venerdì 31 dicembre 2010

Rende bene l'idea




"...stasera nun me chiede si te amo
perché te direi "si" pensanno a 'n aeroplano
o a quarcosa de strano..."

domenica 26 dicembre 2010

Globuli bianchi


Coloro che nel traffico proseguono senza alcuna fretta, e in piena congestione di auto si fermano ad ogni incrocio nonostante godano del diritto di precedenza per lasciar cavallerescamente transitare coloro che sbucano dalle traverse secondarie...

Coloro che per un culo di femmina son capaci di diventare daltonici davanti al semaforo... coloro che condannano troppo nettamente gli affiliati ai clan del moralismo e della rassegnazione.

I maschi che si affilano le sopracciglie. Gli stronzi che rigano le macchine durante le gelide ore del solstizio invernale. Ed i bloggher che dispensano complimenti che rasentano la reciproca pratica della fellatio.

- Ben ritrovato, amico mio.

- Sei tornato, quanti giorni ti son rimasti da vivere? Offrimi una sigaretta, tu dovresti smettere.

- Che vuoi da bere?

- Acqua con ghiaccio.

- Fa freddo.

- Acqua.

- Non ti riconosco più.

- Nemmeno io mi riconosco più.

- Che è successo?

- Un gran mal di testa. Avrei bisogno di un massaggio ai piedi. 

- Una sbronza?

- No. Qui davanti al bar. Era una vecchietta e stringeva una borsa. Ferma al semaforo attendeva di attraversare. Inciampa e le cade un foglio dalla tasca. Non so per quale ragione mi sono piegato a raccoglierlo e l'ho raggiunta per restituirglielo. Mi ha stretto la mano senza guardarmi ed è scappata saltellando sulla sua osteoporosi lasciando cadere il foglietto per strada.
Il foglio era vuoto e non vi era scritto nulla. In compenso ho un gran mal di testa.

- Hai l'aspetto di uno scarafaggio, Gregor. E puzzi da far schifo. Esci da questo locale e non farti vedere mai più. Un'ultima cosa, Greg, come sta tua sorella?

- Mia sorella è una lurida troia.

mercoledì 22 dicembre 2010

Immobilità - chapter 4


Ancora una volta, in quegli occhi, si rinvenivano i tratti di un dipinto fatto di colori, adesso completo di una nuova presenza, in basso, nel lato opposto a quello in cui lui era relegato, ancora, e vi era anche quella donna, adorna di una bellezza che il tempo era riuscito a portarle via, che spasimava, triste, i suoi sguardi erano rivolti in alto.
Perché quell’incontro rispolverava vecchie immagini sepolte, che sembravano generate dalle riga del libro che aveva visto nella libreria?

Com’era fragile la resistenza illusoria che impediva alla sua coscienza d’emergere così vendicatrice dal confino in cui era stata relegata dalla vergogna.
Abbassò gli occhi ed ebbe una risposta, che forse la percezione inconscia aveva trovato già prima, ma che la sua persona non capiva, per i continui ostacoli che poneva tra sé, e la realtà che non poteva, o non voleva riconoscere, per una giusta paura.
Ecco ciò da cui un giorno era fuggito, ecco ciò che lui spiava alle sue spalle nel dipinto, per ingannare se stesso e la sua solitudine.
Mai più s’era voltato, dopo l’ultima volta, ad ammirare un mondo ricamato d’armoniose tinte celesti a cui aveva dato tanto, ma da cui non accettava nulla, nemmeno parole che dovevano incoraggiarlo a non spiare più oltre le sue spalle, ma a lasciarsi abbracciare dalla vita.
Lui fu capace solo di disprezzo, per timore di se stesso o per orgoglio, o per incapacità.
Mai l’aveva rimpianto.

In piccoli istanti che avevano la forza di centinaia cristalli di ghiaccio pioventi, sembrarono tornare a vivere due figure strette nel freddo, che nel gelo del passato erano rimaste scolpite, sotto i riflessi di una luna estranea che zampillavano sul lenzuolo di quel fiume, che entrambi solcarono su di un rumoroso battello, e che lei, quella donna non più ignota, coprì di gemiti silenziosi, gocce di un sibilo eterno, emesso dall’indimenticabile volto dei rimpianti, che diventava forse sincero con le sue illusioni, sapendo che quei momenti sarebbero rimasti lì, perle incastonate di quella notte lontanissima, che adesso, in quel viale immerso nell’inverno misterioso, stava ricominciando per loro, per altri deboli istanti ancora.

Lui le volle bene, semplicemente come emblema di ciò che anche lui avrebbe voluto essere, con la consapevolezza che sarebbe stato impossibile diventarlo. Rideva, rideva, il giovane professore, quando lei sosteneva che sarebbe stato un’amicizia eterna, un legame lungo più dell’età, lo diceva nei pochi momenti in cui sembrava che ciò fosse davvero realizzabile.
Ma lui conosceva l’orda distruttrice del tempo.

