domenica 14 settembre 2008

C'è tempo





Dicono che c'è un tempo per seminare
e uno che hai voglia ad aspettare
un tempo sognato che viene di notte
e un altro di giorno teso
come un lino a sventolare.

C'è un tempo negato e uno segreto
un tempo distante che è roba degli altri
un momento che era meglio partire
e quella volta che noi due era meglio parlarci.

C'è un tempo perfetto per fare silenzio
guardare il passaggio del sole d'estate
e saper raccontare ai nostri bambini quando
è l'ora muta delle fate.

C'è un giorno che ci siamo perduti
come smarrire un anello in un prato
e c'era tutto un programma futuro
che non abbiamo avverato.

È tempo che sfugge, niente paura
che prima o poi ci riprende
perché c'è tempo, c'è tempo c'è tempo, c'è tempo
per questo mare infinito di gente.

Dio, è proprio tanto che piove
e da un anno non torno
da mezz'ora sono qui arruffato
dentro una sala d'aspetto
di un tram che non viene
non essere gelosa di me
della mia vita
non essere gelosa di me
non essere mai gelosa di me.

C'è un tempo d'aspetto come dicevo
qualcosa di buono che verrà
un attimo fotografato, dipinto, segnato
e quello dopo perduto via
senza nemmeno voler sapere come sarebbe stata
la sua fotografia.

C'è un tempo bellissimo tutto sudato
una stagione ribelle
l'istante in cui scocca l'unica freccia
che arriva alla volta celeste
e trafigge le stelle
è un giorno che tutta la gente
si tende la mano
è il medesimo istante per tutti
che sarà benedetto, io credo
da molto lontano
è il tempo che è finalmente
o quando ci si capisce

un tempo in cui mi vedrai
accanto a te nuovamente
mano alla mano
che buffi saremo
se non ci avranno nemmeno
avvisato.


Dicono che c'è un tempo per seminare
e uno più lungo per aspettare
io dico che c'era un tempo sognato
che bisognava sognare.

sabato 13 settembre 2008

Le pont

R. e Simone erano appena usciti dal quel frastornato locale all'Odeon. Simone rideva per un nonnulla, rendendo esemplari le cose più trascurabili del mondo, conferendo importanza a parole che altrimenti sarebbero state spente nell'oblio immediatamente dopo essere state pronunciate.

R. parlava un po' meno, e si fermava a contemplarle il volto ridente, felice, specchiando in quella spontaneità tutto quello che gli impediva di rinchiudersi una volta per tutte. Come il forte richiamo ad un isolamento che non era che una folle e debole attesa della sua polverosa estinzione.

Quando si attraversano certe cose c'è un'ombra dentro che non si dirada mai, che rende quasi vergognoso e sprecato l'esservi sopravvissuti.

Guardava Simone ridere contenta. Pensava a tante cose che si recava dentro con sé, annaffiando  tutto con quelle parole rimordenti che le aveva inutilmente detto. Per lei aveva fatto qualsiasi cosa. Come un pinball la vita li aveva fatti rimbalzare da un punto all'altro della forza del loro legame. Stretti e lontani, come un ventaglio che si allargava e poi si richiudeva senza che loro avessero mai potuto pronunciarsi.

E poi erano giunti, non si sa come, lì. In quella sera.

Intanto R. aveva deciso. Non avrebbe più scritto nulla da condividere col resto del mondo. Avrebbe covato dentro di sè, e per solo per sè, quel turbinio della vita nei prossimi brevi istanti.

Intanto Simone rideva, e non capiva. Intanto lui avrebbe voluto dirglierlo, ma non ci riusciva.
Intanto la scelta maturava. In un profondo spegnersi di tutti i suoni e nell'addormentarsi di tutte le voci.

La voleva accanto in quel momento. La strinse e la baciò con un fervore che sembrava affrettare qualche inspiegabile rincorsa dei giorni.

- Che hai R.?

- Nulla Simone...


E lei riprendeva a parlargli stringendogli il braccio in una maniera che se non fosse stata lei, gli avrebbe fatto male. Era quasi un trattenerlo lì. Un non volerlo lasciare libero.
Quasi che lei, quella parte di lei che ha sempre saputo tutto, stava comprendendo. Mescolando all'amore di non volerlo rinchiudere in una gabbia, quell'egoismo di trattenerlo forte accanto a sè.

R. non parlava ed era quasi impassibile.

Simone, ad un tratto, sembrò bloccarsi dal piangere.

Si affacciavano stretti da quel ponte tanto caro a Simone.

R. le accarezzava i capelli. E non l'amò mai così assordantemente come in quel momento.

Le accarezzò il volto, come avrebbe voluto fare tutto quelle volte che lei rifiutava ogni contatto.

- Hai un profilo splendido, Simone, quando alzi il viso e guardi verso il cielo. Fammelo ammirare un po'...

Le piegò il viso con le sue carezze, incontrando con le dita le diradate lacrime di lei. Lei gli sorrise, senza capire.

R. le fece scivolare sul mento le dita della mano,  con l'attrito di chi, quella donna l'avrebbe portata sempre con sè, aprendole tutto il mondo profondo che egli si portava dentro.

