Ma non mi si è voluto dare ascolto, e per fortuna adesso ci troviamo qui, in un locale deserto. Ancora è mal di testa... è da questa mattina che non oso rivolgere le mie attenzioni impure e peccaminose alla volta della nimesulide che da sfoggio di sé accattivante e ammiccante, benevola e accondiscendente, disponibile a estinguere le fitte emicraniche; spiandomi come fosse inopinatamente distratta oltre il vetro della credenza, seduta dinanzi alla collezione dei bicchieri di cristallo. Accanto al termometro, alle pillole per la pressione alta, e ad argentei cimeli rimembranti ricorrenze più o meno rapprese nel loro plumbeo tenore teologico-mondano.
Cavare un'idea che abbia una larvata coerenza, ed indi si faccia carico di un qualsivoglia messaggio tale da rimestarsi proficuamente in una pagina, oggi è difficile, Monsieur.
Anche scrivere la parola "difficile" costa fatica. La fatica di un'affannosa spulciata nella semiotica della propria ontologica identità. Perché quella parola è imprecisa, e come tale bugiarda. E scrivere falsità è per me una violenza che si assomma già alle scenette grottesche che la penna celebra per riderci su. Di gusto, su ciò che sempre più appare come una fumettata vicenda non seria, questa lunga passeggiata che costeggia gli anni.
Non è, in punta di verità, "difficile", è solo che non mi riesce più di manipolarli altrimenti questi pensieri. Forse è soltanto "diverso". Ma io non so più scrivere, non come mi piace. E di colpi ne sto perdendo parecchi ultimamente, Monsieur. Forse tu comprenderai cosa vuol dire ridursi ad incipit conservati per scrupolo come frammenti di storie che non saranno mai compiuti. Che quando l'istinto narrante viene pompato da un orgasmico impulso lo devi consumare in fretta, giungere al nucleo della fiamma che ha infervorato l'istante, afferrarvi con slancio i volti e le parole ed inchiodare il flusso nella teca di un racconto.
Ma finché redigi la cornice, la storia s'è già sgualcita e non ne vale più la pena.
Compunta ovviamente di parole inadeguate. Perché quelle giuste sono come limiti che tendono all'infinito. Quell'infinito a cui rende giustizia solamente il silenzio. Quello che rende le proprie parole straniere e allo stesso tempo talmente personali da potersene disfare pressappoco con indifferenza. A prescindere da quanto possano essere care a chi ti è caro. Non riuscire a liberarsene vuol dire essere incompleti. Essere incompleti non è un problema.
Ne convieni? Considererei il silenzio come la più pura delle forme di comunicazione. Chiudere gli occhi e avvicinarsi, sentirsi adiacenti e restarsi accanto senza necessitare d'altro, e senza domandare oltre. Uno scambio che non depriva e non inganna.
Prendiamo qualcos'altro, Monsieur? Un'altra birra e qualche inezia recante in sé adipose conseguenze per accompagnare la discesa giù lungo l'esofago del biondo liquido amarognolo. Ricominciamo daccapo.
Anche se ho appena finito il solito drink, e ancora sto frantumando in bocca i piccoli cubetti di ghiaccio.
Uno dei piccoli e irrinunciabili piaceri che fanno orripilare i detrattori dell'acqua corrente.
Con la lingua approfitto per dirigere un cubetto a coprire la gengiva sottostante il premolare inferiore collocato a destra del mio viso rispetto a chi mi guarda. Perché mi accorgo che duole un tantino, quando mi capita di pensarmi.
I miei dieci piccoli irrinunciabili piaceri: dei cubetti di ghiaccio s'è già accennato; giocare con i sacchetti di riso o di farina, affondando le dita in quella morbidezza elastica, tralasciando qui biasimabili similitudini; suonare come un automa l'arpeggio di Is there anybody out there?; fare gli origami con i biglietti già obliterati dell'autobus; conservare tutto il conservabile come testimonianza inoppugnabile che su questo pianeta ci ho davvero messo piede pure io; avere le mani umide e i capelli bagnati; gironzolare da solo e salutare le persone soltanto con un cenno del capo e sorridendo, per evitare di fare figure di merda nel non ricordare i nomi; scartare con evidente soddisfazione i pomodori da un mio qualunque piatto; avere la "finestra sempre aperta" anche fino a notte fonda; e infine gli indovinelli che capiscono in pochi, soprattutto quando si legge di corsa senza soffermarsi più di tanto.