L’ultima volta che s’erano visti, mentre lei lo salutava con un “arrivederci” pur sapendo che ciò sarebbe avvenuto chissà quando, dopo un commiato che sapeva tanto d’addio, lui, consapevole la lasciò, annunciandole che se il destino li avesse fatti rincontrare, lei non l’avrebbe nemmeno riconosciuto.
Il tempo, li avrebbe uccisi entrambi, trasformandoli da come essi si ricordavano di essere.

Si era voltato, dopo che ebbe pronunciato quelle parole, nascondendo nella voce le lacrime che le spalle occultavano.
In tutti quegli anni, una volta sola, senti il bisogno di comunicare con lei, le scrisse così una lettera dove le rivelava dove viveva, dove insegnava, e che era felice, soddisfatto, menzogne che dovevano illudere entrambi.

Adesso quella lettera era posata di nuovo dinanzi a lui, ad esigere il fio per quelle menzogne, di cui s’era fatta messaggera anni addietro.
Lei, era madre, doveva esser anche moglie, ed era lì. Forse non l’aveva riconosciuto.
Forse per caso era lì, a confondere una realtà colma di finzioni, forse per condurlo, come un tempo, verso la vita, tendendogli quel nastro salvifico, nonostante anche lei sembrava giacere in basso adesso, nel dipinto dell’esistenza, anche lei vittima della speranza, una speranza di cui da giovane parlava con ardore, ma di cui ora non ne comprendeva più né il linguaggio né tanto meno le promesse.

Ed era triste, come in verità era sempre stata, in quell’ultimo attimo che il destino offriva loro.
La donna salutò l’estraneo con cordialità, per sempre, ma i ricordi non seppero più allontanarsi con lei.
Lui non rispose al saluto, si voltò di spalle, quasi rannicchiato su se stesso e i suoi occhi la spiavano allontanarsi nell’infinito, che forse lei aveva ancora volontà di conoscere. Che cosa sentiva di poter meritare da lei? Nulla, come nulla meritava quando erano entrambi ragazzi, quando lei gli sedeva accanto, e dal nulla gli diceva di volergli bene. Lui non le credeva. Non avrebbe mai creduto a nessuno che avesse mai detto di volergli bene, non avrebbe creduto ai sentimenti di nessuno nei suoi confronti, neppure se questi si potessero toccare, vedere, assaporare, e godersene fino in fondo.

Eppure lei pensava ancora che ci potesse essere qualche via di salvezza, perché? No. Non poteva essere così. Ma se invece lo fosse? Come avrebbe potuto non riconoscerlo?
E se invece fosse stato lui a non voler essere riconosciuto? Perché sempre egli aveva agito come credeva, e lei sempre aveva rispettato ogni cosa, pur soffrendo un terribile distacco che i suoi sentimenti non meritavano. E forse anche questa volta, questa ultima volta, è stata come sempre la stessa cosa, e lei, e lui, avrebbero accettato e patito allo stesso modo, senza pensare che fosse possibile cambiare il corso della storia di entrambi.

Pur ferito come da una lamina rovente, il professore che fino a quel pomeriggio uggioso credeva d’aver vinto, soffriva, per non essere mai stato anonimo al mondo come invece s’era illuso di essere,
Colui che lei cercava, esisteva ancora? Non l’avrebbe mai più saputo, perché era svanito con lei, nei ricordi, nei sensi di colpa, e nelle attese di quella donna.
Come le disse quel giorno, è stato poi per davvero.

In ogni caso, riconobbe che quella era l’ultima punizione che s’era inferto, sapeva che non avrebbe nemmeno meritato che lei lo riconoscesse, la vita lo puniva, esimendolo da quei sentimenti che lui non volle conoscere e che stimava troppo poca cosa per estinguere la colpa di esistere. E lui stesso era conscio di non aver mai vissuto, mai però la vita gli era passata tanto vicina, quanto in quel momento, offrendosi come ultima scorciatoia per rifiorire, dimenticando le macchie di un passato fin troppo mescolato al presente, denso di vergogna, e lui, quella vita, l’aveva lasciala andare oltre, senza catturarla.

Avrebbe continuato, nel disgusto di un copione che sembrava recitare identico ogni attimo, da sempre. Sarebbe tornato a casa, come se nulla fosse accaduto. Pronto a ricostruire quel fragile equilibrio di sopravvivenza, sospeso tra i due estremi di ricordo e speranza, ma che non avesse nulla né dell’uno né dell’altra, solo, murato vivo dal presente.
L’indomani avrebbe riscoperto il viale che s’affacciava sulla valle, avrebbe riassaporato le scene delle sue remote origini, si sarebbe recato nella libreria. L’avrebbe fatto soltanto con un indelebile rimorso in più da nascondere nella sua invecchiata marmorea espressione, e si sarebbe ancora di più ingannato dicendo, che in fondo, era quanto meritava, la sua colpa.

