Molto spesso parlo di me attraverso racconti, immagini, suggestioni, poesie, musiche. Momentanee svirgolate della ragione che mi riflettono e mi inquadrano, ma resta sempre un dipinto dall’immagine frammentata, i cui pezzi si confondono, non si comprendono. Non amo molto parlare direttamente di quello che vivo, quello che sento, anche se spesso l’ho fatto. E secondo qualcuno ciò aveva anche un buon odore. Ho sempre l’abitudine a filtrare la mia luce attraverso il prisma, scomporla nell’iride e in vari colori, ed ognuno ci vede poi quello che vuole. Spesso non si vede niente. La verità è che potrei aver molto da raccontare, e troppe poche parole a disposizione, perché è una fase della mia vita in cui vita ed esistenza viaggiano su binari lanciati lungo destinazioni diverse. A volte le rotte coincidono, a volte si specchiano, altre volte si ostacolano. Perché io voglio affacciarmi alla finestra ma mi ritrovo troppo spesso di spalle al panorama, e guardo sempre dentro, scavo, metto la stanza sottosopra, sollevo mattoni, indago tra le fessure, assaggio la polvere e sforzo i miei occhi. E non trovo sempre che gli stessi pensieri. Qualcuno mi consiglierà di cambiare sostanze chimiche, o semplicemente di scegliere con maggiore attenzione i miei spacciatori. Il guaio è che sniffo solo aria pura e bevo acqua potabile (con rare eccezioni) dacché sono nato, e che le fantasie lisergiche sono un prodotto genuino col marchio “d’origine incontrollata” del mio cervello.
Oggi voglio far finta di parlare normalmente perché in questi giorni sto vivendo una serie di trambusti emotivi abbastanza violenti dentro, e devo sfogare. Vorrei avere aneddoti da raccontare, esperienze da divulgare, ma il fatto è che sono giorni in cui limito le mie incursioni sociali a rari improrogabili apparizioni, organizzo cose e coordino persone attraverso i potenti mezzi di comunicazione a distanza che il XXI secolo ci mette a disposizione per alienarci ulteriormente, più di quanto ciò non sembra essere congenito all’uomo in quanto ontologicamente pensato. Ed è normale che in tutto questo è semplice che spunti il solito Kant, quando va bene, o il vecchio Giacomino, quando va meglio. Scarico la posta elettronica con le ricerche che mi commissionano, ci sono i links alle banche dati, una marea di numeri e info da ordinare, organizzare, interpretare, e magari da “imbellettare” per permettere all’organismo politico committente di potersi autoesaltare per i risultati che io consento loro di ostentare a destra e a manca. Se non si sbrigano a pagare, giuro, che per quanto possa voler loro bene, gli confeziono un pacco regalo di lusso la prossima volta!
Ho la mia mailing list di persone a cui devo puntualmente rompere le scatole, ho i volumi incolonnati alla mia destra, qualche centinaio di documenti in .pdf da cui farmi devastare le pupille dalla mattina alla sera. Ho il vantaggio di fare il tutto come più mi aggrada, e di recarmi sul mio fatuo posto di lavoro quando proprio c’è il rischio concreto che davanti al pc che usualmente utilizzo nell’ufficio (quello “sotto” il condizionatore), possano mettere una mia foto con la scritta “ci mancherai”.
Gli amici li ho, sparsi nel mondo ma li ho. Esco con una combriccola di gente che non appena mi incontra vuole abusare della mia mente e della mia voce per delle sciocche manifestazioni volte alla propaganda, alla divulgazione, alla oramai tramontata pratica di educazione delle masse indifferenti. Ed io qualche volta, anche per non annoiarmi a vita mi presto anche.
Vabbè fino a poco tempo fa’ avevo anche altro, ma quello è un tasto che è meglio non toccare…
Ora, io scrivo con lo stesso automatismo con cui potrei bere quando ho sete. Ormai la scrittura è passata tra le mansioni del mio sistema nervoso parasimpatico, è una pratica fuori ogni tipo di controllo. Anni fa’ mi capitava di interrompere bruscamente il sordido peregrinare dei giorni, ne afferravo uno a caso dalla tasca polverosa della mia giacca, come fosse una minuscola biglia di vetro, e lo riponevo dinanzi agli occhi sulla mia scrivania. Lo guardavo dapprima con un sorriso di scherno e pietà, come un gatto che si divertiva a giocare con la lucertola uccisa prima di mangiarla. Ma lentamente quello sguardo sfumava nella rabbia che attraversava i bulbi dei miei occhi insanguinati dall’allergia primaverile. Quel giorno diventava il bersaglio inerme su cui si schiantavano interi vagoni di giorni deragliati senza binari né locomotrice; quella biglia di vetro una vittima sacrificale che avrei deciso di scaraventare al suolo per frantumarla in minuscoli granuli con la furia innescata dal vuoto accumulato inconsapevolmente sulle mie spalle.
