I was spinning round a dead dial
Just another lost number in a file
Dancing down a dark hole
Just searching for a world with some soul
Come sto? Malissimo, grazie.
Al netto delle stronzate che vado dicendo in giro, e delle cose che per fortuna non sto scrivendo.
Potrei fare un sunto delle faccende attuali, a partire proprio da questi silenzi calcificati intorno alla bocca e alla penna.
Ho uno squarcio sul labbro inferiore che il sole mi ha aperto in questi giorni trascorsi nella disincantata esposizione all'arsura.
Dovrei cominciare a dare un nome alle cose, e a cassarle dalla mia esistenza con la stessa metallurgica severità con cui ho pedissequamente rimosso ogni minima cosa che fosse percepita un tantino fetida dal mio olfatto.
Non ho mai tollerato le mediazioni e le menzogne.
Ho definitivamente certificato che i viaggi in treno all'andata sono un massacro per il mio deretano, persino quando ti ritrovi di fronte una italo-svizzera che riesce ad arrivarmi all'altezza naso; e che riesce a incuriosire la mia distratta attenzione quando si scioglie i capelli, quando la si sente parlare un italiano perfetto, ed un naturalissimo tedesco. Quando dalla sua borsa che si era inavvertitamente piegata sulle mie scarpe, ella tirava fuori una rivista scientifica anziché il solito sterco in cellulosa. Chiede scusa per aver sfiorato le mie ritraenti caviglie, e sorride.
Non rispondo, e procedo oltre nella mia lettura.
"Odio le ipocrisie. Tutto ha un motivo, non esistono pensieri e sensazioni oltre i quali non si annida un'attesa utilitaristica."
Penso questo mentre scrivo un haiku, tamburellando le dita davanti al finestrino del treno da cui s'emana l'aria condizionata. All'altezza di Ancona è il paesaggio che preferisco.
Ho il presentimento che la trasferta lombarda sia stata la mia Waterloo definitiva. Non appena mi sarà notificata la disfatta, la prima della mia vita professionale dacché questo soggiorno iniziò, potrò finalmente sperare di riuscire a ubriacarmi sul serio.
Che ignominiosa disdetta: massacrarmi costantemente il fegato senza approdare alla fatata condizione di spegnere le meningi per qualche minuto di completa incoscienza.
Inquinarmi le ghiandole che, senza licenza alcuna, dovrebbero filtrare la tossicità dei miei vizi, senza però godere di alcun beneficio a breve termine...
Quando mi giungerà la perniciosa missiva di rigetto, dunque, farò un giro intorno alla mia scrivania in cui maledirò la mia indolenza ridendo a crepapelle sulla mia assoluta efficienza nel riuscire a rovinarmi la vita e il futuro per delle minchiate.
Per ora mi contento di stare a brache calate controvento, in attesa che soffi l'empio turbine della vita, e, in posa alto-defecante, attendere che questo soffio punitore mi si ficchi in culo, come da copione.
Tre giorni di tregua sorridente. Baci, abbracci, tante risate. La tranquillità di aver tenuto le omittenti mani al loro posto nonostante la tentazione, anche questo come da copione. E quella sottilissima rottura di palle che serpeggiava comunque a ricordarmi, caro idiota, che non si sfugge.
Torno a casa appena in tempo per scoprire che un mio coetaneo, un tizio che veniva alle elementari con me, è morto stroncato da una leucemia fulminante.
Si dice che i genitori non gli avessero detto nulla che di lì a poco sarebbe sparito per sempre da ogni velleità esistenziale, fisica e metafisica. Gli hanno allungato l'illusione della vita, e gli hanno contestualmente confezionato un ingente pacco sorpresa.
Era uno di quelli con cui, da piccolissimi, si rischiava di litigare perché lo trovavi visceralmente antipatico, con quella cantilena tipica e sdegnosa, e la S moscia. Le lentiggini, e gli incisivi storti. Effettivamente sembrava effemminato.
Non lo vedi poi per anni ed anni.
Lo ritrovi dopo tanto tempo, la sera di un ridicoleggiante 8 marzo di un paio d'anni fa, in un negozio di fiori. Io cercavo il proprietario di una macchina parcheggiata davanti al mio passo carrabile. Lui comprava un mazzo di mimose con tulipani e margherite.
Una tizia da qualche parte attendeva prevedibilmente quel mazzo di fiori che lui riponeva con cautela, sorridente, sul sedile posteriore della sua Punto grigio topo. Dopo avermi salutato con un filo di voce, quella che trapela dopo che gli anni hanno seppellito persino la convinzione che ci si riesca a ricordare di essere stati bambini insieme.