I monti pacati erano ancora prede del buio, le piccole luci tremanti come stelle in agonia cadute e stesesi al suolo, al freddo, sonnecchiavano appena.
I picchi lontani sarebbero rinati all’aurora, quando la mattina avrebbe ridipinto ogni cosa identica a come s’era assopita al tramonto, per un altro giorno in più, con nuovi sgualciti ricordi da riporre con cura negli stipi serrati, e una strada da percorrere al pomeriggio.
Sarebbe rinato identico il mondo anche per lui, che poteva solo immaginare da qualche parte oltre le colline, l’umanità vera e lontana che stesse brindando alla vita, nonostante non riuscisse a non credere, che nei preziosi calici che l’esistenza generosamente offriva nel meraviglioso convito, non ci fosse altro che nulla.


[the end]

lunedì 20 dicembre 2010

Immobilità - chapter 3


- Mi scusi - esordì la donna con voce ansiosa, abbassando celermente il finestrino della sua vettura, mentre accostava nervosamente ai margini del marciapiede. - Sa dirmi la strada per raggiungere la stazione? -

Il professore percepì quelle parole pronunciate velocemente, con un tono molto strano o camuffato, come se fossero usate per nascondere delle menzogne senza avere la capacità di mentire, anche se lei lo faceva con molta innocenza e paura, come una bambina che si rivolgeva con ingenuo inganno ai genitori.

Ebbe subito la sensazione che la donna avesse più anni di quelli che dimostrava.
La pausa che seguì la precisa richiesta fu interpretata dalla donna come dovuta alla raccolta delle informazioni necessarie ad esaudirla. Invece il professore restava a fissare qualcosa che aveva catturato la sua tensione, che si agitava alle spalle della signora, un giovinetto che al massimo avrebbe potuto avere quattro anni dallo sguardo severo e beffardo allo stesso tempo, scurissimo di capelli, che si dimenava forse per impazienza di un viaggiotroppo lungo come evidentemente le valigie ammassate rivelavano.

Quasi basito nello scrutare il volto di quel fanciullo dall’aria euforica, ma stranamente familiare, continuava a tacere.
- Perdonatemi signore, ma... - irruppe spazientita la madre di questi come per mettere ordine a quelle circostanze e pensieri che s’erano affastellati di colpo nella mente del professor R., esibendo tutta l’ansia che provava e che non riusciva camuffare.
Egli rinvenne confuso e indicò lentamente il percorso osservando la strada che avrebbe dovuto attraversare, come se stesse scoprendo quella via adesso per la prima volta.
La donna prestava attenzione, ma la sua aria non convinse il professore che dopo aver indicato la strada, indugiò in silenzio, non scorgendo nessun segnale d’appagamento in quel volto, che sembrava avere nel buio una collocazione naturale e spontanea come quella della luna o delle stelle. Forse il professore si aspettava ancora qualcosa, qualcosa d’insolito che non tardò ad arrivare.

- Mi scusi ancora, è lontano il liceo... - mentre cercava di ricordare qualcosa che le sfuggiva, prese un foglio molto stropicciato, che dimostrava d’essere stato letto chissà quante volte, dalla sua borsa e, leggendo tra quelle righe, sembrò calmarsi lentamente come il vento che s’intorpidiva sul mare. - ... il liceo classico “C. Pavese” ?

Il professore sibilò soffocato e incredulo; ebbe un evidente sobbalzo, come se avesse ricevuto un poderoso pugno nello stomaco, al sentir pronunciare il nome dell’istituto dove aveva insegnato per circa quattro anni e che da tre ormai era scomparso nell’attesa di essere riedificato dopo il terremoto che lo aveva distrutto. Un imprevedibile tuffo nel suo imminente passato, che per la prima volta gli si parava dinanzi, l’ultimo dei suoi rimpianti veniva così sobriamente evocato, mentre spalancava senza pietà il cancello da cui un torrente di rimorsi sconfinò nella coscienza, ed un tifone di rabbiosa afflizione eruppe violentemente straripando ovunque.

Si sentiva avulso da quanto accadeva in quel momento, isolato da tutto, senza significato, incomprensibile, ove la notte assurgeva a nido incombente da cui partoriva ogni illuminazione insensata e senza vita, ove trionfava mostruosamente l’espressione di quel bambino che continuava ad agitarsi, che si muoveva sempre più avidamente, sempre più rideva come se si stesse dilettando a vederlo travolto in quel vorticoso tumulto di follia, come fosse proprio quel moccioso a manovrare la sua coscienza a lungo immota, adesso strapazzata come una pagina nivea, mai scritta, in preda alla bufera.

