C'era una volta R.
Una mattina si svegliò in un'umida casa di montagna. Aveva dimenticato la sveglia attiva per ricordare a se stesso che c'era sempre qualcosa da fare. Poteva percepire l'avanzata eel giorno pur non avvistando alcuno spiffero di luce dalle fessure degli antoni in legno. Quella stanza apparteneva a qualcuno di cui provava a ricordare l'odore.
Al buio tentò di ritagliare sagome intorno alla sua veglia, per decifrare la sua esatta posizione e scoprire dove fosse collocato l'uscio di quella stanza dalle pareti viola adornate. La trapunta era fredda, e le lenzuola attorcigliate in maniera disordinata sotto la schiena premevano in maniera fastidiosa sotto la sua pelle.
Un indolenzimento in corrispondenza della sua ascella sinistra gli ricordò che non la nottata era trascorsa lontano da casa.
Un tizio egiziano gli aveva offerto dei biscotti durante il viaggio, ma lui rifiutò perché i suoi occhiali da sole in ore notturne non gli consentivano di paragrafare le intenzioni sospese li in fondo, ad una breve e invalicabile distanza.
Poggiò la sua mano sul letto madido per sollevarsi.
Una impronta di sangue fu stampata dal suo palmo su quella superficie, e un'orda di barbari echi gli attraversaroni la mente.
Portò le dita alla bocca per riconoscere la fonte della ferita e s'accorse di un taglio superficiale sul suo costato destro.
Allora s'alzò pronunciando il suo astratto nome. E con quelle dita tracciò un segno sulla porta che il sole non potè rimuovere.
Scrisse per lasciare una speranza a lui invisa. La speranza che nel luogo in cui ogni evento è stato possibile, nel luogo segnato dalla culla di ogni proposito fossero ancora presenti le tracce genetiche di una creatura che la natura aveva selezionato come invalida, condannandola alla sua prematura estinzione.
I resti di quel rigetti avrebbero consentito alla sua coscienza di riabilitarsi con il nome della stella nota agli sguardi acuti.
La melodia di parole dettate da una mente migliore e immacolata avrebbero ricucito le fibre di un'entità corrosa dalle percosse dei giorni infausti.
Aprì quella porta e vi scorse un tavolo in fondo alle scale. Vi era un vassoio con biscotti umidi e soffici. Non li assaggiò preferendone il profumo. Ne raccolse un pugno di molliche residue a pasti marginali.
E svuotò le mani in un cortile bagnato.dalla pioggia.
L'acqua bagnò i capelli e un ricordo li sfiorò.
Tornerò, si disse.
mi piacerebbe leggerti ancora
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