- R. ...  - ripeteva Simone.
- Non mi saresti mai bastata come nutrimento per i sogni e come anima del mio scrivere.

Costui la lasciò con molle ed evidente fatica. E si gettò nel fiume.




Questa era letteratura, la notizia del giorno è che probabilmente non scriverò più in questo blog. Per la semplicissima ragione che mi sono rotto le palle. E come disse Stéphane Mallarmé, non esiste eredità letteraria, perciò al momento opportuno, cancellerò tutto.

Ti amo, Simone.

Grazie a tutti.

giovedì 11 settembre 2008

Contrasti e memorie

Trascorrere mezza serata di fronte ad un personaggio.
L'altra mezza serata al telefono con la persona in carne ed ossa.
Che vento, che bel rumore.

C'è qualcosa che non funziona correttamente.

Sette anni fa, mi svegliai presto. Una mattina come tante perché mi sentivo piuttosto triste. Ed avevo ben ragione di esserlo, perché quel giorno sarebbe cambiato il mondo (sciocchezze, il mondo era già cambiato, le solite definizioni da politica da bar). Il mio mondo sarebbe cambiato.
Quella mattina mi iscrivevo all'università, mi immatricolavo, dopo mesi di lotta furibonda, scioperi, manifestazioni, occupazione del cesso, volantinaggio presso il parentado, dichiarazione di prigionia politica, tentativi di convincere la famiglia che io fossi un buono a nulla. E come tale meglio se destinato a non fare un cazzo, se non ad arrovellarmi  in cervellotiche macchinazioni nichiliste.
Magari tentare la botta di culo e sperare di prestare una simile, e pressoché inutile, mansione  lungo il tragitto di sviluppo dell'umanità ricavandone un tozzo di pane, un bicchiere d'acqua, un letto, un cesso, un libro, e una caterva di sogni da non realizzare.

Piccola parentesi: stanotte ho fatto un sogno di merda, mi sono svegliato odioso e col mal di testa. Nonostante tutto, pulcherrima, mi scoppia il tuo viso nel cervello, come una bottiglia di birra dimenticata nel congelatore.  Non che io ti possa dimenticare, intendiamoci. Chissà a che età si potrebbe accostare una similitudine del genere... chiusa parentesi.

E se penso che un mio amico parrucchiere riesce a fatturare oltre tremila euro al mese, sono sicuro di aver fatto una grande cazzata quella mattina.

La cultura non vi renderà mai persone migliori, fidatevi.
Perché in questa realtà imbevuta nel relativismo come un maxi assorbente, aiutatemi a capire, di grazia, che cosa vuol dire essere persone migliori?
Avere una elevata considerazione di se stessi? No, è impossibile, l'egoismo non basta.
Io ricorro a Darwin, sempre. Ogni essere vivente è una monade appartenente ad un corpus più generale: la specie. Più egli contribuisce alla procreazione della specie, più egli ottempera all'unica cosa per la quale esiste.
Sarà un caso che l'orgasmo è la punta massima di piacere sperimentabile? La competitività sociale e il successo economico sono espedienti inconsci che l'uomo persegue per garantirsi quanti più orgasmi possibili.
Pertanto, sprecare neuroni per scrivere codeste attuali stronzate, e poter citare il pensiero e le gesta di uomini grandiosi, a che cazzo serve?
Serve a complicarsi la vita punto e basta. Non garantisce più orgasmi di quanti se ne assicuri un deficiente qualunque, di quelli che non sanno leggere né scrivere, né parlare, né pensare.
 
Succede che diventi adulato da tutti, grande oratore e bella presenza. Atteggiamento schivo e reticente. Magari ci si diletta pure a scrivere cazzatelle sparse nei ritagli di tempo, uno dei pochi contatti di umanità che ci si consente senza timore di contaminarsi.
Il successo è dei coglioni. Quelli che la fanno facile perché oltre non possono andare, e non ingenerano sciocche responsabilità nei pensieri altrui.

Tanto valeva beccarsi i soldi, almeno.

Quella mattina era coerente col mio intrinseco, quasi calvinista, destino di condanna.
La tecnologia sarà pure ininfluente nel condizionare la felicità umana, ma se mi fosse venuta incontro quel giorno, come le analoghe mattine di settembre dei restanti quattro anni, a farmi evitare una fila di cinquecento persone allo sportello della segreteria, forse, non avrei sollevato la mia anima dal costante richiamo del suicidio, ma presumibilmente un sorrisetto di pacata soddisfazione me l'avrebbe indotto.

Soprattutto quando giunge il sospirato turno e ti appresti ad affrontare la megera armata di timbro e spillatrice, che ti scruta in maniera torva per scandagliare i lineamenti che il caldo torrido scioglieva sulla mia faccia, che progressivamente assomigliava sempre meno all'ineluttabile e impassibile individuo che riempiva la fototessera allegata alla triste domanda.

Ti accorgi di aver dimenticato quella cazzo di marca da bollo da ventimilalire, e devi ripartire dal via, per aver pescato la carta errata dal mazzetto non degli "imprevisti", ma del "com'era prevedibile stronzo".
Per concludere, la macchina tamponata, perché il danno doveva essere perfetto.