- Si sente bene? Ha bisogno d’aiuto? - la donna si rese conto che il professore ebbe uno strano mancamento e sudava parecchio, e mentre s’affrettava ad uscire dal veicolo per aiutarlo, il professore si riebbe immediatamente e con un cenno, seguito da un rassicurante sorriso, respinse cordialmente l’assistenza della signora, per ricomporsi immediatamente.

- La scuola, è chiusa...è crollata tre anni fa... il terremoto… - emise quelle parole sciorinando in esse lo spirito dei ricordi angosciosi legati a quell’evento, vittima com’era di quell’inspiegabile confusione.
Qualcosa non andava, era evidente, come se qualcosa che lì si trovasse non doveva esserci affatto adesso, come se appartenesse ad un altro tempo, ad un altro mondo, e fosse lì a sconvolgere il suo, coinvolgendolo in quello sconcerto. Era forse il bambino? Ma cos’era, un diavolo nei panni di quel moccioso fremente?
- Peccato... mi dispiace, davvero - sospirò una delusione che dissipò tutta l’ansia accumulata, il che poteva indurre a pensare che alla donna la stazione non importasse granché, o non abbastanza quanto la scuola. Si sentì in diritto di sapere.

- Posso sapere, perdonatemi, perché cercavate l’istituto? - provò in ogni modo a non tradire un interesse personale nella sua domanda, per farsi sentire, e sentirsi, del tutto estraneo alla faccenda.
- No, niente, ci tenevo a salutare una persona che……Giuseppe! Basta! - urlò rivolta contro il birbante alle sue spalle, con un’energia ed uno sdegno di cui non la si sarebbe ritenuta capace. C’erano stati attimi in cui quel ragazzino aveva arrecato disturbi maggiori, e la madre l’aveva ignorato, forse perché fin troppo assorta in un pensiero dal quale ora restava svuotata dalla delusione, o forse il disturbo era solo un fastidio che quel bambino arrecava con la sua semplice vitale presenza, tanto difforme dal clima torbido che si stava vivendo. La donna, scaraventò sul sedile accanto al suo il vecchio foglio che non aveva mai posato fin da quando lo trasse fiori la prima volta, e le sue parole divennero traboccanti di tristezza.

Tutto, era triste, in quella donna.
Quei sospiri d’ansia, le mani, piccole piccole, che poggiavano sul duro volante, l’aria stanca sul viso tondo e delicato dalla pelle chiarissima, quei lineamenti che sembravano carpiti da una statua effigiante una qualche divinità greca, e tanto più s’avvertiva quest’impressione di tristezza, quando stringeva le docili labbra in un disappunto arrendevole che, nel poter accarezzare quel viso, avrebbe reso tangibile a chiunque quella tenerezza. Poi... gli occhi, erano tristissimi, le pupille muovevano lentamente mentre offrivano a chi adesso le fissava, una luce fatta di gratitudine e perdono, come se si fossero misteriosamente accorte del disagio che il professore stava provando, e lo condividevano. Quasi ne conoscessero persino i motivi, finanche fossero andati a scrutare nell’anfratto più depresso per apprendere un segreto, che adesso tenevano esposto tra le palpebre, in un’espressione di pietà e di conforto, e volessero dirgli “Non temere, il tuo mistero morirà in me ad un batter di ciglia”.

I suoi occhi erano talmente lontani da lei, come se fossero appartenuti ad un’altra espressione, forse di una vita che giaceva sepolta in un qualunque angolo di lei stessa, che sopravviveva agli anni, e che il professore sentiva tanto vicino alla sua intimità molto più di quanto non fosse la persona che gli era di fronte.

Improvvisamente il professore si sentì tradito senza capire da cosa o da chi.
Dove aveva già ravvisato quelle sensazioni d’oltraggio, che demolivano in un istante la sua falsa e malferma perspicuità?


[to be continued...]

domenica 19 dicembre 2010

Immobilità - chapter 2


- Ah! Buonasera professor R., come mai da queste parti? - si fece avanti un vecchio dall’aria gracile e attenta, che sembrava conoscere davvero bene il professore, giacché quella sua piccola libreria era uno dei pochi luoghi che a questi non dispiacevano affatto.

Il professore difficilmente avrebbe definito amico quell’ometto, dal volto contrassegnato da un tempo che sembrava averlo incoraggiato a calcare affannosamente gli anni per raccogliere i frutti di quelle promesse ancora senza risposta. Sembrava non aver avuto tregue, ma anche di non essersi mai arreso; anziano e piegato, di certo era una di quelle poche persone che incontravano il professore con piacere, con cui talvolta aveva trascorso lunghi e piacevoli pomeriggi nella libreria. Dal suo canto, il libraio aveva da subito inteso che nell’austera figura dal fiero portamento, fosse celata una personalità del professor R. invverità sempre percepibile sul suo volto, ma che pochi riuscivano a cogliere, in quello sguardovgenuino e timido, diffidente per paura; i suoi occhi emanavano lo sfavillio di un bambino chevnon aveva mai conosciuto l’infanzia e che si era sforzato di cercarla in ogni momento, per poivriscoprirla ogni volta diversa.