Siamo venuti quaggiù in quattro, era come se fossimo in tre, e tali si è rimasti nonostante la successiva addizione di ulteriori vispi commensali. Monsieur che siedi alla mia destra, hai ordinato un piatto di patatine fritte che io di norma, non dovrei poter mangiare. Ne assaggio qualcuna ma non vi si cosparga il sale, sono comunque a dieta. Domattina so già che mi sveglierò tardi e non correrò. Ma la mia è solo una morbosa curiosità di testare la tenuta dei bronchioli carbonizzati durante le ultime due settimane, mi si consenta di preservarvi un'illusione ancora a riguardo.
L'altra sera dopo aver cenato fuori torno a casa in tutta fretta, sotto le gocce di pioggia che si perdevano nella moresca chioma spettinata anni '50, rinfrescandomi con la loro sorpresa posata, e fresca. Volevo comunque andare a letto presto.
Pensavo, Monsieur, che sto riscoprendo un particolare gusto per i liquori secchi.
I fulmini illuminavano il cielo a giorno, infiammando per improvvisi istanti i contorni delle nuvole che suturavano il cielo come un cranio sbriciolato ricostruito a botte di gesso e saratoga visto dall'interno. Era da molto tempo che non mi abbandonavo sul cuscino del letto con un libro che non presentasse figure simili agli effetti del tasso di cambio giapponese sulla delocalizzazione in Cina.
E l'ho ritrovato dilettevole quella sera.
Ma quando qualcuno vuole sfottere a denti stretti il quarto cazzone che ci portiamo insieme imbevendoci passivamente delle sue varicose vicende senza soluzione di continuità, e mi sussurra un decontestualizzato e canzonatorio "che culo...", mentre la mia mente scorrazza altrove, vien facile per me, nel rinsavire dal sonnambulismo incedente, esprimere un parere disgustato sul fondoschiena della signora in stato di pre-obesità che riempie il campo visivo a me innanzi.
E scusami, cazzo, se poi ridestandomi dal sabbioso abbaglio, esterno con voce moderatamente media-udibile il mio punto di vista sul quid di cui sopra, tale da intercettare torvi sguardi sospettosi dal marito di questa che deve avere inteso qualche sciagurato decibel del mio sommesso proclama.
Che tu parli per quel che hai in testa tu, ma io ti rispondo per quel che ho in testa io, per la miseria...
Vale per tutti, più o meno consapevoli, che chi ci fa star bene e chi più o meno ci comprende non è altro che la proiezione meglio riuscita di sè... guardare dentro al cuore e avvicinarmi al suo mistero non come quando io ragiono ma come quando respiro. Ma non diciamolo ogni volta, le espressioni reiterate ne rovinano il senso. Sarebbe bello scoprire una bella frase, tratteggiare un bel pensiero, e dimenticarlo dopo un po'. In quel momento avremo scoperto qualcosa di noi e l'avremmo consegnata all'eternità.
Mi prende una stranissima voglia di ballare come intorno ad un ripetuto picchiettare di un dito medio della mano sinistra sul MI bemolle di un pianoforte scordato. Battendo i passi al suolo come un bicchiere che si rompe comprensivo del contenuto, che non si è sorseggiato per incantarsi a guardare l'alone interno lasciato sul bicchiere da ogni oscillata nelle nostre mani inquiete e sincere. Più della calma dipinta come la ceramica intorno agli occhi.
Monsieur. Che cosa vuoi che ti racconti? Un'altra storia.
Stanotte ho sognato Adriana. Indossava una lunga veste bianca; avanzava lungo la spiaggia. Avevo come l'impressione che la mattina di quel giorno in sogno fosse venuto giù un acquazzone impietoso; io stavo seduto su una poltrona a sdraio e le ho fatto cenno col braccio.