Apro una parentesi: pulcherrima, io muoio dalla voglia di vederti, eh, cazzo... chiudo parentesi.

Torno a casa distrutto e convinto di aver fatto la scelta peggiore della mia vita. Dopo un po' mi fidanzai con la persona sbagliata, e questa scelta finì al secondo posto nella bad parade. Poi iniziai il dottorato e questa scelta scivolò al terzo posto. E lì permane, per fortuna. 

Mi concedo al letto. Canticchiando parasimpaticamente
svegliatemi quando finisce settembre. E invece no. Ad un certo punto si ascoltano delle urla licantropiche che lo stato di sospensione para-vitale lentamente mi fa riconoscere come generate dalle corde vocali paterne.
Comincio ad armarmi il palato di invereconde bestemmie, nonostante non avessi inteso l'oggetto del delirio genitoriale.
Percorrendo il corridoio come fosse stato il miglio verde, cominciavo a distinguere tra quei tonfi latrati delle parole sputacchiate in un italiano medio e senza pretese: "la guerra, la guerra!!!.

E con le stalattiti agli occhi, mi sedetti sul divano davanti la televisione nel momento in cui crollava la prima torre. Ricordo che cambiai espressione sul mio viso, e riuscii a muovere una minima falangetta soltanto il giorno dopo. Si muoveva soltanto l'indice della mano destra, di tanto in tanto, per saltare da un canale all'altro tra i vari programmi televisivi.

Non mi abbandonerò mai, qui dentro, in considerazioni storico-politiche. Perché non me ne è mai importato nulla, in verità, se gli aerei fossero stati dirottati dagli scagnozzi di Al-Qaeda, o se gli americani stessi c'entrassero qualcosa. Questi discorsi hanno accompagnato sempre e soltanto discussioni disgustose esternate indecorosamente tra le sputacchie e i sedimenti di una bevuta da baretto intossicato.
Perché nel tritacarne ci stiamo dentro un po' tutti, in un modo o nell'altro.

Volevo entrare nella mente di chi si gettava dai grattacieli per non finire carbonizzato, provare il tetro sfizio di volare, sapendo che da lì a poco di lui sarebbe rimasto un fotogramma impersonale da magazine gossipparo socio-politico. Volevo entrare nei pensieri palpabili degli inconsapevoli che all'improvviso si son trovati a dover fare i conti con la morte imminente che ne avrebbe azzerato le vite, e che loro sentivano avvicinarsi lesta e insaziabile.
A coloro che non hanno fatto in tempo a chiedere scusa per i conti lasciati in sospeso. A coloro che mandavano un sms alla persona che amavano, incondizionatamente, sapendo che non l'avrebbero più rivista, sperando di sopravvivere in un ricordo non loro.
A tutte quelle parole che non si sono potute raccontare, alla vita che non si è potuto condividere, alle occasioni buttate nel cesso di un aereo che cadeva per i capricci di qualche coglione.
Coglioni di quelli che non hanno cultura, e hanno avuto il loro successo di metastasi universali.

Volevo entrare nella mente di una persona che muore. Per capire cosa vuol dire rinunciare per sempre ai propri desideri, alla propria speranza, ai ricordi, ai sentimenti, alla vanità delle proprie sofferenze e delle proprie rinunce.
Alle stronzate che quotidianamente sperperiamo, e alla felicità che sciaguratamente rinneghiamo per motivazioni ridicole e miserabili.
Perché al di là di ogni percorso, quell'attimo consapevole prima della fine, è probabilmente l'unico attimo in cui si è davvero persone migliori. Quando si ha la lucidità di confrontarsi col nulla più cruento, quello che cancellerà senza pentirsi ogni traccia dell'infinito che abbiamo conservato dentro.

Quel giorno la morte, quella mite e silenziosa, si trasformò in un circo con cui infestare il mondo di barbarie e paura. Un palcoscenico con cui si è voluto ammazzare anche la coscienza dei sopravvissuti.

Ed io mi vergogno, profondamente.
E non rinuncerò mai ad espandere la mia vita. Pur nella spasmodica attesa del mio attimo di persona migliore.

Simone de Beauvoir, quando morì Sartre disse: "
Sa mort nous sépare. Ma mort ne nous réunira pas. C'est ainsi; il est déjà beau que nos vies aient pu si longtemps s'accorder".

Chiusa un'altra parentesi, che ho aperto senza volerlo, confidando nell'intelligenza altrui.

mercoledì 10 settembre 2008

martedì 9 settembre 2008

Ma c'è una poesia che proprio...


"...E vestitele bene le poesie! Cercate bene le parole! Dovete sceglierle! A volte ci vogliono 8 mesi per trovare una parola! Sceglietele, che la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere! Da Adamo ed Eva: lo sapete Eva quanto c'ha messo prima di scegliere la foglia di fico giusta? Come mi sta questa, come mi sta questa, come mi sta questa... Ha spogliato tutti i fichi del paradiso terrestre! Innammoratevi! Se non vi innammorate è tutto morto! Morto, tutto è... Vi dovete innammorare e diventa tutto vivo, si muove tutto, dilapidate la gioia! Sperperate l'allegria! Siate tristi e taciturni con esuberanza! Fate soffiare in faccia alla gente la felicità! E come si fa? Dovete patire, stare male, soffrire, non abbiate paura a soffrire, tutto il mondo soffre! Eh?..."