Passava da quelle parti e vedendo la libreria ancora aperta aveva pensato di affacciarsi evsalutarlo. Caricava la sua voce di un senso di devozione, come sempre faceva nei confrontivdel vecchio, da qualche tempo relegato nella solitudine della sua attività, che questi rimasevcommosso al punto che, se anche il professore fosse andato via senza comprar niente, sarebbevstato in ogni modo contento per l’importanza che qualcuno finalmente sembravavriconoscergli.

- Ah! Se non fosse per quei pochi che sanno ancora come si sfogliano quattro pagine,vpotrebbero anche chiudere tutte le librerie e le biblioteche! Comincio a credere che oggigiorno non resti che la miseria per quelli come me... tutta colpa del... - mentre questi seguitava a parlare senza prendere fiato, professando una lunga serie d’invettive in un linguaggio quasi ancestrale, il professore gironzolava tra gli scaffali della libreria, che in verità, tra i suoi casellari annoverava più polvere che libri.

Seppure il suo studio fosse colmo quasi quanto quel mercato della cultura avrebbe dovuto essere, il professore indugiava ancora tra i titoli che vi erano esposti, annuendo ogni tanto con un incoraggiante sorriso verso l’anziano che proseguiva il suo monologo con vera passione, gesticolando e imprecando.

Ad un tratto, lo sguardo che per un po’ sembrava aver cercato senza sapere cosa esattamente volesse trovare, si arenò in un indeterminato istante su un volume dalla copertina azzurrina, e vi rimase ad esaminano rigirandolo tra le mai.
- Ehi figliolo, cosa hai trovato di tanto interessante? Eh, eh, possibile che ci sia ancora qualcosa qui dentro che tu non conosca già? Fa vedere. Come?! Non dirmi che non lo conosci! - Esclamò il buffo libraio sbalordito, mentre si avvicinava zoppicando appena, sotto il peso dell’esperienza. S’affrettò ad interrompere il suo sopraggiungere inveente prima che si evolvesse in un’interminabile recitazione di notizie circa quel libro. Restò per qualche minuto immobile con quel volume tra le mani, ne sfogliava avidamente alcune tra le prime pagine, ma dalla direzione lontana del suo sguardo, sembrava che stesse sfogliando l’agenda dei ricordi, che in un certo senso, la vista di quel titolo aveva destato da un sonno a lungo cercato.

Non ebbe il tempo di pensare, neanche in seguito, come mai quel volume l’avesse cosè stranamente colto, non trovava alcun nesso tra quel titolo e ciò che sembrava animarsi nel suo inconscio. Capitavano spesso quegli improvvisi scivoloni della mente in vie mai considerate, a causa della parziale inerzia nella quale i suoi pensieri preferivano scorrazzare senza logica, piuttosto che rassegnarsi all’inattesa e amara inoperosità di quell’età, matura benché ancora inconcludente.

Preso da quell’emozione, decise di riporre il libro al suo posto e di tornarsene subito a casa, per evitare che la sua mente approdasse laddove avrebbe volentieri posto confini invalicabili per la coscienza, temendo il riaffiorare di una memoria tutt’altro che dolce, che appesantisse oltremodo il senso della sconfitta, che in silenzio coagulava in fondo alla sua pallida parvenza d’impassibilità.

La valle giaceva totalmente coperta dall’oscuro abito di velluto che la sera aveva indossato, piccole luci tremavano in lontananza, come lucciole impaurite che avevano di colpo perduto la via in quel pozzo di tenebre; la fievole luce dei lampioni illuminava l’aria fitta d’umidità, accerchiando le lampade di un alone di bianco sbiadito, cosicché la via pareva costeggiata da una lunga fila di spettri che si dissolveva nel buio indistinto.

Un brivido strano lo scosse, come una fuga d’emotività che evadesse dalle rigide gabbie silenziose di quelle giornate che trascinava con sé, impedendo a qualsiasi rimpianto di riproporsi sulla scena del presente. Tante volte aveva temuto la minaccia di timidi ripensamenti che avrebbero potuto minare quell’artificioso equilibrio, ma il tempo, la consuetudine e l’indifferenza riuscirono ad isolare i suoi timori. Adesso però, come blocchi ghiacciati che emergono dalle acque allo sgretolarsi della banchisa, quei pensieri stavano tornando a galla di prepotenza. La sua esistenza, ormai, aveva perso del tutto quel gusto d’imprevedibilità, tanto che sarebbe stato vulnerabile a qualsiasi insolito capovolgersi di circostanze; i suoi attimi si susseguivano sempre identici come freddi binari di un treno immersi in un soffio di tedio dal quale cercavano tregua, senza voltarsi, ad occhi chiusi, senza scopo, senza un forse.

