Mi appaiono come soldatini di gesso in attesa di un ordine per scrollarsi di dosso la polvere bianca e rianimarsi. Li sento mentre acquistano forma umana innervandosi attraverso le attese indirizzate a chi ha scelto di sposare il silenzio.
Come bolle d'aria create da caotici flutti si ritagliano brevi circonferenze sulla superficie dell'acqua schivandosi l'un l'altra, cercando di catturare quel raro fotone radiante che possa filtrare l'abbaglio e selezionare tutti i colori della luce. Distribuendone con cupidigia le singole onde d'urto.
L'età aumenta la nostalgia di un'esistenza quasi sopportata, quella che da giovane avresti voluto capovolgere e riempire di tutto ciò che hanno potuto solo raccontarti, fagocitare le esperienze degli altri, adottarne i tremori, recitandone i conflitti non rimarginati, interpretando col proprio orizzonte affermato gli scherzi della sete e delle sbronze che non hanno neanche profuso alcun labile guizzo lungo tutti i tuoi giorni.
Quei giorni che si susseguivano come attese indirizzate a chi stava per ricacciare indietro il silenzio.
Quando erano bolle d'aria nel proprio stomaco, apnee gonfiate dal furore della libertà che le avrebbe ripulite fino all'ultimo atomo. I giorni di ieri e quelli di oggi si assomigliano, carta carbone di scarabocchi tracciati dal vile intromettersi di un bicchiere bastardo.
Manca quella rara cresta su tutta questa pesante normalità che riempiva di echi tutti gli anonimi attimi che facevano la fila per farsi rigurgitare dalle lancette che esultavano ad ogni proprio annientamento. Morti propizie di tempi transitivi a congiungere picchi di vita, confetti di memoria, canti sparsi come sirene dalla sinusoide sfibrata e zingara, con gonne ampie pronte a raccogliere le invasioni più bestiali e le gioie più scivolose dell'impero della mente.
E tutto questo sparisce portandosi via l'ammirazione verso i ricordi degli ospiti che presiedono quei minuti scippati da tutta quella immensa attesa che generava vita e sangue tra i vicoli ardenti delle proprie vene.
T'ho riconosciuta alle spalle di un sorriso di plastica esposto come vessillo di una presenza lontana proiettata da un fuoco volutamente nascosto. Straniera in un labirinto nella quale sembri esser caduta in un'età sedimentata sotto le orme ricalcate dai riflessi dei tuoi bicchieri.
Riflessi innanzi ai quali ti cali e ti spogli, lasciandoli attraversarti, trafiggerti e quasi sostarti dentro come lampi di pensiero senza fardelli di dubbio o fatiche di angosce.
Ripeti le parole del mondo con una cadenza insopportabile, ti agiti come un bambino che sta imparando a nuotare e sente ancora l'ostilità dell'acqua. Come una bolla d'aria generata dalle onde, che sa di dover sparire al prossimo vento, e tenta di imprimere quanta più esistenza possibile in quei giorni oscuri e confusi.
Come se il mondo non riuscisse ad accorgersi della tua imponenza, non sapesse come tradurre la tua immagine nella scena del tutto, le tue frasi si addensano in imperativi con architravi puntellati dalla colpevole innocenza di chi trema persino al peso di un braccio sospeso ed una sigaretta all'estremità più remota della mano.
Un'innocenza ripudiata, ma che giace intatta in una teca di vetro con le impronte dei troppi polpastrelli che hanno tentato di forzarla.
Ogni respiro è un sollievo da quel fardello.
Poi cala uno strano silenzio che chiude il sipario dalla tua bocca.
La paura sembra governare quei fragilissimi silenzi. La paura che il vento possa spirare talmente forte voltando le pagine del libro sospeso sulle tua mani, e possa riportarti a capitoli differenti da quelli su cui s'era arenata la tua voglia di interpretazione, e di nuovo da quel momento in poi, a disorientarsi in città invisibili. La paura di non trovarsi in alcuna delle immagini con cui s'è popolato il circo degli astanti che funambolano tra un menzogna e una sentenza.