Certe volte mi chiedo dov'è la felicità.
Oggi la felicità è stata una telefonata mentre stavo sminuzzando le mie zucchine bollite. Una telefonata mediante la quale mi si chiedeva quale fosse l'astro vicino la luna crescente.
Non poteva che essere Giove.

E poi, impelagarmi in monologhi in cui mi lascio per strada i condizionali.

Provare a strangolare la gente è una cosa piacevole, tra l'altro.

Phantom




Ma è sempre nella realtà concreta e modificabile che ho creduto.

Non ho trascorso notti bianche in compagnia di Dostoevskij.
Nasten'ka non c'era.

Là fuori c'è una bella giornata, c'è il sole. Potresti andare al mare.

- Perchè?

C'è, eppure senti asciugare l'umido, senti riscaldarsi i muri e gonfiarsi i cuscini, e più trascorrono le ore più le ombre si ritirano.

- Perchè?

Lo senti, sai che c'è, accidenti. La mattina ancora non ha invaso la strada.

- Non capisco.

Devi solo raggiungere il ciglio di quella finestra e lo vedi. Potresti addirittura uscire, andare al mare. Vai al mare.

- Non riesco ad alzarmi.

Posso fare in modo che sia più luce, se vuoi. Se non credi che ci possa essere il sole, non potrai mai sperare di sorridergli.

Mi girava la testa, c'era un buono odore di spezie, e le candele sostituivano la corrente elettrica non ancora allacciata. Diverse scatole ammassate al centro rendevano quella stanza più piccola di quanto non lo fosse stata. Davanti al vetro della porta erano stati incollati dei pannelli di carta bianca per isolare ulteriormente quell'ambiente. Ma la porta era aperta per concentire che la luce della strada e il vento potessero sedersi su quei divani sfondati e polverosi.
Una tizia provava ad appendere una lucertola di legno ad una parete, mentre io giocavo con l'arco, senza frecce, tirando quella corda e piegando il legno curvo.
Si sentiva tossire.
Acari fluttuanti.
Sedeva a quella poltrone con le magrissime gambe accavallate, in una posa congeniale e abitudinaria. Le dita scheletriche sembravano operare con chirugica attitudine. Mentre lo sguardo incavato si perdeva nell'ombra di lampadine spente e guaste.
Quell'altra rideva, il cugino tossiva.

 - Vuoi?

 - Sì. Grazie.

 - Macché grazie, imbecille... Sei uno stronzo del cazzo. Capiti dalle mie parti e non ti fai sentire, la prossima volta vaffanculo.

 - Non ero solo. E poi ci sono stato per pochissimo tempo.

 - Com'è?

 - Buona.

 - Sei soddisfatto, Alcor?

 - Quando parti per Berlino?

 - Tra qualche giorno. Ma prima torno a casa, là. Sei soddisfatto, Alcor?

 - Mettetici un ventilatore qua dentro. Si crepa.

 - Sei soddisfatto, Alcor?

 -
Verrò a trovarti, potrebbe capitare che passerò da quelle parti crucche.

 - Ti aspetto.  

lunedì 8 settembre 2008

Monday bloody monday



Non va.
Non va proprio.






- Noodles, cosa hai fatto in tutti questi anni?

- Sono andato a letto presto.


domenica 7 settembre 2008

La famigghia

Le uniche occasioni in cui è facile incontrare individui cromosomicamente affini, generati da progenitori  e trisavoli come minimi comuni multipli, sono i matrimoni e i funerali.
Entrambi pessimi appuntamenti.

I primi non sono gratuiti, ed i secondi sono patetici.
Lo so, sto bestemmiando, sono blasfemo. Ma io i funerali li odio, odio i cerimoniali, i riti, le canoniche beffe con cui quasi ci si burla  del dolore di chi subisce le perdite.
Un dignitoso silenzio che preserva  la memoria e la compartecipazione al dolore dei congiunti, sarebbe più onorevole.

Invece dilagano l'indifferenza e la strafottenza che si carnevalizzano in forme di rispetto che crepano dopo tre secondi di fronte all'inesorabile realtà.
Sindaco di merda del mio paese, che giungi abbronzato al termine della cerimonia per ingiungere quasi minacciosamente il tuo cordolente saluto alla vedova afflitta, pur sapendo che il defunto ti portava sul cazzo e tu contraccambiavi, perché non sei rimasto affanculo?

Fossi stato io il morto, o il vedovo, o l'orfano, gli avrei sputato l'incenso in faccia.

Io ai funerali ci vado per zittire mia madre e la sua lagna. Perché un domani potrebbero servirmi i voti di preferenza degli astanti, e perché fa sempre cinicamente comodo mantenere la veste sociale di bravo guaglione rispettoso.