C’erano stati giorni, dove l’abitudine era solamente la cornice esile di un dipinto del quale avrebbe chissà quanto voluto essere sia l’artista sia il soggetto ritratto; i temi che vi raffigurava, erano trame intrecciate tra loro, da cui talvolta spiccava qualcuna che s’allontanava, per rintanarsi in un angolo in basso, dove l’artista avrebbe posto la sua firma, il sigillo che racchiude nelle forme a lui più gradite, sentimenti ed anime senza voce. Nulla lo spingeva laggiù, anzi spesso, un ricamo d’armoniose tinte celesti scendeva, forse per sollevano e trascinarlo via, ma non poteva vincere quei toni scuri che allora s’incupivano ancora, occludendo ogni volta quella speranza.

Una schiena ricurva, rannicchiata su se stessa, abbandonata in un angolo di un’enorme scatola, vuota, dimentica, e le pupille rivolte laddove era quanto lui disertava.
Ciononostante, in un tempo o nell’altro ancora, anche per lui poteva esserci stato altro, oltre l’illusione, e quel libro n’aveva ridestato il gemito sepolto, in fondo al ruscello mite dei ricordi, ed una nostalgia diversa prese a comprimergli il fiato. Forse, proprio per questo adesso si trovava in città, conduceva una vita regolare scandita come dai battiti di un orologio il cui pendolo oscillava nel vuoto, per non badare a quella notte priva di luna che s’addensava nel suo intimo.

All’improvviso, qualcosa interruppe la sua assenza, un lampo di realtà lo rapì per un momento inconsapevole e popolò i suoi visionari pensieri di nuove presenze, che quel corpo senza coscienza incontrava lungo il cammino.

Un’auto di piccole dimensioni procedeva lentamente verso di lui, pareva che avesse bisogno d’aiuto, tuttavia, scosso com’era, il professore sembrò ignorare in un primo momento l’automobile che s’avvicinava, poi attese che questa si facesse più prossima. Prima che il mezzo si fosse fermato, riuscì a distinguere una donna alla guida; probabilmente estranea a quei luoghi.


[to be continued...]

venerdì 17 dicembre 2010

Immobilità - chapter 1


I tranquilli passi incontravano la strada bagnata e sembravano non risentire affatto della solitudine con cui percorrevano il solito tragitto che riempiva quei vuoti pomeriggi, traghettando il tempo fino alla tiepida luce della prima sera.

Scorgeva quel sole introverso cedere lentamente il dominio della via, come se fosse svogliato nel tornare padrone per quei pochi minuti, che di lì a poco avrebbero annunciato l’arrivo del vespro, oppure, come se avesse paura di schiarire un cielo scialbo e velato, ignorato per tutto quel giorno, del quale si vergognava a raccogliere le ultime briciole, lasciando che l’ombra trionfante limitasse la vista, impedendole di smarrirsi e giungere laddove un cielo più azzurro si tuffava alle spalle dell’orizzonte incolore, oltre le colline argentate che cingevano la valle, coronandola di cime levigate e dalle semplici fattezze.

D’estate, la valle che stava volgendo in punta di piedi al crepuscolo, si diffondeva di colori e profumi che si stentavano a ricordare nella landa grigia che si stagliava ora dinanzi, dove fragili banchi di foschia si dissolvevano, spandendo qua e là un senso di sterminata stanchezza, il desiderio di un riposo che nulla avrebbe dovuto violare e impedire, mentre si dileguava ogni istante un’eco remota dei giorni lieti fra i bassi picchi dei colli, sempre più vicini alla notte, sempre più lontani.

In una confusione di malinconia e ammirazione, poggiava le sue braccia affacciandosi al muretto oltre il quale si poteva scorgere quella piccola immensità, mentre le prime luci della strada s’accendevano pigre. Sapeva che quella sera sarebbe durata più a lungo e che avrebbe volentieri ritardato il suo rientro a casa.
Dalla piazza del centro proveniva ancora il frastuono delle automobili immerse nel traffico serale, e il vocio dei passanti, che pullulavano vispi attraverso le vie avrebbe riempito i marciapiedi finché l’orologio non avrebbe rispedito ognuno a compiacersi dei sapori della cena, o forse ad agghiacciarsi dinanzi la televisione.

Da quando aveva smesso di lavorare, egli evitava di percorrere quelle strade colme di persone, tanto che il viale costellato da pozzanghere, che s’ergeva sul fianco del colle su cui era adagiata la cittadina, era per lui quanto di più caro e insostituibile la giornata potesse offrirgli; ogni attimo trascorso lungo quella strada era una finestra aperta alla memoria del suo paese, e la nostalgia, quantunque non lo visitasse mai, poteva incontrarlo unicamente in quel luogo, in cui ugualmente non avrebbe mai avuto alcuna possibilità di rivalsa.

