"Desiderava fare qualcosa che non lasciasse la possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi anni.
Era la vertigine.
L'ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere.
La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare ad essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cade in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso."
La regina di Itaca doveva possedere una tenacia fuori dal comune. Ella tesseva e sdruciva il medesimo ricamo ogni notte, e nel continuo ritorno del suo ago lungo l'esperito tragitto del suo filo guidato da mani sicure, rafforzava il senso della sua attesa. Traeva da essa la forma che sostanziava il suo tempo, nell'affidamento certo di tutte le grazie ad un moto che si ricaricava di ferme convinzioni ad ogni punto di ripresa.
Riempì la sua borsa all'ultimo momento, mentre aspettava l'autobus sotto casa i suoi piedi disegnavano cinconferenze sghembe sul terreno appena madido della prima pioggia d'estate. Il terriccio sotto i faggi conservava l'impronta della punta delle sue scarpe. L'attesa le rielencava il contenuto del suo bagaglio leggero che non le lasciava alcuna striscia di fatica sul palmo delle sue piccole mani chiare.
Portava con sé un cappello dalla frangia larga. Tutti gli oggetti essenziali che le avrebbero consentito di rilanciare al tavolo della vita li aveva lasciati a casa. La sua biancheria intima era perfettamente accatastata per riempire borse che sarebbero rimaste lì, aperte e mai riempite.
Aveva portato con sé un accendino, nonostante non fumasse regolarmente. L'aveva trovato qualche giorno prima in cucina. Un suo amico l'aveva lasciato lì dopo aver acceso una sigaretta a cena, non prestando alcun ascolto alla sua richiesta di non fumare in casa.
Anche G. perdeva spesso l'accendino, e lei pensò che gli sarebbe stato utile quando sarebbe successo, e lui le avrebbe offerto da fumare. Pensava che G. avrebbe acceso la sua prima sigaretta dopo averla salutata e baciata, non prima.
Aveva lasciato a casa anche l'ultimo paio di scarpe di tela bianca che aveva comprato, semplici e comode, per preservare le sue caviglie dalle lunghe passeggiate. Si giustificava adesso raccontandosi che avrebbe passeggiato scalza.
Con larghissimo anticipo spense il suo cellulare, si sedette sul margine di una vetrina su cui campeggiava enorme la scritta SALDI, e poggiò il suo viso tra le mani a coppa.
Si accorse che tendeva inconsciamente ad allungare la gonna verso il ginocchio, come a scacciare via la sensazione di sentirsi nuda, di sentirsi spiata. Da qualche tempo le sembrava che anche gli sguardi più distratti riuscissero a pungerla oltre le vesti e la carne, che la sua vita fosse divenuto uno spettacolo gratuito da serata estiva al parco.
Su ciascun volto coglieva un'espressione riprovevole che testimoniava la partecipazione dell'intera platea umana alle conversazioni che intavolava con se stessa. Corti improvvisate che sentenziavano in pochi secondi la loro versione circa le sue conversioni.
Il monitor del gate annunciava l'avvio delle fasi di imbarco. Era certa che dall'altra parte della rotta aerea ci fosse G., ansioso, che contava i minuti disegnando circonferenze sghembe. Le venne un sorriso denso d'affetto e si sentì all'improvviso colta da un senso di leggerezza. Si sentì sollevare, accompagnata da una stretta di mano in mezzo a tutta quella gente.
S'alzò, e vide che la confusione si stava organizzando in code. Afferrò la sua borsa e, inaspettatamente, inciampò.
Si scoprì che inciampava nei viottoli della leggerezza.
Ferma. Si ravvivò il rossetto sulle labbra e si passò una mano tra i capelli. Voleva sentirsi bella, e il suo specchio era la vetrina in rifacimento che campeggiava davanti a lei. Passi di ogni genere attraversavano il suo riflesso rivelandole tutto il suo immobilismo.
Si scoprì forse ancorata al suolo, mentre la coda di gente si rinforzava.
Stava per cadere, e avvertì il brusco risveglio. Riprese il rossetto dalla borsa e cominciò a passarlo più volte sulle sue labbra, voleva essere certa che la sua bocca esistesse ancora, e non le fosse strata strappata via all'urto con qualche vitrea parete di cui non avesse percepito la presenza. Non riusciva a distinguerla bene, la sua bocca, nella distanza di tre metri dalla vetrina nella quale si vedeva riflettere, e che veniva attraversata da viaggiatori di corsa.
La fase di imbarco stava per concludersi, lei nella coda non si era ancora inserita.
Un distinto signore di cinquant'anni le passo accanto e le sorrise. Le aveva camminato lentamente intorno senza che lei se ne accorgesse per diversi minuti. Finché si fermò e le chiese se avesse tempo per un caffè, e se per caso la fortuna li avesse condotti sullo stesso volo.
Lei non rispose, ed egli provò ad insistere con atteggiamenti languidi. S'accorse che lo sguardo del cinquantenne s'ammantava di un'aria volgare ed era concentrato verso il suo culo con cui sembrava volesse toccarla e afferrarla brutalmente.
Lei strinse le braccia intorno al corpo, come se volesse proteggersi da quello sguardo che potesse accorfersi della sua nudità. E non disse nulla.
Il distinto signore, stizzito, mordicchiò un insulto con una smorfia che sembrava scacciarla via dal gioco normale degli esseri umani, dai loro mescolamenti superficiali e codificati dalle leggi dell'effimero che inflaziona l'appagamento per annullare la fame.
Un brivido la percorse, e si sentì smarrita. Come se avesse subìto un tentativo di scippo all'uscita del carcere.
Prendere quell'areo sarebbe stata una scelta in cui avrebbe dovuto risarcire la leggerezza con responsabilità.
Tutti gli sguardi si trasformavano in mani seduttive che provavano ad afferrarla, spogliandola dal peso della scelta, dissipando in una polvere di infinite stazioni appaltanti la gestione degli spazi della sua felicità, fonti straniere al suo autonomo discernimento.
La convinzione che il governo di quegli spazi potesse tornare completamente nelle sue mani, e nella sua volontà, ora sembrava spiazzarla e la atterriva, provocandole un senso di nausea.
Al contrario, conosceva le pareti della sua stanza senza doverle cercare con gli occhi. Quella leggerezza sembrava ora soffocarla, si sentiva lanciata ad alture con parole di scarsa densità materiale sulle quali avrebbe dovuto poggiarsi senza badare alla possibilità di cadere.
Quel valore richiedeva una fede sterminata dal sapore nuovo, differente dai pasti di cui s'era nutrita fino ad allora.
L'abitudine induce una mano a scorrere lungo un telaio e ricamare trainata da gesti sicuri e consolidati. Le uscite di sicurezza le riconosceva camminando a gattoni in caso di incendio, segni distinguibili sono tracciati su ogni terreno.
dimmi, senza un programma, dimmi come ci si sente
L'ultima chiamata delle assistenti, e la fretta dei ritardatari che la evitavano senza guardarle il culo.
Prese il rossetto dalla sua borsa e lo lasciò scorrere ancora una volta lungo le sue labbra. Si scompigliò i capelli e riaccese il suo telefono.
Cercò il numero di un vecchio amico di scuola.
- Vieni. Riportami a casa.
dove un attimo vale un altro
" [...] Perciò si lanci, accidenti a lei."
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