E li ritrovi tutti lì, coagulati in piccoli gruppetti più o meno corrispondenti ai clan  coinvolti nelle faide interfamiliari cagionate dalle più nobili ragioni: eredità, litigi, spartizioni ineguali dei corredi tra le figlie femmine, la lotta all'ultimo appezzamento patrimoniale ridotto a sottobosco di sterpaglia che nessuno andrà mai a zappare, lo stipendio alla badante di mammà, i turni per il clistere alla nonna, il recipiente per le olive che mi hai fregato a tradimento mentre io con tanto buon cuore ti omaggiavo con cestini di gelsi e pere "recchiafals".

C'è  chi è stato  capace di rovinare bucoliche rimpatriate di cugini di svariato grado, a base di carne arrosto, per divergenze inconsulte sulla formula magica dello cherry. Roba che nemmeno la Coca Cola Corporation avrebbe difeso così strenuamente dai possibili tentativi di contraffazione.

Cerco di passare il più possibile inosservato ai più, a quelli che risiedono in altri comuni e del cui voto non mi frega niente, e a quelli che ritengo oramai bigottamente di destra, di cui potrei schifare persino una  socialista conversione lungo la via di Damasco. O di Treviri, così mi sento meno apostata.

Mi soffermo volentieri con i parenti che risiedono molto lontano, ad esempio, Roma. Perché un alloggio per l'evenienza farebbe sempre comodo, ma non solo. Non sono così malvagio dal non prendere in considerazione la vaga idea di voler bene a qualcuno di essi, e di nutrire una frizzante simpatia per i giovani rampolli , e coetanee cugine, del ceppo espatriato.

- Ma guarda un po' Alcor come ti sei fatto omo! Quanti anni hai adesso? 29 - 30?

- 26, arrotondando per eccesso.

- Accidenti, non ci vediamo da 13 anni...

- Eh già! Come stanno tuo marito XXXXX, e i piccoli YYYYY e ZZZZZ?

[da notare come l'essere malvagio che rigetta il mondo, cioè io, si ricordasse  tutti i nomi di persone mai viste se non in fotografia, e mai conosciute, e di una prole sempre in via di accrescimento delle proprie unità. Mentre la mia età è ogni volta stabilita mediante quotazioni e oscillazioni dei titoli indicizzati in qualche borsa. E poi io sarei
il cerbero, e gli altri i civili ossequiosi di questo cazzo, ma vabbe'...]

- Stanno bene, grazie, Alcor. Be' che ci racconti, sei fidanzato?

- No, ho smesso. Ora fumo il toscanello.

- Ah... ma tu studi ancora, vero? O no, cosa fai?

- Ora faccio il dottorato.

- Ah! Bello! E... che vuol dire concretamente?

- Faccio ricerca all'università.

[un lievissimo moto di orgoglio invade la mia faccia quando mi  compiaccio di un'attività che mi garba assai]

- Ah! Capisco... Va bene dai, non mollare, vedrai che qualcosa la trovi prima o poi...

- Ma vedi che io sono contento...

- ...ma sì, sei in gamba, alla fine ti sistemi anche tu...

- Ma io scrivo rapporti, viaggio, mi pagano...

- ...anzi, perchè non provi a mandare il CV a quella multinazionale dell'energia?

- Ma veramente io lavoro già!!!

- Comunque, su, non ti abbattere, non demoralizzarti!!! Ti aspettiamo, eh. Vieni a trovarci a Roma. Speriamo di non incontrarci sempre e solo in queste tristi occasioni. Ciao Alcor!!!

Che io non debba demoralizzarmi, va bene. Per tutto il resto, a Roma ci vengo. Ma voi potete andare tranquillamente a cacare, e non cagare, perchè non siete di Milano.

E speriamo di incontrarci un par de balle. (Anche perché ho saputo pure che hanno votato per Alemanno...)
Sciò.

venerdì 5 settembre 2008

Giove


Sbrigati Alcor, il popolo scalpita. Ha ansia di leggere. Un'ambulanza verrà a prenderti, una piccola puntura e potrai presenziare allo show.
Ok, solo un piccolo pizzicotto che trapasserà la cute. Non fa male, stai solo regredendo.

Eccomi finalmente a voi, effetti collaterali delle mie spongiformi secrezioni di stronzate.

Per ora, pertanto, rimando il suicidio e organizzo un gruppo di studio: le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani. Le masturbazioni cerebrali le lascio a chi è maturo al punto giusto, le mie canzoni voglio raccontarle a chi sa masturbarsi per il gusto.

Mi addormento mentre scrivo. Mi assale il rimorso delle ore perse, e la gelosia di pensieri che non oso condividere in aperta coscienza.

Sono le 15.00 o'clock di venerdì 5 settembre 2008. C'è un lucido vento di scirocco, che sbatte risalendo lo ionio dal versante più sporco.
Un sole centrifugato si scioglie scolando sul mio cortile e facendo zampillare fotoni posticci che oltrepassano la zanzariera della mia finestra.
L'umidità oltrepassa il 50%.
La mia urina è trasparente e pura come acqua sorgiva. Mentre piscio assomiglio ad un cherubino pisciante di una fontana del Bernini.
La partita a biliardo nel bar  è terminata prima del solito, e i concorrenti sono già accomodati altrove, chi ai tavoli misti da tressette e ramino, chi alle macchinette del videopoker.