Di lui ricordi solo le enormi tette della sorella che hanno fatto letteratura quando la ritrovavi nei caldi pomeriggi di maggio a lavare la scalinata di casa, e piegarsi per strizzare lo straccio nel secchio d'acqua sporca, mentre tu correvi zoppicante dietro ad un pallone che scivolava via.
Istantantanee riprese tra i ragazzetti che hanno da poco superato la decina d'anni di soggiorno, e cominciano a subire il fatale richiamo dei primi pruriti di felliniana memoria.
Una generazione quasi completamente composta da soldati e operai disillusi in partenza, e poi da qualcuno che ha continuato a studiare sperando che servisse a qualcosa. O forse per l'inerzia di un destino che non ha mai consentito voce in capitolo. Forse per imitazione, forse per imposizione, forse perché doveva andare così.
Che le cose vanno tutte così, a cazzi loro. Nonostante le seghe, nonostante gli arcigni tentativi di trovare una terza via fra la naturalezza delle cose, e la necessità di assecondare la propria martellante curiosità di scoprire come si evolvono le vicende, tutte. La stessa curiosità che vorresti ci fosse anche in chi è coinvolta in tali strane storie che, a volte, mi scadono nel patetico quando mi scopro a fare cazzate.
Messaggio non tanto subliminale per chi sostiene, errando, che io "me la tiro". Pessima espressione che utilizzo solo perché mi sono francamente rotto il cazzo di taggare quello che penso e scrivo con il bollino dell'esclusività, cosa che non mi è mai appartenuta.
Voglio prendere un altro treno. Da solo, come sempre. Fare qualche imboscata, sapendo che non me ne pentirò. Che dopodomani potrà cadermi un sasso in testa e frantumare qualcosa di molto più importante della mia scatola cranica.
L'illusione di una vita, la vaga sensazione di una speranza di un futuro senza scassamenti di minchia prodotti in proprio, e la convinzione assoluta di non aver mai bluffato al tavolo da gioco con il destino. Aver fatto le puntate giuste, senza strategie imparate per fregare la vita e il dolore.
Ad armi pari, e con lealtà. Trasparente e vulnerabile come tutte le persone oneste che sono abituate a prenderla in culo perché dicono esattamente quello che pensano. Laddove è più produttivo recitare salmi di ruoli compromettenti, annesse promesse e verità inesistenti che prima o poi saranno demolite dall'esperienza.
Il genere umano non abbisogna di sicurezze, ma di impastrocchiarsi nei casini.
Ah sì, quel mio amico saggio, eccome se aveva ragione... servono tante mazzate...
Ci piace fare le vittime dopo tutto, è comodo, è gratuito stringerci nelle spalle e dire: è andata così.
"Andata così", un tronco inguinale di toro.
Rischiare non è un problema, non ti fotte, quando ne vale la pena. E quando senti i piedi incollati al terreno perché frenati non si sa da cosa, ecco è lì che senti già la sconfitta spalancare le fauci sotto i talloni che tremano.
Perché ogni brama, ogni inseguimento, ogni desiderio più o meno legittimo è sempre una voglia di sé che si compiace negli altri. L'uomo è fine e mezzo allo stesso tempo. Se pensi agli altri soltanto come un fine, non stai facendo altro che abdicare a te stesso.
Ed è la peggior cazzata.
Anche il martire più pio è stato un profondo egoista orgoglioso. La giusta azione per il fine errato. In una stridente tensione tra la propria volontà, e quella rinuncia totale che priva di ogni senso.
Il trionfo avverrebbe così attraverso la propria rinuncia. Ma anche la rinuncia è orgoglio, tanto vale rassegnarsi.
A volte sono arrivato a temere che, reconditamente, per me anche l'amore non è altro che una forma di vanitosa sazietà di me stesso.
Forse lo è, forse no. Forse non sarò mai in grado di capire veramente che diavolo significa voler bene.
Intanto cala la sera sempre più presto e l'equinozio della discordia incalza. E tutti quegli impegni che sembravano sepolti sotto la bassa marea delle giornate confuse, in cui si recuperano i ritardi cagionati dall'ozio e dall'onanismo intellettuale che pervade le mie ore, stanno ritornando a irradiare lentamente i cazzi in culo che indugiano lì, dietro l'angolo dove soffia la corrente più fresca.
Quella che ti spacca in due, come una caduta da cavallo, nella disperata ricerca di circoscrivere la portata della Waterloo.
Corriamoci su, con la musica a palla. Non ho nemmeno bisogno di ascoltare le macchine per strada, né i cani randagi.
Solo una Fender Stratocaster che sfonda le orecchie.
Je m'engage et puis je vois,
Napoleone Bonaparte.