Non poteva essere certo un senso d’insopportabile nostalgia per delle radici di cui mai s’era sentito germoglio sano e felice a rendere pavido il suo incedere quotidiano lungo quel mirabile belvedere che l’ospitava, ma nei sospiri che la terra acerba d’autunno emetteva, sembrava arenarsi ancora più saldamente quel vivo sentore intrinseco di disfatta, per una fuga senza movente che all’improvviso s’era arrestata, dopo un incauto peregrinare che avrebbe dovuto dare un’anima ai suoi giorni, ai suoi sollievi, che avrebbe dovuto comporre il volto della speranza e di una presenza delle quali essere artefice.

Ancora non era riuscito a capire, ancora sentiva di dover tornare a cercare, senza che le ombre e le tentazioni di disperati e umilianti ritorni potessero capovolgere il suo irrequieto intento di conquista. Ma in quella conquista s’era smarrito da tempo, E tra quella cinta di colli si spegneva la sua nebbia, il dubbio che l’aveva spinto ad andare, che ora s’indeboliva in quelle che non erano crude certezze, ma indefinite benché tangibili prigioni concentriche incatenanti e infiacchite dal tempo, del quale mestamente egli tutto ora accettava, e quella stanchezza irresoluta, e quella sua inefficacia, e il suo silenzio, l’avevano vinto.

La valle era adesso sgombra dai suoni e dai sapori del temporale che s’andava sfogando lontano, le piccole botteghe del quartiere del borgo antico s’accingevano a salutare quel giorno che si disponeva a tacere. Soltanto la vecchia libreria era ancora aperta, aspettando la sua quotidiana razione di soddisfazioni, che quel giorno non le aveva ancora portato.

Non appena giunse nei pressi dell’entrata e ne varcava la soglia, un docile motivo dai precipitati lamentosi disegnava i contorni di un piccolo ambiente rosicchiato dall’umido, ad accoglierlo era come sempre un’affettuosa voce familiare, destata da un’inattesa fiducia, pregustante la possibilità che finalmente sarebbe potuto entrare qualcos’altro, oltre al cliente.



[to be continued...]

giovedì 16 dicembre 2010

Homini lupus


Ebbene, non gli serviva a niente fingere: non era affatto contento dell'esistenza di altri esseri umani. Non gli si  farciva l'esistenza di variegate distrazioni, non gli si coloravano le giornate, non aveva dismesso i panni lerci dell'insonne.



A dire il vero, a volte avvertiva una temporaneamente magnetica attenzione verso categorie circoscritte di popolo: elettori afferenti alla sua medesima circoscrizione elettorale in pieno godimento dei propri diritti politici, consumatori, clienti, puttane... persone a progetto.

Qualche conto, tuttavia, non tornava. Perché nonostante non facesse alcuno sforzo per variare  il gradiente di apprezzamento attivo e passivo tra lui e gli altri, gli capitava sovente di finire sul cazzo agli altri senza alcuna ragione.

Ma ciò che più lo turbava era di non riuscire a farsi odiare quando vi si adoperava scientemente: perché non riuscivano a capirlo.

E non vi è più profonda cesura con il convinto presiedere se stessi nel mondo dello sprecare il proprio odio verso chi non sa apprezzarlo.

mercoledì 8 dicembre 2010

In nomine patris, et filii


I



Io e te non abbiamo mai realmente parlato. Sai, quella cosa che si fa sorseggiando un bicchiere con le gambe incrociate ad un trespolo, mentre una tettona ti riempie un boccale da una pinta.

Niente. Al netto delle nostre divergenze sui metodi educativi implementanti sui prodotti maturi dei tuoi coiti, s'intende.

Ed è stato anche giusto. Una disciplinata separazione dei ruoli, delle funzioni, delle carriere. Però ora te lo dico, visto che mi stai ascoltando, e che puoi fare solo quello.
Non ho mai sopportato quella tua arroganza di voler forzare ogni cosa con tecnocratico dirigismo, con lo stesso buffonesco esito di un viandante con un ombrellino rotto al cospetto dell'uragano katrina.

Questa ostinazione a non voler includere  il normale corso delle cose nel novero delle condizioni ammissibili: l'asciugacapelli sulla calotta brulla, quelle tue orribili combinazioni nel gestire gli abiti gessati con associazioni improprie, quel non voler accettare l'ammortamento dell'automobile, quella maniera rude di spremere il limone su ogni cosa, quel tuo insulso ricordare ogni singolo trascurabile affronto che ti ha reso imponderabile qualsiasi apertura di credito con il futuro.