Il pranzo sociale servito nel tinello prevedeva spaghetti in bianco con i tipici mitili del luogo (cozze), e succulenta bistecca ai ferri.
Nel mio solingo piatto eversivo, invece, una sdegnata faccia di madre svuotava biecamente mestoli di minestra di riso integrale con zucchine e carote. Accompagnava i mesti moti del suo polso con un'espressione di sdegno, rivolti al primogenito, vile prodotto del suo utero.
La vedova del secondo piano conduceva esperimenti nuovi sulla pressione materiale in onore di Evangelista Torricelli, passeggiando scalza e obesa, cagionando bradisismi e perturbando i calcinacci.

Il telefono non squilla, il disordine nella stanza lievita come una focaccina oberata da etilici fermenti di natura animale, vegetale e virale.
Gli amichetti lucignoli, irriducibili spiaggiofili, non si sono fatti sentire.
Il portafoglio è pieno di appunti, non vi sono più banconote, il taschino interno preserva un residuale capitale metallico per un ammontare pari a 4,50 euro, e dischetti in rame da 1 - 2 - 5 eurocent.
 
"Non stiamo facendo nulla, la destra si sta vendendo l'Italia, loro fanno quello che vogliono". Ma che cosa sono questi discorsi da autobus? Come siamo diventati prevedibili...
La luna è crescente. La costellazione del Toro a mezzanotte è già visibile ad est. Tra Cassiopea e Andromeda, preferisco Cassiopea, del resto, Il Laureato è uno dei miei film preferiti. Ok, questa è un po' complicata da intendere, ma chi se ne frega.
Obama è 10 punti avanti. La Roma è già 2 punti indietro.
La settimana più critica per le borse mondiali degli ultimi cinque anni, è questa. Gente non investite che butta male, e tra un po' si rialzano i tassi di interesse. Tenete i soldi al calduccio, farete del male al sistema ma parerete il vostro culetto. Homo homini lupus. Stagflazione, signori, è un dramma.
I punti delle mie cicatrici sono: 3 sulla fronte, 4 sul torace, 3 sulla schiena; 1 che mi trapassa l'anima da parte a parte.
I numeri odierni della mia pressione arteriosa sono: 60 la minima, 120 la massima, praticamente perfetto. Ma non mi sento mica tanto bene.
Vedo una macchiolina nuova sulla pupilla sinistra, sarà mica un retaggio? Non me ne importa. In fondo mi sento benissimo.

La mia agenda segnala tre partite di calcetto da disertare, il ritorno in ufficio, il metadone politico, la laurea di un mio amico nella città rossa che non vedo l'ora che giunga presto, per occulti motivi; la necessità di comprare un paio di stivali marlboro classic, una nuova fascia per la chitarra, un set di corde fender nuove, qualche MI cantino in più, un'armonica cromatica.
Voglio spaccare la faccia a qualcuno. Chi porge l'altra guancia? Lo specchio, forse, potrebbe suggerire il giusto.
Oh, nessuna coscienza è pulita davanti uno specchio...
Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati, buffoni che campate di versi senza forza, avrete soldi e gloria ma non avete scorza.

Dal mio pc promana la voce di Morrissey.
Sono in perenne attesa che giunga il tramonto. Sono io, e respiro. E sono innamorato. Mi innamoravo di tutto, di una sola persona.

Mi riesce estremamente complicato venire a capo di un discorso coerente. Mi ritrovo improvvisamente a fare i conti col ciarpame della soffitta, qualora volessimo euristicamente utilizzare una visione
palazzinara della vita umana.
Conseguenza è che non riesco a scrivere, poco male se fosse solo un problema di scrittura. Sogno e agogno il giorno in cui riuscirò a disintossicarmi da questa inchiostro/pixel-mania, e potrò finalmente relegare alle ortiche questo blog, e tutte le piattaforme più o meno reali dove scialacquo inopinatamente il mio prodigo tempo.
Anziché zittire, lusso che mi nego.

Manca l'acqua per via dei lavori al palazzo, eppure ho l'impellente necessità di accomodarmi sul medesimo sito in porcellana bianca dove la leggenda narra che Freddie Mercury abbia concepito  Crazy little thing called love.
Pertanto mi vedo costretto ad emigrare frettolosamente in un alloggio parentale con integerrime infrastrutture idrauliche.
C'è chi emigra per star bene, chi per brain drain. C'è chi emigra per la guerra, chi per la fame, chi per lavoro, chi per amore, chi per sfizio, chi perché si è rotto semplicemente il cazzo di stare nello stesso posto; c'è chi ama la zia, chi  va a Porta Pia, chi è morto di sfiga o di gelosia.
Così in un pomeriggio di inizio settembre
emigrai, per scrivere cazzate seduto sul cesso.

Per mettere ordine. E intercettare queste mirabolanti buone prassi per cambiare registro. E imparare a parlare.