Just another lost number in a file
Dancing down a dark hole
Just searching for a world with some soul
Come sto? Malissimo, grazie.
Al netto delle stronzate che vado dicendo in giro, e delle cose che per fortuna non sto scrivendo.
Potrei fare un sunto delle faccende attuali, a partire proprio da questi silenzi calcificati intorno alla bocca e alla penna.
Ho uno squarcio sul labbro inferiore che il sole mi ha aperto in questi giorni trascorsi nella disincantata esposizione all'arsura.
Dovrei cominciare a dare un nome alle cose, e a cassarle dalla mia esistenza con la stessa metallurgica severità con cui ho pedissequamente rimosso ogni minima cosa che fosse percepita un tantino fetida dal mio olfatto.
Non ho mai tollerato le mediazioni e le menzogne.
Ho definitivamente certificato che i viaggi in treno all'andata sono un massacro per il mio deretano, persino quando ti ritrovi di fronte una italo-svizzera che riesce ad arrivarmi all'altezza naso; e che riesce a incuriosire la mia distratta attenzione quando si scioglie i capelli, quando la si sente parlare un italiano perfetto, ed un naturalissimo tedesco. Quando dalla sua borsa che si era inavvertitamente piegata sulle mie scarpe, ella tirava fuori una rivista scientifica anziché il solito sterco in cellulosa. Chiede scusa per aver sfiorato le mie ritraenti caviglie, e sorride.
Non rispondo, e procedo oltre nella mia lettura.
"Odio le ipocrisie. Tutto ha un motivo, non esistono pensieri e sensazioni oltre i quali non si annida un'attesa utilitaristica."
Penso questo mentre scrivo un haiku, tamburellando le dita davanti al finestrino del treno da cui s'emana l'aria condizionata. All'altezza di Ancona è il paesaggio che preferisco.
Ho il presentimento che la trasferta lombarda sia stata la mia Waterloo definitiva. Non appena mi sarà notificata la disfatta, la prima della mia vita professionale dacché questo soggiorno iniziò, potrò finalmente sperare di riuscire a ubriacarmi sul serio.
Che ignominiosa disdetta: massacrarmi costantemente il fegato senza approdare alla fatata condizione di spegnere le meningi per qualche minuto di completa incoscienza.
Inquinarmi le ghiandole che, senza licenza alcuna, dovrebbero filtrare la tossicità dei miei vizi, senza però godere di alcun beneficio a breve termine...
Quando mi giungerà la perniciosa missiva di rigetto, dunque, farò un giro intorno alla mia scrivania in cui maledirò la mia indolenza ridendo a crepapelle sulla mia assoluta efficienza nel riuscire a rovinarmi la vita e il futuro per delle minchiate.
Per ora mi contento di stare a brache calate controvento, in attesa che soffi l'empio turbine della vita, e, in posa alto-defecante, attendere che questo soffio punitore mi si ficchi in culo, come da copione.
Tre giorni di tregua sorridente. Baci, abbracci, tante risate. La tranquillità di aver tenuto le omittenti mani al loro posto nonostante la tentazione, anche questo come da copione. E quella sottilissima rottura di palle che serpeggiava comunque a ricordarmi, caro idiota, che non si sfugge.
Torno a casa appena in tempo per scoprire che un mio coetaneo, un tizio che veniva alle elementari con me, è morto stroncato da una leucemia fulminante.
Si dice che i genitori non gli avessero detto nulla che di lì a poco sarebbe sparito per sempre da ogni velleità esistenziale, fisica e metafisica. Gli hanno allungato l'illusione della vita, e gli hanno contestualmente confezionato un ingente pacco sorpresa.
Era uno di quelli con cui, da piccolissimi, si rischiava di litigare perché lo trovavi visceralmente antipatico, con quella cantilena tipica e sdegnosa, e la S moscia. Le lentiggini, e gli incisivi storti. Effettivamente sembrava effemminato.
Non lo vedi poi per anni ed anni.
Lo ritrovi dopo tanto tempo, la sera di un ridicoleggiante 8 marzo di un paio d'anni fa, in un negozio di fiori. Io cercavo il proprietario di una macchina parcheggiata davanti al mio passo carrabile. Lui comprava un mazzo di mimose con tulipani e margherite.
Una tizia da qualche parte attendeva prevedibilmente quel mazzo di fiori che lui riponeva con cautela, sorridente, sul sedile posteriore della sua Punto grigio topo. Dopo avermi salutato con un filo di voce, quella che trapela dopo che gli anni hanno seppellito persino la convinzione che ci si riesca a ricordare di essere stati bambini insieme.