Ma lei ha continuato a camminare come se non si fosse accorta di me, guardando fissa in avanti, e quando mi è passata vicino mi ha investito una folata di aria gelida, come un alone che si portava dietro.
A volte una soluzione sembra plausibile solo sognando. Forse perchè la ragione è pavida, non riesce a riempire i vuoti tra le cose, a stabilire la completezza come un forma di semplicità.
Ma poi domani, o un altro giorno, sognerò che passerà di nuovo vicina al mare e acconsentirà al mio richiamo e si siederà vicino a me. Poserà le mani sulle gambe con un gesto lento e languido, pieno di sensi, e guardando il mare mi indicherà una vela o una nuvola, e riderà. Ed io continuerò a ridere, mentre la guarderò; rideremo insieme, come l'esserci trovati ad un appuntamento.
La vita è un appuntamento, lo so di dire una banalità, Monsieur. Solo che noi non sappiamo mai il quando, il chi, il come, il dove. Magari capita che il primo saluto avvenga per caso, ad esempio a febbraio, e nel posto più sbagliato, ma che importa...
Il diritto, il rovescio... l'estate. Non so se ci si trova in un punto perchè l'esperienza ti ha portato per mano fin lì, non so se è vero che dal passato si impara la lezione come un vaccino. A volte sì, lo penso e lo confermo, altre volte lo disprezzo insieme al fascio secco di tutti i princìpi fasulli; più sovente lo ignoro.
E allora spesso uno pensa: se avessi detto questo anziché quello, se mi fossi svegliato un giorno prima, se non fossi mai andato a letto presto, se non avessi temuto, se mi fossi fidato di più... Forse sarebbe stato lo stesso. O forse non starei neanche qui a raccontare questa storia. E ogni tanto racconto di una certa soluzione che tuttavia ignoro a qualche amico, raramente, bevendo un bicchiere.
Un appuntamento e un viaggio, è la vita. Fatta di percorsi sulla crosta di questo pianeta, che a sua volta si muove, ma verso dove? Ti sembrerò maniaco, Monsieur. Però a quel tempo io ero fermo, un momento di stasi e il mio tempo ristagnava in un pozzo di accidia. Con quella tranquillità di quando non si è troppo giovani ma non si è ancora troppo adulti, e si aspetta semplicemente la vita.
Ed al posto della vita, venne Adriana.
Talvolta indifesa e interpretabile che pareva di leggerle in volto il carattere di tutti i suoi momenti. E poi era bella, certo, ma questa non era una sorpresa: ma quel giorno mi sembrò di una bellezza assoluta, perché lì capii che non esiste bellezza al mondo superiore alla bellezza di una donna, tu mi capisci Monsieur, e questo mi accese una specie di frenesia.
La strada dietro di me fuggiva, davanti a me si apriva, e io pensavo alla mia vita e alla mia accidia, e a tutto quello che mi era stato detto. Frasi più nitide man mano che si procede lontano alla radice dei ricordi, e stranamente più fragili e tremule nel risalire fino a quel momento. Quando le prima parole son cariche di mistero, di un voler spiare tra le fessure dei propri vissuti, sospinti da una curiosità che poi si evolve e scende giù portando alla luce i reperti più celati, confidenze meno infrangibili, sensazioni più acute. E sempre meno descrivibili con l'alfabeto.
Mentre le parole più prossime stentano ad aggrapparsi alla mensole della mente, e all'esigenza di lasciarsele propagare per giorni e giorni nella testa. Come se si comprendessero già senza il bisogno di doverle riprendere, rispolverare con cura e ricercarne tutti i sensi per star sicuri di essere davvero felici a giusta ragione.
E sentii, quel giorno, una specie di vergogna per non aver mai provato niente di tutto questo fino ad allora. Fu proprio così, una specie di rimorso, come una consapevolezza di mediocrità o di codardia.
Come quando si ha la concreta sicurezza di aver sì corso per milioni di chilometri, ma in maniera lenta e accidiosa attraverso una strada lunga, e senza ricordare alcun paesaggio.