Regrediamo, orsù, evocando mementi mentre facevo scivolare  le ore in riva ad un lago. Mi è rimasta qualche equazione matematica, un paio di promesse, un paio di contatti skype, una sbronza con due francesi in piena notte e un visino dolce, un po' emiliano e un po' marchigiano, a cui mi son deciso di rivolgere la parola troppo tardi, nonostante fosse l'unico volto che rispondeva ai miei sorrisi quando incrociavo gente lungo le scale della residenza repubblichina.
Ma non mi importava, se non per testare la mia vanità.

Il curriculum vitae si gonfia. Il turgore dei miei coglioni si svilisce sconcertato.

Regrediamo, orsù, alla pagina che apro davanti ai miei occhi una domenica tardo pomeridiana. Il pomeriggio durante il quale ho maggiormente odiato il tempo in vita mia.
Ma la mente mi autorizza a credere che una storia mia, positiva o no, è qualcosa che sta dentro la realtà.
Dovevo fare compagnia ad una borsa, mentre guardavo, guardavo, guardavo come non mi sarei mai stancato di fare, anche se è durata solo per qualche minuto.
Ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora, ed io non mi nascondo sotto la tua dimora.
Un po' sporca la gente intorno. Una monoporzione di sacher, ordinata nonostante il menu recava la pessima dicitura "saker", che da sola sarebbe valsa il gesto di alzarsi e andarsene.
Ma non potevo perdere tempo.
Talmente non potevo perdere tempo che mi stavo pisciando addosso.
Direte forse: ma, Alcor, tu urini sempiternamente? Provate a ingozzarvi di frutta e acqua in continuazione, e vediamo se non vi si diluisce pure la cazzimma, per chi ne è sano portatore.
Sono talmente diluito che mi sono scoperto geloso, e mi sono scoperto a consigliare alla gente di provare ad avere un po' di fiducia per il mondo.
Altro che mollusco, qui trascendiamo ampiamente nel regno dei protisti.

Ma la ragione è semplice. Io odio tutte le cristallizzazioni alla Durkheim, le istituzioni, i precetti. Il male che diventa una moda senza contenuti, il bene che lo incalza e lo imita come un pupo sordo e muto, la misantropia concava elevata a maschera di ossigeno per chi teme di contaminarsi. Essere diversi è un lento trascinarsi verso il nulla, forse, ma è un continuo peregrinare tra gli stati dell'anima. Spinti dal dubbio, e dalla voglia di non assomigliare a nulla, o quanto meno, a non sprofondare così irrimediabilmente dentro corazze di latta che arrugginiscono la moltitudine di possibilità.
Che cazzo ho detto? Non lo so. Il guaio è che non suona nemmeno tanto bene.
Lo cancello? No, non mi va, non mi rileggo io, non leggete voi. O fate il vostro comodo.

E poi sopraggiunge finalmente la voglia di mettere fine alla verginità delle mie pagine: e scrivo, finalmente sul primo imbelle foglio: "Non riesco a parlare, cazzo".
Guardalo lì che scrive. Questo il massimo della mia produzione negli ultimi 15 giorni.

Il resto, per quanto poco che sia, è mio.
Una puntata canonica di una vita normale. A tratti psicotica, a tratti illuminata. A tratti silenziosa e schiva come un saluto senza strascichi esterni, solo  con qualche carsico diluvio dell'anima, costipato laddove non dà fastidio, dove non nuoce, dove non urta.
Dove non corre il rischio di essere giudicato.

Della tratta ferroviaria adriatica odio il tragitto che si approssima verso casa. Appiana ogni sbalzo e rientranza litoranea come un noiosa linea retta che si svolge a guisa di lenzuolo. Troppa pianura, troppo banale. Troppo mal di testa per raccontarmi, e ibernare quello che ho portato via con me, anche stavolta.
La sensazione di non sapere dove diavolo sarei stato il giorno dopo tanto per cominciare. Le passeggiate solitarie all'alba in riva al lago. Quella cameriera maiala che mi forniva birre clandestine, le cene tra colleghi durante le quali prima intrattenevo la platea illustrando il processo che conduce alla produzione della mozzarella, e poi spiegavo loro quanto facesse bene alla salute non mangiarla.
Un sorriso salentino a tratti antipatico, a tratti maleodorantemente alto borghese, a tratti un po' "troia solo con chi dico io e non con voi miseri mortali", a tratti l'ho perdonata poi per quella sua espressione svampita e sciocca, allorquando mi ha servito riempendo il mio piatto di vitel tonné.

Guarda quello là, è Giove. Ma non gliene fregava un cazzo a nessuno. Piccola, unica, nota di tristezza e alienazione.
E poi ritrovarsi in una città dove gli autobus funzionano, c'è un'umidità pazzesca capace di nutrire zanzare-godzilla che anziché le semplici punturine ti infilzano il cuore trapassando lo sterno  in stile Pulp Fiction.
Attendevo il caschetto biondo che venisse a prelevarmi, e lo intravidi nei pressi di un braccio agitato in aria per catturare la mia sopente attenzione. Stivali scamosciati e cosce in evidenza, ma eri proprio tu? Possibile che eri tu colei che io avevo visto crescere? Dimenticavo, sei fatta grande, ed io sono vecchio, baby.

