla, e un sorriso dopo aver scavalcato il punto del mare ove è issata la vela dell'anima, ciao...
domenica 6 gennaio 2008
Amicizia e dintorni
Ettore Scola, 1974
venerdì 4 gennaio 2008
Natale a Dublino
Julia e Kate Morkan guardavano la neve cadere sui tetti di una Dublino addormentata, la loro nipote Mary Jane stava intrattenendo gli ospiti di questa serata speciale. Era tutto pronto, tutto come ogni anno per il ballo annuale di Natale organizzato dalle sorelle Morkan… Sono in ansia, Gabriel e sua moglie ancora non arrivavano, a Julia non sembrava vero che fossero passati trent’anni da quando lei e Kate avevano lasciato Usher’s Island dopo la morte del fratello Pat portando con loro i piccoli nipoti Gabriel e Mary Jane. Erano trascorsi tanti anni per la vecchia Julia, e pochi altri Natale da poter vivere ancora… Erano arrivati, Gabriel e sua moglie Gretta. Il premuroso, generoso e attento nipote a cui era destinato il discorso rituale ed il taglio dell’oca. Cominciarono la festa e le danze… erano invitati tutti i principali galantuomini e dame di Dublino, che come ogni anno lieti di rinsaldare i propri legami, rievocare le tradizioni, perpetrando usanze in onore dei cari scomparsi, come un ultimo baluardo d’orgoglio d’una vecchia austera Dublino che non si piegava alle minacce della modernità e delle culture straniere. Gabriel era teso, era incerto sulla convenienza o meno di citare Shakespeare nel suo breve e noioso discorso, lui era uno scrittore, conosceva il mondo e sentiva che quei costumi irlandesi gli stavano parecchio stretti. Miss Ivors si fece avanti e invitò il tranquillo Gabriel a danzare, ma il suo era solo un pretesto. Cominciò a tempestarlo di domande sulla sua attività giornalistica, e dopo i soliti convenevoli invitò lui e la sua famiglia a trascorrere le vacanze nelle isole Aran con altra gente di rango… Gabriel era palesemente a disagio, le sue vacanze erano sempre state nel continente, preferiva l’Italia o
La serata volgeva al termine, dopo le ultime danze, tutti attendevano la carrozza per poter tornare a casa o in albergo; dal vestibolo però si udì una voce da tenore cantare, Mr. D’Arcy intonava una melodia dolce e malinconica:
Oh, la pioggia cade sui miei riccioli grevi
E la rugiada si posa sulla mia pelle,
gelido giace il mio bambino…
La canzone venne interrotta dal tenore, e Gretta scendeva nel vestibolo con le guance arrossate, in disparte mentre tutte le altre dame si complimentavano col cantante chiedendo come mai avesse interrotto bruscamente quel canto così soave. Gretta aveva gli occhi lucidi, ed un’aria strana, come se fosse stata rapita da qualche pensiero e trasportata chissà dove, o chissà quando. Timidamente, Gretta si avvicinò a Mr. D’Arcy e chiese il nome di quella canzone. La fanciulla d’Aughrim, un’aria dolcissima.
Passeggiando sul freddo lungofiume per tornare a casa, Gretta affiancava Mr. D’Arcy, e Gabriel che da quando s’era accorto del mutamento d’umore della moglie non le aveva staccato gli occhi di dosso, la osservava facendosi cogliere da un improvviso senso di strana felicità. Fremeva Gabriel, colto improvvisamente da un desiderio di tenerezza ed ardore per la moglie, in quella fredda notte stellata dove sentiva un calore crescergli dentro; un calore tenero che gli induceva la voglia di afferrarla, stringerla, e far dimenticare loro la monotonia nella quale s’era assopita la loro passione, le preoccupazioni per i figli, il suo impegno di scrittore. Quella notte voleva dimostrarle che le incombenze domestiche non avevano soffocato il tenero fuoco dei loro animi, voleva dirle che “non c’era parola tanto dolce che diventasse il suo nome…”. Bramava di restar solo con lei, quando l’avrebbe chiamata dolcemente a sé: “Gretta!”
Giunsero in albergo, lui la osservava mentre riponeva il cappellino ed il mantello, aveva uno sguardo ancora stranito. Gabriel capiva che non era ancora il momento, ma con fare tenero si avvicinava alla moglie per cingerle i fianchi con un delicato ma ardente abbraccio. Ma lei non c’era, non c’era in quel corpo ed in quella notte. Lui le stingeva le mani, come per afferrarla ed impedirle di smarrirsi ancora di più, perché lei non c’era, non c’era affatto su quel letto ed in quel sentimento che stava divorando Gabriel di voglia. – Che cosa c’è, Gretta? – Nessuna risposta. Poi lei scoppiò in lacrime. – La fanciulla di Aughrim, ripeteva nel pianto, mi ricorda qualcuno che la cantava tempo fa’, a Galway - Dal volto di Gabriel svanì il sorriso. Nel fondo della mente cominciò ad aggrumigliarsi una collera scura e nelle vene presero ad ardergli rabbiose vampe d’ottusa lussuria.