Marchiare il mondo per provare ad ottenerne un capillare controllo.

Che hai? Vuoi che ti tolga la benda dagli occhi e il fazzoletto dalla bocca? Ma devi continuare ad ascoltarmi. L'udito è senza dubbio il senso più prezioso di un essere umano, dopo l'olfatto.
Adesso ascolta le mie parole, e percepiscine il fetore.

Devo farti i miei complimenti. Non puoi vedermi, ma ti informo che mi sto inchinando reverenzialmente di fronte a te. Hai avuto l'abilità di plasmarmi al tuo controllo senza lasciare incustodito il libretto di istruzioni che tradisse il tuo archiettato proposito.
Ma forse sei una vittima anche tu di questa folle resistenza ad una guerra che non ci appartiene. E ci hai portati con te in trincea per soverchio amore.
L'armistizio lo scriviamo insieme però.

Vedi, è stato istruttivo rapportarsi al mondo con una strategia già delineata. Una collocazione di tempi e luoghi somministrata con sapiente sagacia in modo tale da sembrare inevitabile. Posti da vivere e comportamenti da assumere iniettati nell'immaginario del percorso prima ancora che quella sorte si potesse manifestare.
Così il tenore dei miei eventuali successi, così tutti gli alibi delle mie imprevedibili mancanze.

Bravo, per essere riuscito a presentare come una via assoluta, quella che era meramente una delle tante possibilità.
Cosicché l'esperienza già predisposta a tavolino, già confezionata nell'alterata sofisticazione dei nostri giorni, ci ha alienati da quelle speranze che oggi sbucciamo con il temperino del rimpianto, scoprendo che forse saremmo stati più bravi nel fare altro.

Perché tutto doveva andare per bene. Per soverchio amore.

Ma adesso che abbiamo parlato, poniamo fine a questa stagione, e lasciami il testimone di questa precotta mensa  dei poveri. Posso servirmi da me.

Non mi interessa la tua opinione, non oggi, padre mio. Oggi qualcosa sfuggirà al tuo controllo, oggi non potrai dirigere nulla, ma potrai soltanto ascoltare.

Cos'è questo scatto che hai appena ascoltato? La tua Beretta, padre. Quella che custodivi nella tua valigetta nascosta in fondo alle tue ridicole giacche nel tuo armadio.

Sei pronto, padre?

Non la ricordavo così pesante. Me la facesti tenere in mano da bambino, l'ultima volta, mentre imamginavi un avvenire radioso per me.

Ora la stringo io, e determino il prossimo, restante breve futuro per te.

Ci siamo.

Mirare da così vicino faciliterà ogni cosa.

Non sento niente, padre.

I tuoi gemiti sono ormai lontani.

Addio.

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II

Qualche ora dopo, a seguito dello sparo, nella vecchia cantina trovarono l'uomo legato e imbavagliato. Ai suoi piedi una pozza di sangue dove giaceva il cadavere del figlio morto.

lunedì 6 dicembre 2010

Monologo interiore


- Ci sono dei files sparsi nella mente che rallentano i tuoi processi, Alcor. Li dobbiamo archiviare in un'unica cartella. 

- Va bene.

- Come prefersci che la chiamiamo la  cartella: "esperienza" o "inculate"?

- È lo stesso. Fai tu.

domenica 5 dicembre 2010

Wise


Ci sono giorni in cui rivolgermi la parola non è proprio una mossa saggia.

venerdì 3 dicembre 2010

mercoledì 1 dicembre 2010

Scripta volant


Scrivere non è catartico, e non giova alla salute. Scrivere non è come far sesso, che ti aiuta a guardare la giornata con il sorriso di Joker all day long.




Scrivere non è una maniera per rimpinguare i buchi di tempo, né una forma di raccolta differenziata degli scarti di idee. Scrivere non ha nemmeno la funzione di una rete per molluschi gettata nel bacino ricolmo di donzelle bramose di farsi imbonire dalle chiacchiere di chi non accetta l'estinzione del congiuntivo.




Scrivere non è il surrogato freudiano della masturbazione, e non genera calli alle mani. Scrivere non è neanche comunicare perché di quello che viene recepito da coloro che leggono non me ne può fregar de meno.



Una volta mi è capitato che qualcuno mi chiedesse di partecipare a contesti collettivi, e accettai di buon grado. Noi che apparteniamo al ceto della sinistra snob, quella che partecipa alle manifestazioni della FIOM senza disdegnare alcune delle parole espresse da Marchionne, e che dialoga con i lavorati di Pomigliano stringendo sotto il braccio il Sole 24ore, non amiamo pubblicizzare il nostro operato.


Però queste cose me gustano assai. Indi pubblicizzerò: la penna del diavolo.

Ah, va bene tutto. Ma Pietro Germi era molto meglio di Monicelli.