Devo ringraziarti io stavolta. Ma l'ho già fatto durante i miei silenzi, mentre dormivi e tremavi. O forse ero io a tremare, con il letto ikea che non reggeva il peso dei miei pensieri? Per l'esponenziale impennata della sideremia dovuta all'invasione di bresaola nel mio stomaco, per essere stata presente al primo Oban della mia vita, che tenerezza; per aver presenziato al suicidio inopportuno della mia bellissima e compianta scarpa destra, un attimo prima aver deciso di risalire le torricelle, o come cazzo si chiamano.
Grazie per avermi preso le buste dello shopping, che la mia sbadataggine stava regalando ad un futuro avventore che avrebbe posato le sue terga laddove qualche minuto prima, insistevano le mie.
A raccontar di cantici.

- Giuse', ma tu l'hai letta tutta la Bibbia?

- Sì.

- ...

- ... Troppe letture, amica mia, troppe riflessioni, troppe meditazioni...

- ... e pochi Aperol Spritz...


Grazie per essere stata la cavia dei miei massaggi al collo, in quella sera  colma di attese. Per avermi dato l'opportunità di ridere a denti stretti di un deficiente piagnucolante nei momenti topici dell'esistenza; per aver sospirato forse anche più di me mentre ti parlavo dei miei desideri per quell'indomani che sembrava non volere arrivare, quando dovevo salutarti senza sapere dove diavolo sarei andato.
Grazie, per aver condiviso con me il disgusto per un sessantenne che derideva la moglie inetta mettendo le sue luride mani addosso ad una prostituente ventenne compiaciuta di insozzarsi.
Grazie di esserci stata tu, sennò lo trucidavo spietatamente.

Grazie per l'attesa di un taxi più bella e straziante che avrei mai potuto vivere. Grazie perché non so mai di poter meritare tali iperboli della coscienza, di fronte ai quali mi sono sempre sentito insignificante. Laddove comprendo che il dolore, per quanto aguzzo come uno spiedo rovente conficcato nella carne giovane, è un viatico sincero verso una persona migliore.
Un tragitto che mi è negato, per l'indifferenza con cui mi sono nutrito da sempre, per l'assuefazione  cronica all'idea di insostenibilità dell'essere che mi rende inaccessibile qualunque lacrima, un trauma, una scomparsa, un'asportazione di vita per la quale sarebbe giusto versare la propria salvifica disperazione.

Rinunciare alla propria felicità è il tradimento peggiore. Nulla lo giustifica, nemmeno l'amore immenso per le persone a cui teniamo, per le quali saremmo disposte a lasciare perduta ogni traccia di noi, delle nostre speranze. Accontentarsi non aiuterà mai chici circonda a scontare, con la propria serenità, il nostro sacrificio di quella pace alla quale ogni essere tende.
Se non siamo felici noi, non lo saranno mai nemmeno coloro che amiamo. Percio, mia cara, nonostante la cazzimma, sii felice e sorridi un po' di più, cazzo.

Parlare in generale, e per gli altri è semplice. Lo ammetto. Parlare per se stessi, è un'altra storia.

Ossequiante ai miei bisogni, mi aggiro per un po' nel parentale alloggio, meta del fisiologico pellegrinaggio
C'è un calendario con immagini neorealiste. Uno dei miei film preferiti è Il Sorpasso. Secondo le categorie kantiane del mio pensiero, e so che citando Kant faccio felice un amico, Gassman è il più grande in assoluto.
I giudizi universali non esistono, e pur tacitamente ragioniamo sempre ralativisticamente. Per fortuna.

Torno a casa. L'acqua è tornata. E mi incazzo.
Non volevo scrivere, ed avrei fatto meglio. Non seguo  l'ordine delle date e del tempo, però posso affermare con risolutezza che il giorno 4 settembre 2008, sono stato una persona felice.

Il giorno 5 settembre 2008 invece non tanto. Un uomo sa di dover morire, ma non se ne cura, vive e fa i cazzi suoi finché non suona la campana di Hemingway. Muore quando perde l'illusione di essere eterno.
Nessun uomo è perfetto, deo gratias, ragion per cui è inutile crucciarsi nel fare l'autopsia ai propri comportamenti e pensieri. Ma scoprirsi incoerente e vedersi fare stronzate è abbastanza urticante.
Così si scopre di essere stati, semplicemente, e abbastanza normalmente, un imbecille.
Non come tanti altri, sia ben chiaro.
Ma ai tuoi stessi, irreprensibili occhi, che non fanno sconti di pena.

Questo succede oggi. O era ieri? Non ha alcuna importanza.






Good times for a change
See, the luck I've had
Can make a good man
Turn bad

So please please please
Let me, let me, let me
Let me get what I want
This time

Haven't had a dream in a long time
See, the life I've had
Can make a good man bad

So for once in my life
Let me get what I want
Lord knows, it would be the first time
Lord knows, it would be the first time

martedì 2 settembre 2008

Notice

Mi si nota di più se scrivo fregnacce, o se non scrivo per niente?

Vi manco? Anche io mi manco.