Di lui ricordi solo le enormi tette della sorella che hanno fatto letteratura quando la ritrovavi nei caldi pomeriggi di maggio a lavare la scalinata di casa, e piegarsi per strizzare lo straccio nel secchio d'acqua sporca, mentre tu correvi zoppicante dietro ad un pallone che scivolava via.
Istantantanee riprese tra i ragazzetti che hanno da poco superato la decina d'anni di soggiorno, e cominciano a subire il fatale richiamo dei primi pruriti di felliniana memoria.
Una generazione quasi completamente composta da soldati e operai disillusi in partenza, e poi da qualcuno che ha continuato a studiare sperando che servisse a qualcosa. O forse per l'inerzia di un destino che non ha mai consentito voce in capitolo. Forse per imitazione, forse per imposizione, forse perché doveva andare così.
Che le cose vanno tutte così, a cazzi loro. Nonostante le seghe, nonostante gli arcigni tentativi di trovare una terza via fra la naturalezza delle cose, e la necessità di assecondare la propria martellante curiosità di scoprire come si evolvono le vicende, tutte. La stessa curiosità che vorresti ci fosse anche in chi è coinvolta in tali strane storie che, a volte, mi scadono nel patetico quando mi scopro a fare cazzate.
Messaggio non tanto subliminale per chi sostiene, errando, che io "me la tiro". Pessima espressione che utilizzo solo perché mi sono francamente rotto il cazzo di taggare quello che penso e scrivo con il bollino dell'esclusività, cosa che non mi è mai appartenuta.
Voglio prendere un altro treno. Da solo, come sempre. Fare qualche imboscata, sapendo che non me ne pentirò. Che dopodomani potrà cadermi un sasso in testa e frantumare qualcosa di molto più importante della mia scatola cranica.
L'illusione di una vita, la vaga sensazione di una speranza di un futuro senza scassamenti di minchia prodotti in proprio, e la convinzione assoluta di non aver mai bluffato al tavolo da gioco con il destino. Aver fatto le puntate giuste, senza strategie imparate per fregare la vita e il dolore.
Ad armi pari, e con lealtà. Trasparente e vulnerabile come tutte le persone oneste che sono abituate a prenderla in culo perché dicono esattamente quello che pensano. Laddove è più produttivo recitare salmi di ruoli compromettenti, annesse promesse e verità inesistenti che prima o poi saranno demolite dall'esperienza.
Il genere umano non abbisogna di sicurezze, ma di impastrocchiarsi nei casini.
Ah sì, quel mio amico saggio, eccome se aveva ragione... servono tante mazzate...
Ci piace fare le vittime dopo tutto, è comodo, è gratuito stringerci nelle spalle e dire: è andata così.
"Andata così", un tronco inguinale di toro.
Rischiare non è un problema, non ti fotte, quando ne vale la pena. E quando senti i piedi incollati al terreno perché frenati non si sa da cosa, ecco è lì che senti già la sconfitta spalancare le fauci sotto i talloni che tremano.
Perché ogni brama, ogni inseguimento, ogni desiderio più o meno legittimo è sempre una voglia di sé che si compiace negli altri. L'uomo è fine e mezzo allo stesso tempo. Se pensi agli altri soltanto come un fine, non stai facendo altro che abdicare a te stesso.
Ed è la peggior cazzata.
Anche il martire più pio è stato un profondo egoista orgoglioso. La giusta azione per il fine errato. In una stridente tensione tra la propria volontà, e quella rinuncia totale che priva di ogni senso.
Il trionfo avverrebbe così attraverso la propria rinuncia. Ma anche la rinuncia è orgoglio, tanto vale rassegnarsi.
A volte sono arrivato a temere che, reconditamente, per me anche l'amore non è altro che una forma di vanitosa sazietà di me stesso.
Forse lo è, forse no. Forse non sarò mai in grado di capire veramente che diavolo significa voler bene.
Intanto cala la sera sempre più presto e l'equinozio della discordia incalza. E tutti quegli impegni che sembravano sepolti sotto la bassa marea delle giornate confuse, in cui si recuperano i ritardi cagionati dall'ozio e dall'onanismo intellettuale che pervade le mie ore, stanno ritornando a irradiare lentamente i cazzi in culo che indugiano lì, dietro l'angolo dove soffia la corrente più fresca.
Quella che ti spacca in due, come una caduta da cavallo, nella disperata ricerca di circoscrivere la portata della Waterloo.
Corriamoci su, con la musica a palla. Non ho nemmeno bisogno di ascoltare le macchine per strada, né i cani randagi.
Solo una Fender Stratocaster che sfonda le orecchie.
Je m'engage et puis je vois,
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