Sono anni che non metto le mani in tasca, ed ho il terrore di calare gli occhi su quello che potrei trovarci. E questo non vuol dire affatto che abbia deciso di abbandonare quella sinistra abitudine, solo che adesso avrei da affondare un peso sul malcapitato giorno che ha la consistenza del piombo depositato in intere annate di dormiveglia esistenziale. Non lo so se farà rumore, “la tristezza in fondo al cuore come la neve, non fa rumore”.
Ecco che qualcuno lo devo citare per forza. Quello che so è che non vorrei più guardarmi dentro. Ho scritto tante di quelle meravigliose cazzate su questo blog, rasentando la stratosfera del cervello e del cuore, ancora non capisco come faccia qualcuno a leggermi, e qualcuna a chiedermi di non smettere. Lo dicevo ad una persona che ha il vizio di discorrere con me, voglio una vacanza.
Una vacanza nella quale rendermi conto di avere anche una testa, due braccia, un torace, un addome, e mi fermo qui non scendo più in basso… arrivo subito alle gambe ed ai piedi.
Vorrei che la mia mente fosse ogni tanto assalita dall’amletico dilemma di dover scegliere, tra Inter- PSV o Manchester-Roma, ad esempio stasera. Vorrei litigare con qualcuno, sì, devo trovare qualcuno con cui litigare, far finta di rodermi il fegato per una stronzata, e poi ritornare a parlare da solo come Nanni Moretti in Caro Diario. Parlare soltanto quando sono da solo.
Ecco vorrei starmi un momentino zitto dinanzi ad una persona speciale, correrle incontro, evitare di dire le mie solite quotidiane poetiche minchiate, togliermi i miei adorati occhiali da sole stile Bono in Acthung Baby 1991, illudermi che lei sia lì per me, ad attendermi, scendere da un treno e guardarla negli occhi, sorriderle, e racchiudere la mia vita intera in due parole semplici da regalarle per sempre: “ciao, finalmente…”.
Un attimo di vita così, assaporato e gustato fino all’ultimo nanosecondo, e poi fare un fischio a chi ha deciso di farmi nascere, per fargli presente che quel discutibile favore resomi 25 anni fa’ se lo potrebbe anche riprendere. Perché dalla vita avrei avuto davvero tutto il meglio.
Un sogno semplice, senza sforzare più di tanto in fantasie il mio cervello con cui ho da sempre un rapporto sadomasochistico.
Vorrei una casetta in montagna nei pressi di un lago, l’illusione di un piccolo mare tutto per me. Tuffarmici nudo d’inverno, galleggiarvi di notte guardando l’Orsa Maggiore spuntare alle spalle del colle in una notte chiara di luna. Canticchiare e pensarti, pensarti incessantemente mentre rendi più bello il disordine della mia vita. Perché tu non puoi mancare in tutto questo. E spero davvero che tu il vizio non lo perda.
Galleggio sul lago e mentre provo ad assopirmi tendo l’orecchio, vorrei che ci fosse una voce, una voce che ancora non so come intonerebbe quel canto notturno. Quella voce che mi sussurra ogni cosa che la mia mano trasforma in parole, ed il cuore in emozione.
E tutto è così simile all’infinito… e se qualcuno mi rubasse i boxer, mentre galleggio, sarei in una dimensione talmente felice che gli vorrei bene lo stesso. Sì, ondeggiando silente tra questi pensieri, io vi amo tutti.
Qualcuno di più, cioè *qualcuna* di più, ma saranno cavoli miei… la risposta, amico mio, "is blowin’ in the wind… the answer is blowin’ in the wind…"
… Quel che sarà, quel che troverò lassù e allo stesso tempo quaggiù in fondo all’anima non mi importa, "nothing really matters, anyone can see, nothing really matters… to me… anyway the wind blows…" (F. Mercury, Bohemian Rapsody)