La fanciulla d’Aughrim la cantava Michael Fury, un ragazzo che aveva trascorso l’infanzia con Gretta; trascorrevano tanto tempo insieme, erano legatissimi. Ancora le pareva di rivederla quella sua espressione gioiosa e così innocentemente innamorata. Spiazzato da una dolcezza che lo escludeva nettamente dai pensieri di colei che ardeva avvolgere nei suoi intenti bramosi, Gabriel, accecato da un’ira soppressa ma evidente, chiese se l’insistenza nel voler accettare l’invito di Miss Ivors non le fosse stato dettato dalla voglia di tornare a Galway per rivedere questo Michael Fury…
È morto! – ribattè Gretta alle stolte insinuazioni del marito – È morto a 17 anni. - Michael Fury era cagionevole di salute, e quando seppe che Gretta sarebbe partita per Dublino, affrontò la pioggia e la tempesta pur di starle accanto in quell’ultimo attimo della loro giovanissima unione… Era ammalato, ma l’amava molto, era gentile, le dedicava canzoni con la sua splendida voce innamorata, le cantava la fanciulla d’Aughrim durante le loro passeggiate tra i boschi e le campagne. Era morto perché a lui non importava più di vivere se Gretta fosse andata via, non gli importava stare dritto sotto la pioggia mentre i suoi deboli polmoni sfidavano con amore la loro fragilità al vento e alla tempesta.
Soffocata dal pianto e dai singhiozzi, dalle domande goffe e impacciate di un Gabriel avvampato dalla vergogna della sua stessa presenza, Gretta si addormentò straziata da quel ricordo.
Gabriel la guardava. Dunque c’era stata una storia romantica nella sua vita, un uomo era morto per amor suo. Stentava a riconoscersi nella baldanza e nell’ardore di qualche minuto prima. Lacrime generose riempivano gli occhi di Gabriel. Non aveva mai provato mai nulla di simile per una donna, ma sapeva che un sentimento del genere doveva chiamarsi amore. Nella semioscurità gli parve di riconoscere la sagoma di un ragazzo sotto la pioggia, ed insieme a lui altre ombre nella folla dei morti. Era cosciente di quella loro ostinata, tremula esistenza, ma non riusciva ad afferrarla. La sua identità svaniva in un mondo grigio ed impalpabile e quello stesso mondo in cui quei morti avevano vissuto e procreato s’andava rimpicciolendo e si dissolveva. Aveva ricominciato a nevicare, fiocchi di neri ed argentei cadevano obliqui contro il lampione. Cadeva la neve sulla collina dov’era sepolto Michael Fury e sulle croci contorte d’un cimitero con statue d’angeli tristi ed imploranti, sui cancelli ed i roveti spogli. E la sua anima svaniva adagio nel sonno mentre la neve cadeva sull’universo, cadeva lieve come il silenzio sui vivi e sui ricordi.
Questo è un racconto splendido di Joyce, I Morti; una decina d'anni fa' ne scrissi un adattamento teatrale che giace tra le mie carte incolte. Scrissi l'adattamento in due atti pensando ad una persona, glielo dipinsi addosso, perché doveva interpretare Gretta. Lo intitolai Natale a Dublino, un titolo fittizio. Non traggo conclusioni euristiche da quest'opera che mi avvinse quando la lessi la prima volta, e che mi è cara come poche.
mercoledì 2 gennaio 2008
High Hopes
Un nuovo inizio per chi vuol mettersi del tempo alle spalle,
oppure un attimo in più per chi non ha mai abbandonato la corsa.
Un saluto speciale a chi ha deciso di non rivolgermi più la parola,
ti voglio bene lo stesso.
Oltre l'orizzonte dei luoghi in cui vivevamo
quando eravamo giovani
In un mondo di magneti e miracoli
I nostri pensieri si smarrivano con sconfinata costanza
La campana della divisione già suonava
Per la Lunga Strada e giù per il Sentiero
Si incontrano ancora vicino al Canale?
C'era una banda cenciosa che seguiva i nostri passi
Correndo prima che il tempo ci portasse via i nostri sogni
Lasciando la miriade di piccole creature
a provare a legarci al suolo
A una vita consumata da una lenta decadenza
L'erba era più verde
La luce era più brillante
Circondati da amici
Le notti di meraviglia
Guardando oltre le braci dei ponti che bruciavano dietro di noi
Fino ad un'apparizione fugace del verde sull'altra sponda
Passi avanti ma da sonnambuli tornati all'indietro
Trascinati dalla forza di qualche marea interiore
Ad un'altezza maggiore a bandiere spiegate
Raggiungevamo le folli vette di quel mondo sognato
Oppressi per sempre da desiderio e ambizione
C'è una fame ancora non soddisfatta
I nostri occhi vuoti ancora vagano all'orizzonte
Sebbene per questa strada siamo scesi tante volte.
L'erba era più verde
La luce più brillante
Il gusto più dolce
Circondati da amici
Le notti di meraviglia
La rugiada lucente
L'acqua corrente
Il fiume senza fine
Per sempre e sempre