Devo decisamente decidermi di smettere di ascoltare un certo tipo di musica, di assorbirla, di suonarla, di spalmare di tali armonici le mie oziose mattine, figlie di nottate sprecate in una confusa mistura di ore smarrite tra un insignificante pascolo errante notturno dove le strade non hanno un nome, e un'insonnia vorace scavata dal mal di stomaco, da incubi di voci che non si scompongono, da dubbi che assestano colpi d'accetta nel fianco d'una volontà di per sé labile e fiacca.
Pensieri e progetti ridotti a grigia legna da ardere in un braciere mai pago, che ingoia il buio senza rendere luce e calore, riempendo solo la stanza di fumo.
Si camminava risalendo l'età ed il rincorrere di sogni ed esperienze che il presente non concedeva. Eri al mio fianco tenendomi strette le dita, frapponendo i tuoi occhi tra il mio sguardo ed il mare. Mentre io davo un nome ai tuoi desideri, e la roccia della scogliera mi premeva le spalle, racchiudevi nel tuo abbraccio ogni sconfitta della mia instabile voglia di crescere e vivere. Una capanna di edera appesa ad un precipizio schiaffeggiato dal vento, dove nascondere e coccolare tutta la bruttura di un'esistenza che non ho mai ringraziato d'avere; che avrei ripudiato mille volte se non avessi sopraelevato anche la fine di ogni cosa ad un ristoro immeritato della mia insensatezza. Esserci è più atroce dello sparire. Schiavo di una nube ai confini del cielo da cui attingere le mie pulsazioni dell'anima, da tradurre in parole improfumate da lozioni di erudita bellezza. Hai coltivato una maschera intorno ai miei occhi senza spogliarmi del male che divorava il mio silenzio accecante. Frapponendo ogni volta i tuoi occhi tra il mio sguardo e lo spazio sconosciuto che si frastagliava incomprensibile oltre le tue spalle, i tuoi lunghi capelli neri e morbidi, e le tue lacrime che non riuscivo più a spegnere nel tuo sguardo d'accusa. In te ho saputo perdonare il mio coraggio rachitico di spalancarmi alla vita, che mi ha reso povero e fragile, impaurito nel saper afferrare la leva di un aliante che temeva la consistenza delle nuvole e lo sguardo indiscreto della luna. Hai raccolto il mio male in un ristoro accogliente con le grate più fitte nelle fessure da cui spiare il mutare del mondo che piano si dimenticava di me.
Ora che rinasco al mondo, ancora bagnato dalla placenta d'una gabbia matrigna, silenzioso volgo sommessamente le spalle allo strazio che s'addensa intorno al mio sguardo imprudente. Ai bordi della strada non c'è un recinto ed un parapetto che s'interpone tra me e lo strapiombo che cade a picco tra le onde. C'è solo un'intercapedine d'affanno nell'essere incapace di ignorare ogni tuo sgomentato lamento che si afferrerebbe nell'aria, per come sia denso in ogni gesto della mia invereconda coscienza d' essere sbagliato, in quanto inutilmente presente ai miei giorni.
Adesso dinanzi ci sono anni che non riuscirei ad affrontare da solo, mentre il rimorso mi indurrebbe a tornare in quella gabbia che mi annichiliva esaltando le mie debolezze, dove castravo le mie ali e recidevo nel malsano tepore del tuo abbraccio, la mia voglia di vivere e narrarmi per quello che sono. Mi davi la forza di esserci spegnendo la necessità che io accendessi il mio fuoco vitale con la mia sola speranza, quella che è propria di una mente indomabile. Ed ora tutto appare spaventoso e stupendo, mentre tra le nuvole percorro un viale rinfrescato dal temporale, interrrogandomi se la mia sia una rinuncia, oppure una rinascita, immaginando quel che vorrei dal mio esistere, per costruire un'altra illusione che funga da stampella ad un domani ancora mutilato da una guerra che non accenna a placarsi... Se qualcuno mi odiasse, gli rivolgerei il mio consenso, prima che il mio orgoglio si ridestasse per sputare in faccia al disprezzo.