Sembri spegnere con un mite rigetto quel crepitante ronzio, e per me sembri rivestirti di un'anima libera.
Indossi tutta la struggente bellezza della malinconia, di un'imperfezione che ha catturato un riflesso del caos, trasformandola in un miracolo che si alimenta ad ogni sguardo lanciato sul pavimento, assumendone luce e contorni per fiorire in un punto unico e singolo nell'intero universo.
Lascio questa notte, sperando che la corruzione della falsità del compromesso a cui siamo condannati non ti abbandoni, che continui a corroderti e a isolare dal resto degli alberi il tuo piccolo inerme fusto preda dei rovi in questa foresta minacciata dalle fiamme.
Che questo sapore acido sia come una cura, una placenta che preservi il frutto più dolce. E se anche la tua stessa memoria dovesse smarrire le chiavi della dispensa, lascia che da quella credenza di vetro traspaia un riflesso dal tuo malinconico sguardo. E la strada per coglierlo sarà solo un guizzo di luce senza parole drogate.
E tutto questo sparisce portandosi via l'ammirazione verso i ricordi degli ospiti che presiedono quei minuti scippati da tutta quella immensa attesa che generava vita e sangue tra i vicoli ardenti delle proprie vene.
T'ho riconosciuta alle spalle di un sorriso di plastica esposto come vessillo di una presenza lontana proiettata da un fuoco volutamente nascosto. Straniera in un labirinto nella quale sembri esser caduta in un'età sedimentata sotto le orme ricalcate dai riflessi dei tuoi bicchieri.
Riflessi innanzi ai quali ti cali e ti spogli, lasciandoli attraversarti, trafiggerti e quasi sostarti dentro come lampi di pensiero senza fardelli di dubbio o fatiche di angosce.
Ripeti le parole del mondo con una cadenza insopportabile, ti agiti come un bambino che sta imparando a nuotare e sente ancora l'ostilità dell'acqua. Come una bolla d'aria generata dalle onde, che sa di dover sparire al prossimo vento, e tenta di imprimere quanta più esistenza possibile in quei giorni oscuri e confusi.
Come se il mondo non riuscisse ad accorgersi della tua imponenza, non sapesse come tradurre la tua immagine nella scena del tutto, le tue frasi si addensano in imperativi con architravi puntellati dalla colpevole innocenza di chi trema persino al peso di un braccio sospeso ed una sigaretta all'estremità più remota della mano.
Un'innocenza ripudiata, ma che giace intatta in una teca di vetro con le impronte dei troppi polpastrelli che hanno tentato di forzarla.
Ogni respiro è un sollievo da quel fardello.
Poi cala uno strano silenzio che chiude il sipario dalla tua bocca.
La paura sembra governare quei fragilissimi silenzi. La paura che il vento possa spirare talmente forte voltando le pagine del libro sospeso sulle tua mani, e possa riportarti a capitoli differenti da quelli su cui s'era arenata la tua voglia di interpretazione, e di nuovo da quel momento in poi, a disorientarsi in città invisibili. La paura di non trovarsi in alcuna delle immagini con cui s'è popolato il circo degli astanti che funambolano tra un menzogna e una sentenza.
Sembri spegnere con un mite rigetto quel crepitante ronzio, e per me sembri rivestirti di un'anima libera.
Indossi tutta la struggente bellezza della malinconia, di un'imperfezione che ha catturato un riflesso del caos, trasformandola in un miracolo che si alimenta ad ogni sguardo lanciato sul pavimento, assumendone luce e contorni per fiorire in un punto unico e singolo nell'intero universo.
Lascio questa notte, sperando che la corruzione della falsità del compromesso a cui siamo condannati non ti abbandoni, che continui a corroderti e a isolare dal resto degli alberi il tuo piccolo inerme fusto preda dei rovi in questa foresta minacciata dalle fiamme.
Che questo sapore acido sia come una cura, una placenta che preservi il frutto più dolce. E se anche la tua stessa memoria dovesse smarrire le chiavi della dispensa, lascia che da quella credenza di vetro traspaia un riflesso dal tuo malinconico sguardo. E la strada per coglierlo sarà solo un guizzo di luce senza parole drogate.
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