Ed ora viaggiavo, con questa vita, su un'altra strada che non importava dove mi avrebbe condotto, con la compagnia di una donna bella e distante che fuggiva non sapevo da cosa, o che evitava non sapevo cosa: era una corsa che mi vibrava dentro e intorno lungo una strada vuota in mezzo alla Francia.
Accostai la macchina e mi fermai. Mi volsi e stavo per dirglielo... Ma lei mi mise un dito sulle labbra, molto dolcemente, e mormorò: "non essere stupido". E restrinse le sue labbra in un bacio mai dato.
Nel luogo del nostro appuntamento c'era uno stabilimento balneare con una fila di poltrone a sdraio. Mi sedetti e mi misi a guardare il mare. Sentii il campanile che batteva le dieci, e poi le undici, e poi la mezzanotte, le ore si facevano giorni, i giorni si facevano mesi, ed i mesi diventavano tutta l'immensa attesa che non sarebbe mai bastata.
Ah, tu mi hai fatto bere troppo, Monsieur, però in quanto a bicchieri sei una buona compagnia. Non ho la giacca e fa freddo, e una sigaretta non riscalda. Sai, a volte, quando si è bevuto un po' la realtà si semplifica, non occorre sclerarsi a coniare nuovi idiomi per riconoscere quello che proviamo. Si saltano i vuoti fra le cose, tutto sembra combaciare e uno dice: "ci sono". Come nei sogni.
Attendere, quella vita che che non ha alcun appuntamento col dovere imperativo, e che tuttavia non scappa come un codardo che non lascia tracce di sè nel mondo intorno stimato come un magazzino immanente per saziare le proprie voglie, deprezzando e svuotando ogni senso.
Come a non voler essere responsabili dei propri affetti, dei propri gesti, delle sensazioni e dei germogli che si innestano negli altrui cuori, indipendentemente dal più ignavo dei propositi. Salvaguardarsi non è essere egoisti, è viltà. L'egoismo naturale come un fiume è l'esserci sempre in svariate forme che non affollano l'esistenza di chi si attende, pur non essendole mai lontano.
La retorica della viltà invece è merda.
Un ammutolito lungometraggio di incontri che a lungo andare assomiglia più che altro ad un reciproco masturbarsi. Una feroce razzìa al termine della quale sputarsi in faccia non suonerebbe neppure stonato.
Non sono né un santo né un moralista, detesto appena con una puntina di odio qualunque cosa renda la vita volgare, brutale e sporca. E che spogli la dignità del suo valore, lasciando qualche livido breve che porta ancora i segni della paura e dell'insensibilità.
Attendere, e ritornare ardentemente al mio sorriso che a tutto questo non vuol pensare.
Attendere, come un silenzio nelle notti di semi-veglia in controluce, con gli occhi stanchi e l'animo gioioso. Attendere, e percepire che anche il sonno è vita, e non riposo. Attendere, scagionando l'anima dalla paura di non meritare, di esservi capitati per un caso avulso dagli intenti. Attendere e non domandarsi alcun perché.
Attendere, e sentire per chi non c'è, quasi una solitudine.
Andiamo a casa. Fa freddo, e mi gira la testa. La radio passa Aida di Rino Gaetano. Non c'entro assolutamente nulla con la maggior parte di questo teatrino di nuvolette. La sceneggiatura degli ultimi minuti appartiene già ad un film che non mi riguarda, i figuranti si predispongono per un ciak nel quale non siamo stati scritturati.
Scrivere... è una forma di presidio per i propri dilemmi e insieme l'esigenza di correre incontro.
E devo andare a pisciare.
Ma a te interessano le storie altrui? Forse anche tu, Monsieur, devi essere incapace a riempire i vuoti fra le cose? Non ti sono sufficienti i propri sogni?
Adoro quando sorgono le amenità prodotte dai meandri della mia fulgida immaginazione.
Altresì spontaneamente da non esigere che si vada a sbirciarvi...
Ci vivo di questi scatti.
Ma mi odio anche un po' per questa medesima ragione, quivi scanzonatamente narrata.
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