Abbiamo studiato, abbiamo viaggiato, abbiamo scritto, abbiamo filmato quello che abbiamo scritto, abbiamo amato, abbiamo detestato, abbiamo rilanciato, abbiamo avuto stenti, abbiamo subito la circoncisione, abbiamo conosciuto il potere, abbiamo persino vissuto, talvolta.
Abbiamo conosciuto luoghi che hanno segnato le nostre coscienze come una macchia di olio motore sui polpastrelli. La vita ci ha teso trappole come il venerabile Jorge arrapato da una commedia.
Sembrava che l'unica mèta geografica raggiungibile sarebbe stata la penisola del prossimo divano, in un salotto adornato di copie false di Munch e incensi all'oppio, con bottiglie di brandy lasciate a metà ad evaporare di inedia, e la collezione di piccoli Trudy a memoria delle tue ex come unici possibili trofei di caccia.
Una vita avventurosa che ha conosciuto i suoi massimi sforzi solo quando chinata sull'ovale trono, protesa all'espulsione dei sottoprodotti dell'apparato più ginnico del proprio essere.
Ora sono qui, da solo. In un luogo dove la temperatura è costante, ed il tempo è scandito da uno stillicidio lontano su una parete di zolfo. Un tacito sussurro che fende il silenzio assoluto, e l'indifferenza del buio trasforma le palpebre in inutili lembi epidermici. Sento il mio odore, quello della stanchezza che segue allo sforzo di una risalita da un pozzo stretto e profondo una decina di metri. Pochissimi ma infiniti alla prova di chi fino a ieri sembrava non essermi mai mosso.
Il silenzio, il buio, una goccia d'acqua fredda, ed una corda da dieci millimetri impregnata di fango che ti salva la vita.
Quelle rocce sono lì da migliaia di anni, sono crollate quando il fiume si è ritirato in questo letto sotterraneo. E adesso ogni goccia scava queste pareti con la perseveranza dell'eternità. Ho attraversato meandri fangosi e strettoie che avrebbero fatto intimidire una mia sola gamba nei periodi di massima noia.
Sono stato appeso per quasi un'ora nel buio. La mia vita è stata affidata alla tenacia di uno spit infilato nella pietra ad un'altezza che non posso immaginare. Il moschettone ed il nodo che mi reggono sono fuori dalla portata della mia vista. Devo risparmiare il fiato, devo misurare la risposta d'acqua alla mia eterna sete, devo risparmiare le energie dosando con esattezza i movimenti delle mie caviglie e delle mie ginocchia, in un gioco di equilibri in un cappio in cui è infilato il mio piede. Ogni movimento sfasato, ogni scatto di rabbia che mi allontana dalla precisione con cui deve essere dosata la mia azione, mi allontana dalla resurrezione.
Le gambe si indolenziscono alla morsa delle fasce del mio imbrago, troppo a lungo sono state inermi, e bramano la riscoperta della vita per la quale il mio genoma le ha programmate.
Nessuno può tendermi una mano, o aiutarmi a sganciare la morsa bloccante che tiene ferma la corda al mio petto, consentendomi di restare appeso.
Sto usando muscoli che non credevo neanche di possedere, e per la prima volta nella mia vita mi impongo di non tremare, di non irrigidire la mia carne davanti all'ignoto, di non arrendermi e di avere fiducia. Un giorno quella fiducia saprà scorrere limpida e autonoma, dopo che il crollo delle mie paure e resistenze scaverà letti millenari che la raccoglieranno, e quelle gocce sapranno pazientemente zampillare in ogni atto della mia esistenza che sarà generato dal momento esatto in cui potrò consegnarmi al sole o alle stelle.
Perché io dovrò uscire prima che il freddo venga a prendermi. E dovrò uscirne da solo. Entrato per caso, uscirò con la volontà.
Avrò le ginocchia bruciate e le caviglie gonfie, non basteranno due giorni per smettere di dormire, camminerò sulla mia strada come mi avessero montato i piedi per la prima volta, e dopo aver conosciuto il buio, i miei occhi sapranno distinguere meglio i contorni ed i movimenti delle cose del mondo.
E quando guarderò a me stesso saprò che ho fatto parte dei moti millenari che hanno costruito questo universo, ricongiungendomi a quella polvere che ha generato le stelle, i pianeti, le rocce, la mia carne e tutti i miei sogni.
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