Non aspettarmi, o rinnega la sera, il tramonto non sarà l'araldo dei miei passi ritrosi e balbettanti. Un suono lanciato verso la fuga si infrange bruscamente nell'aria, molto prima d'una voce suadente che incalza il suo tono prefigurando il suo arrivo ad orecchie imbonite dall'inutile attesa di questi.
Pensieri e progetti ridotti a grigia legna da ardere in un braciere mai pago, che ingoia il buio senza rendere luce e calore, riempendo solo la stanza di fumo.
Si camminava risalendo l'età ed il rincorrere di sogni ed esperienze che il presente non concedeva. Eri al mio fianco tenendomi strette le dita, frapponendo i tuoi occhi tra il mio sguardo ed il mare. Mentre io davo un nome ai tuoi desideri, e la roccia della scogliera mi premeva le spalle, racchiudevi nel tuo abbraccio ogni sconfitta della mia instabile voglia di crescere e vivere. Una capanna di edera appesa ad un precipizio schiaffeggiato dal vento, dove nascondere e coccolare tutta la bruttura di un'esistenza che non ho mai ringraziato d'avere; che avrei ripudiato mille volte se non avessi sopraelevato anche la fine di ogni cosa ad un ristoro immeritato della mia insensatezza. Esserci è più atroce dello sparire. Schiavo di una nube ai confini del cielo da cui attingere le mie pulsazioni dell'anima, da tradurre in parole improfumate da lozioni di erudita bellezza. Hai coltivato una maschera intorno ai miei occhi senza spogliarmi del male che divorava il mio silenzio accecante. Frapponendo ogni volta i tuoi occhi tra il mio sguardo e lo spazio sconosciuto che si frastagliava incomprensibile oltre le tue spalle, i tuoi lunghi capelli neri e morbidi, e le tue lacrime che non riuscivo più a spegnere nel tuo sguardo d'accusa. In te ho saputo perdonare il mio coraggio rachitico di spalancarmi alla vita, che mi ha reso povero e fragile, impaurito nel saper afferrare la leva di un aliante che temeva la consistenza delle nuvole e lo sguardo indiscreto della luna. Hai raccolto il mio male in un ristoro accogliente con le grate più fitte nelle fessure da cui spiare il mutare del mondo che piano si dimenticava di me.
Ora che rinasco al mondo, ancora bagnato dalla placenta d'una gabbia matrigna, silenzioso volgo sommessamente le spalle allo strazio che s'addensa intorno al mio sguardo imprudente. Ai bordi della strada non c'è un recinto ed un parapetto che s'interpone tra me e lo strapiombo che cade a picco tra le onde. C'è solo un'intercapedine d'affanno nell'essere incapace di ignorare ogni tuo sgomentato lamento che si afferrerebbe nell'aria, per come sia denso in ogni gesto della mia invereconda coscienza d' essere sbagliato, in quanto inutilmente presente ai miei giorni.
Adesso dinanzi ci sono anni che non riuscirei ad affrontare da solo, mentre il rimorso mi indurrebbe a tornare in quella gabbia che mi annichiliva esaltando le mie debolezze, dove castravo le mie ali e recidevo nel malsano tepore del tuo abbraccio, la mia voglia di vivere e narrarmi per quello che sono. Mi davi la forza di esserci spegnendo la necessità che io accendessi il mio fuoco vitale con la mia sola speranza, quella che è propria di una mente indomabile. Ed ora tutto appare spaventoso e stupendo, mentre tra le nuvole percorro un viale rinfrescato dal temporale, interrrogandomi se la mia sia una rinuncia, oppure una rinascita, immaginando quel che vorrei dal mio esistere, per costruire un'altra illusione che funga da stampella ad un domani ancora mutilato da una guerra che non accenna a placarsi... Se qualcuno mi odiasse, gli rivolgerei il mio consenso, prima che il mio orgoglio si ridestasse per sputare in faccia al disprezzo.
Non aspettarmi, o rinnega la sera, il tramonto non sarà l'araldo dei miei passi ritrosi e balbettanti. Un suono lanciato verso la fuga si infrange bruscamente nell'aria, molto prima d'una voce suadente che incalza il suo tono prefigurando il suo arrivo ad orecchie imbonite dall'inutile attesa di questi.
Adoro Yann Tiersen..complimenti per la scelta
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